Prologo
L’autunno allestisce paesaggi che paiono finti, disegnati, realizzati con tecniche pittoriche miste, specialmente nelle campagne piemontesi. I campi, ormai quasi interamente spogliati dei loro frutti, sono enormi distese di erba gialla; brillano dell’oro, sotto la fredda ma splendente luce ottobrina, che sfugge dalle bigie lenzuola di nubi drappeggianti il cielo dell’alta padana. Lenzuola che appaiono pesanti, coprono il panorama dando l’impressione che il mondo finisca con esse, che l’intera nostra esistenza sia rinchiusa in una teca rivestita di panno di nuvole.
Se vi capita di muovervi su qualche strada statale minore, di quelle meno trafficate, dalla carreggiata minuscola e priva di segnaletica orizzontale, molto probabilmente, sul finire della giornata, vi troverete obbligati ad accostare, a poggiare le ruote della vostra macchina sul ciglio dell’argine di qualche roggia, di qualche canale d’irrigazione. E dovrete cedere il passo a un’enorme mietitrebbia che fa ritorno verso casa dopo una giornata di lavoro.
Le mietitrebbie: le vedi muoversi in quei campi d’oro, lenti pachidermi dagli occhi luminosi, brucano il terreno, come dinosauri di ferro, leviatani che sanciscono definitivamente la morte di un’altra testarda estate, agonizzante nel vano tentativo di perdurare oltre la sua consueta vita.
In questo affresco dalle tinte contrastanti, di oro e piombo, potete scorgere le nere colonne di fumo innalzate dai roghi delle stoppie, innumerevoli pire funebri che i contadini accendono in barba ai divieti, esortati dalla loro religione, che prevale sul buonsenso e sulle leggi scritte da altri uomini.
Le leggende locali, diffusesi tra i confini del vercellese e del novarese, volano sulle bocche fino alle zone di Saluggia e nei limiti del Monferrato, e raccontano più o meno la medesima storia, quella della Bruciata.
Una coppia che cercava intimità s’era spinta, nella notte di un autunno lontano, a nascondersi tra coltivazioni e qualche boschetto abbandonato. Cercavano più di un riparo per le loro effusioni, i due giovani amanti: un giaciglio nascosto dove riposare, ove poter stare insieme lontano da sguardi indiscreti, poiché i due, pur amandosi, erano promessi ad altre persone.
Quel che accadde, in una di quelle notti, fu che il fuoco li raggiunse: il fuoco appiccato da uno di quei contadini fuorilegge, oppure uno, se non entrambi, dei compagni traditi.
Della leggenda della Bruciata, ad ogni modo, altre voci si rincorrono tra le parole degli anziani, tra le favole nere che i genitori raccontano ai figli come deterrente alle loro marachelle…
La questione dei fuochi nei campi, nelle campagne del vercellese, è un argomento spinoso e dibattuto, ma pochi conoscono i motivi che spingono alcuni di questi contadini a disobbedire strenuamente alle imposizioni della legge; questo lo sa bene il vecchio Artemio, un novantenne dal fisico ancora possente e dalle mani nodose, levigate da una vita di lavoro nei campi. Artemio si gratta sempre la testa piena di capelli bianchi, di un candore splendente e pulito come la neve; si passa le mani in quel cespuglio sbiadito quando si parla degli abbruciamenti, poi guarda un punto lontano, stringe gli occhi, come a voler mettere a fuoco qualcosa, pensieroso. Infine, Artemio ti volge lo sguardo, quel cipiglio severo, quegli occhi di zaffiro che bruciano di dolore e rabbia. E paura. «Tu non hai la minima idea, giovane», ti apostrofa con la sua voce roca, profonda, la pipa spenta stretta tra i denti. «Tu credi che noi, da queste parti, ci ostiniamo a bruciare le stoppie per ingrassare la terra, vero? Credi che magari ci impuntiamo contro le ordinanze perché siamo testardi e facciamo il diavolo che ci pare. Pensi che siamo così arroganti da ritenere che nessun politico da operetta, con la sua fascetta tricolore addosso, possa dirci cosa fare, giusto? Beh, ti sbagli».
Artemio si mette il cappello in testa, ben calcato, con la visiera di lana che gli copre la fronte corrugata; i suoi occhi, però, brillano di quella luce anche sotto l’ombra del copricapo, e per un istante quell’anziano agricoltore ti pare uno spirito antico, un albero dalle fattezze umane, scolpito nel legno, le profonde rughe del viso severo lo segnano come le anse di centinaia di fiumi in secca. Si accende la pipa, Artemio, con calma, anche se un tremito delle mani tradisce un’intima agitazione.
