È il 24 settembre 1880, a Roma nasce Cesare Serviatti, il quale, molti anni più tardi, cercherà di fare concorrenza a un ben più noto serial killer d’Oltralpe, ci riferiamo ovviamente a Henri Desirè Landru…
Fra poche righe ci recheremo prima a La Spezia, in un modestissimo appartamento di un’inguaribile ingenua signora, poi scopriremo qualcosa di particolarmente macabro alla Stazione Centrale di Napoli, al deposito Oggetti Smarriti, ma prima dobbiamo fare la conoscenza con un serial killer “tardivo” un uomo che, dopo mille mestieri – tra i quali anche il macellaio, non dimentichiamoci di questo particolare… – pensa di poter sbarcare allegramente il lunario “ammaliando” – si fa per dire! – giovani o meno giovani signore afflitte da un male a volte difficilmente incurabile senza disastrosi effetti collaterali: la solitudine.
Nel 1928 Cesare Serviatti ha poco meno di cinquant’anni, ha alle spalle una lunga serie di licenziamenti a causa del suo carattere irascibile e violento, ha ben poca voglia di trovarsi qualche altro faticoso e scarsamente retribuito lavoro e allora ha un’idea geniale: gli annunci economici sui quotidiani, alla voce “Cuori solitari” o qualcosa di simile che all’epoca andava di moda.
Così, su vari giornali, compare più volte l’annuncio…
“Scopo matrimonio – è bene mettere in evidenza le serie intenzioni! – pensionato, quattrocentocinquanta lire mensili, conoscerebbe signorina con mezzi – altro elemento che fa da indispensabile contorno ai classici “due cuori e una capanna – , libera e indipendente, preferibilmente cameriera.”
Tutto sommato, Serviatti ha le physique du rôle indispensabile per non suscitare paure o sospetti nelle “allodole” che si faranno abbindolare dal suo “specchietto” apparso sui quotidiani.
È basso, abbastanza tarchiato – quasi con la classica “pancetta da Commendatore” – di gran parte di quella che una volta era la sua folta capigliatura rimangono poche tracce, compensate però da folti baffi che gli conferiscono una certa aura di “autorevolezza” anche perché si presenta come “maresciallo in pensione”.
Ma quel che più conta è molto socievole, particolarmente simpatico e come “valore aggiunto” mostra una ferita di guerra che nelle sue vittime suscita la classica “sindrome della crocerossina”, il pericoloso “io ti salverò!” dell’aspirante salvatrice la quale non sa che la ferita di guerra è invece frutto di un banale incidente sul lavoro di quel furbacchione del “suo” Cesare!
Insomma, Serviatti non sarà di certo Rodolfo Valentino o Amedeo Nazzari, ma sembra sul serio un “bel partito” con cui convolare a giuste nozze.
O almeno così pensano le varie signore che, speranzose, rispondono al suo annuncio rivolto a donne sole, senza amici o parenti, pronte a una romantica fuga d’amore ma solo se posseggono un bel po’ di soldi in banca…
La prima a pentirsene è una certa Pasqua Bartolini Tiraboschi, uccisa a coltellate nel sonno nel suo modestissimo appartamento di La Spezia e il cui corpo abilmente ridotto ai minimi termini dal Serviatti viene gettato nel “pozzo nero” della casa.
Pasqua Bartolini Tiraboschi – non sono riuscito a trovare le fotografie di nessuna delle vittime del Serviatti – ma è una qualunque gentile signora Anni Trenta che avrebbe potuto rispondere ai suoi annunci della rubrica “Cuori solitari”.
Ma è ovvio!
Si tratta di un omicidio a solo scopo di realizzare un facile guadagno.
E chiaro! La furia omicida del Serviatti si è scatenata dopo che si è accorto che ciò che ha ricavato da un atroce omicidio non vale di certo il rischio di passare qualche anno nel “godersi il sole a scacchi”, ovvero nel guardare il cielo attraverso le sbarre di una prigione!
E invece no, assolutamente no!
Indagando sul modus operandi del Serviatti anche dopo gli altri due omicidi per i quali è stato condannato, ci si accorge che dietro gli apparenti interessi materiali scatenati per un insano attaccamento allo “sterco del Demonio” c’è dell’altro…
Ci sono altre pulsioni strettamente legate a problemi di devianza sessuale, a una parafilia sconfinante nella necrofilia – forte attrazione sessuale verso i cadaveri – e nel necrosadismo, ovvero scempio e mutilazione di un cadavere con il quale si è appena avuto un rapporto sessuale.
Il “Landru del Tevere” – come poi viene appellato il Serviatti – agli occhi di un criminologo appare dunque un caso complesso in cui coesistono entrambe le citate devianze sessuali, comportamentali.
In pratica, egli, dopo aver concretizzato l’appuntamento con le aspiranti “signora Serviatti”, le portava nella sua casa, aveva con loro un rapporto e le strangolava proprio quando esse raggiungevano l’acme dell’eccitazione sessuale.
Ma non finiva qui…
Chiaramente affetto da necrofilia, Cesare Serviatti approfittava dell’aver a disposizione un cadavere femminile e aveva con esso altri contatti sessuali che lo appagavano in pieno. Però, poi, bisognava liberarsi del corpo della vittima.
Qui subentrava la sua esperienza di infermiere e di macellaio…
Dissezionava il cadavere e cercava la via migliore per disperderne le tracce, come ora vedremo nel caso della sua seconda vittima, Bice Margarucci.
No, purtroppo anche la foto di questa graziosa signora “Anni Trenta” non è di Bice Margarucci, ma al lettore rende l’idea di quale genere di persone mirasse il “Landru del Tevere”.
È il 3 novembre del 1830 e sul litorale laziale, in pratica tra Ostia e Santa Marinella, nelle reti dei pescatori, oltre al solito frutto delle loro notturne fatiche, finisce anche il cadavere decapitato di quella che poi si rivelerà essere stata un cameriera in servizio presso qualche famiglia della ricca borghesia romana.
Si tratta di Bice Margarucci, anch’ella caduta nella “tela del ragno” tessuta dal Serviatti – un rozzo, scialbo, emulo del più celebre Landru – sedotta, derubata dei risparmi di tutta una vita, strangolata durante un convegno d’amore, fatta a pezzi e messa in una valigia poi gettata nel Tevere da Ponte Garibaldi.
La corrente del fiume aveva poi provveduto a trascinare il corpo fino al mare, dove viene trovato da alcuni pescatori.
Il Tevere e Ponte Garibaldi. Da qui il Serviatti gettò il corpo della sua seconda vittima, la povera Bice Margarucci.
Passano altri due anni – evidentemente durante questo intervallo di tempo il Serviatti dilapidava quel poco che aveva ricavato dal precedente omicidio – e un altro macabro ritrovamento viene effettuato presso la Stazione Centrale di Napoli…
“Non aprite quella valigia!”
No, non è questo il titolo dell’omonima pièce teatrale liberamente ispirata alla commedia “Ma per fortuna è una notte di luna” di Ermanno Carsana.
È la mattina del 16 novembre 1832 e mentre il pacifico responsabile dell’Ufficio Oggetti Smarriti alza da terra due valigie di cartone rinvenute dai poliziotti su un treno giunto poco prima in stazione, la serratura di una delle due valigie – a causa del peso eccessivo di quel che contengono – si apre e mostra un macabro contenuto: pezzi del cadavere di una donna, avvolti in fogli di giornale.
Sarebbe stato bene che l’invito che costituisce il titolo di questo paragrafo fosse stato gridato a chi, poi, ebbe il compito di aprire entrambe le valigie…
In una c’è il tronco di un cadavere femminile, insieme alla testa staccata dal busto e del tutto priva del cuoio capelluto.
Il volto è irriconoscibile, orrendamente sfigurato a colpi di mannaia, un occhio è assente, il naso è del tutto fratturato e anche il professor Guidone, perito giudiziario del Tribunale di Napoli – pur abituato a questi spettacoli – ne rimane turbato.
Nella seconda valigia ci sono gli arti inferiori della vittima, per metà amputati.
All’obitorio di Napoli, Guidone cerca di ricomporre il corpo della sventurata e, considerato il colore delle sopracciglia e la lunghezza delle membra amputate, stabilisce che la vittima era alta circa un metro e sessanta, aveva capelli castani, era di robusta costituzione, non aveva più di trent’anni, aveva un aspetto piacevole e in vita aveva condotta un’esistenza del tutto normale, in un ambito più che civile.
Ma è ovvio!
Si tratta di qualche attricetta in cerca di fortuna nel variegato e difficile mondo dello spettacolo e così finita per essersi messa contro il solito bellimbusto che voleva indirizzarla al “mestiere più antico del mondo”!
No, assolutamente non è così, poiché poco dopo, alla Stazione di Roma, abbandonata su un convoglio, viene ritrovata una terza valigia il cui sanguinolento contenuto ricompone perfettamente il macabro puzzle iniziato a Napoli.
La polizia inizia le indagini cercando di ripercorrere il tragitto dei treni diretti a Napoli e a Roma nelle ultime ore, interroga anche tale Giuseppe Pescatori, funzionario della stazione partenopea il quale riferisce di aver avuto un incontro con un “…viaggiatore sulla quarantina, alto, con baffi piccoli e spioventi…” particolarmente interessato alle fermate del treno numero 7 proveniente da Torino.
La descrizione non si attaglia del tutto a quella del Serviatti anche perché il “serial killer dell’Esquilino” – come anche viene definito il Serviatti – è basso, tarchiato e soprattutto non possiede la “voce dal timbro molto sottile, quasi muliebre, con spiccato accento toscano…”, come riferisce ancora il Pescatori.
Però, stranamente, la sua testimonianza è in sintonia con quella di tale Giacomo Salvati, controllore del treno su cui viaggiò il proprietario delle due pesantissime valigie e, per tal motivo, fonte di multa per lo strano viaggiatore il quale aveva commentato la sanzione pecuniaria dicendo: “Sono piene di carne salata!”.
Due classiche “valigie di cartone” in uso anche negli anni in cui si svolse l’azione omicidiaria di Cesare Serviatti che le utilizzò per portare lontano dal luogo del delitto il corpo massacrato di una delle sue vittime.
La “carne salata” appartiene alla sventurata Paolina Gorietti, nata a Petrignano, nei pressi di Assisi, nel 1893, colf – ma allora non si chiamavano ancora così! – presso la famiglia Montefiore, residente a Roma in un elegante villino di Via Giulio Caccini, al civico 9.
La quasi quarantenne Paolina era da poco scomparsa dopo essersi fidanzata con un uomo che le aveva promesso eterno amore ma che al momento era stato in grado soltanto di prelevare ben 13.000 lire – una somma non indifferente per l’epoca – dal suo libretto postale
L’ingenua Paolina aveva confidato alla sua più cara amica, Olga Melgradi, di avere incontrato un uomo cordiale, simpatico, sensibile, cinquantenne maresciallo in pensione, disposto a sposarla e passare tutto il tempo della loro esistenza… a La Spezia dove i risparmi di Paolina avrebbero consentito di gestire un’elegante, piccolo, romanticissimo albergo.
“Magari – avrà pensato Paolina – non è proprio un Adone, però – citando un Metastasio… mai da lei conosciuto – “È l’adattarsi al tempo (che passa) necessaria virtù!”.
Così l’animalesco fascino del “maresciallo in pensione” ha la meglio anche su qualche legittima perplessità della terza vittima del “Landru” nato e in parte vissuto all’ombra del Colosseo.
La mancanza di qualsiasi documentazione fotografica relativa alle vittime del Serviatti ci spinge ancora una volta a riportare, al posto della povera Paolina Gorietti, una qualsiasi foto… d’epoca. Non ce ne voglia, chiunque ella sia, la gentile signora qui raffigurata!
L’ingenua Paolina, convintissima di dare una radicale svolta alla sua non eccitantissima esistenza, lascia l’impiego presso la famiglia Montefiore, fa armi e bagagli, si fa prestare una valigia – quella che a Roma diviene la sua “ultima dimora” – e il 4 novembre 1932 parte alla volta di La Spezia.
Senza tener conto di nessuno dei consigli che, insieme alla valigia, la sua amica Olga Melgradi le dà riguardo qualche notizia in più da prendere sul suo promesso sposo.
L’11 novembre Paolina scrive all’amica che sta benissimo e la incarica di procurarle i documenti necessari a convolare a giuste nozze.
Olga prepara quanto a lei richiesto e spedisce la busta a La Spezia. Peccato che tale busta sarà aperta soltanto dalla polizia quando apparirà chiaro che Paolina… non la potrà mai più aprire.
Infatti, non ricevendo notizie della sorella, Gino Gorietti e la Melgradi ne denunciano la scomparsa, descrivono agli inquirenti lo strano “fidanzato”: dai miseri resti, da un piede malformato, da una cicatrice sull’addome e dalla mancanza di un dente riconoscono senza ombra di dubbio la sfortunata Paolina.
Poscia, più che ‘l dolor potè ‘l digiuno”
Cesare Serviatti è ormai più che chiaramente il “Landru del Tevere” ma non ha né lo charme né la preparazione culturale – né tantomeno il forbito eloquio! – di Henri Désiré Landru e finisce presto per confessare i suoi tre delitti e – forse in un momento di folle e ipertrofico Ego – ne confessa altri sui cui all’epoca ben poco si indaga.
Confessa anche come si era svolto l’incontro d’amore…
Giunta a La Spezia, Paolina si era recata in via Genova 25, nel più che modesto appartamento del Serviatti, dove scoppia subito qualche inevitabile litigio volto a capir meglio quale sarebbe stato il suo futuro di sposa, forse madre ma sicuramente tenutaria di una pensione che le avrebbe assicurata la vita agiata che da sempre sospirava. Durante uno di questi violenti alterchi il Serviatti le sferra un violentissimo calcio al ventre che provoca un’inarrestabile emorragia interna alla donna.
“Va bene – avrà pensato il ben poco scaltro Cesare – l’ho ammazzata, però i soldi li ho presi, ma ora debbo liberarmi di questo ingombrante cadavere!”
Ormai – come ha già fatto con Pasqua Bartolini Tiraboschi e anche con Bice Margarucci – ha collaudato un metodo che fa ricorso alle sue precedenti attività di infermiere e di macellaio… e lo mette ancora in pratica!
I carabinieri erano arrivati a lui poiché questo poco scaltro aspirante “Landru del Tevere” aveva rivelato alla sua ultima, sventurata, aspirante sposa il suo recapito romano, in via Principe Amedeo 168, al quartiere Esquilino.
E lì, il 14 dicembre 1932 lo raggiungono i poliziotti e lo trovano a cena con due altre signore, sicuramente candidate a… finire i loro giorni in una poco confortevole valigia!
Si tratta di due inseparabili amiche, Barberina Baldelli e Angela Taborri, le quali condividono sia le alterne fortune dell’aitante Serviatti sia… il letto, in uno squallido ménage á trois.
Anzi – uomo “tutto di un pezzo”, “uomo d’onore”, diciamo così! – Cesare Serviatti convola sul serio a giuste nozze con la Taborri, sicuramente dotata di qualche considerevole risparmio…
Gli allibiti inquirenti pensano che le due donne non possono essere estranee alle passate vicende del loro “innamorato”, le interrogano, le rinchiudono per un po’ di tempo nel carcere delle Mantellate, ma poi le lasciano libere non avendo trovato particolari colpe da addebitare loro.
Tranne la mancanza totale di senso morale e molta, molta fortuna che le ha salvate da una sicura, tragica, fine…
E il Serviatti?
Novello Conte Ugolino, anche per lui “Poscia, più che ‘l dolor potè ‘l digiuno”, poiché dopo interminabili interrogatori durante i quali tiene allegramente testa alle mille domande dei poliziotti, affamatissimo cede all’idea di un lauto pranzo conclusosi con un bel sigaro toscano!
“La classe n’est pas de l’eau!”, ebbene sì , la classe non è acqua neppure per questo scombinato serial killer romano de Roma!
Il 14 giugno del 1933, presso il Tribunale di La Spezia, ha luogo il processo a Cesare Serviatti il quale, il 7 luglio, viene a morte condannato per furto, rapina e per triplice omicidio.
Alle ore 6,25 del successivo 13 ottobre, presso il poligono di tiro di Sarzana, in località Chiara Vecchia, Cesare Serviatti – dopo avere inutilmente chiesta la grazia – rende al buon Dio la sua poco pulita anima mediante fucilazione sulla schiena.
Il minimo che si potesse fare per un così turpe individuo.
Anche in questo caso non possediamo la corretta documentazione fotografica, ma anche la triste immagine che qui vedete rende bene l’idea di come finì i suoi giorni il “serial killer dell’Esquilino”, o del Tevere, se volete…
Roberto Volterri
Suggeriamo, per Enigma Edizioni di Firenze con copertina di Enrico Baccarini, la lettura di “OMICIDI. Il fascino del Male”, la nuova ricerca di Roberto Volterri insieme a Bruno Ferrante, una sorta di sequel del riuscitissimo “KILLERS. Gli Apostoli del Male” (Eremon Edizioni).