Sbuffa il fumo dalla brace, poi riprende: «Queste terre sono sempre ricche, floride. Non ci hanno mai deluso, hanno sempre dato, dato e dato ancora. Anche noi, però, dobbiamo offrire qualcosa: il tributo del fuoco, così lo si chiama. Non possiamo smettere, o la terra si rivolta, si ribella, s’infuria. E se la terra s’infuria, giovane, non vi è nulla che l’uomo possa fare per evitarne le conseguenze».
Artemio ti guarda in silenzio, ora: il cipiglio adesso sa di biasimo, forse dovuto all’espressione scettica che hai sul volto. Rimane in attesa di un tuo commento, magari di qualche battuta sarcastica che sminuisca le sue parole, le quali ti paiono esagerate, eppure… eppure non riesci a spiegarti quel brivido che ha preso a correrti lungo la colonna vertebrale, che ti morde come un gelido serpente, fino alla nuca, facendoti rizzare i capelli. Forse la figura solida e flemmatica di Artemio… forse la sua eloquenza pacata ma decisa, scevra di dubbio… forse, in fondo, un po’ dai peso a quanto ti dice, quel vecchio contadino.
Si adagia sulla sedia, allungando le gambe, infilando i pollici nelle bretelle. Sembra un vecchio irlandese, con quel cappello di lana, i pantaloni verdi e gli scarponcini. Non è trasandato, il vecchio Artemio, anzi: si cura nel vestire, quando non è in mezzo ai campi a lavorare. Novanta e passa anni e ancora dà la biada ai ventenni; la schiena dritta, lo spirito d’acciaio. Fuma un po’, in silenzio, fissandoti come a studiarti, gli occhi stretti in fessure azzurre, poi, di colpo, s’alza in piedi: «Vieni con me, giovane. Ti mostro una cosa». Senza attendere replica, si volta e prende a camminare, deciso, dritto come un fuso. La stanchezza, quell’uomo, pare non sapere dove stia di casa; ti alzi di corsa e gli vai dietro, come un cucciolo che segue un capobranco, ciecamente, senza chiedergli alcunché.
Camminate lungo l’argine polveroso di un campo di mais, prossimo alla mietitura: le piante si ergono copiose e fitte, in un intrico di boscaglia dorata. Talvolta, in qualche distesa simile, qualcuno s’è perso, dicono. Possibile che ci si possa perdere in un campo di granturco? Davvero finisci in mezzo a delle piante e non ne vieni più fuori? Eppure, si dice da queste parti, pure questo è successo, molti anni fa; dicono che la terra si sia presa la giovane ch’era entrata tra le piante alla ricerca del cane, corso dietro a un coniglio. Il cane, infine, era ai margini del campo, uscito dopo aver rincorso invano il roditore, ma la ragazza non era più tornata. E c’è chi dice che sia stata la Bruciata, a portarsi via la fanciulla. Ne parla proprio ora Artemio, mentre cammina sicuro sull’argine: «In questo campo, la Giorgia Colombini è stata presa, nel ’79. Me la ricordo, povera ragazza. Aveva i capelli di un biondo uguale all’oro delle pannocchie. Le pannocchie, giovane, sono quelle in cima. Quelle che chiamate pannocchie, che si mangiano, in realtà, sono le spighe, sappilo». Continua a marciare deciso, mentre tu gli vai dietro con passo incerto. Come accidenti fa ad andare così veloce su quella lama di terra cedevole?
Fai fatica a stargli dietro, sembra abbia il diavolo alle calcagna, tanto viaggia spedito, e intanto continua a parlare, calmo, deciso, anche se la voce è venata di una nota d’amarezza: «Era così bella, la Giorgia… e poi, che brava ragazza. Dolce, gentile con tutti, sempre sorridente… L’anno precedente, chi coltivava questo campo non aveva bruciato le stoppie, non aveva pagato il dazio per le messi… e la terra s’è presa la Giorgia, la figlia del Bruno. Era lui che aveva questo campo, all’epoca. La Bruciata non guarda in faccia nessuno. Non le importa se si tratti di una creatura innocente: quel che l’è dovuto, se non glielo dai, se lo viene a prendere».
Rimani in silenzio, più che altro per prestare attenzione a dove metti i piedi. In lontananza senti il gorgoglio di una mietitrebbia che falcia imperterrita da qualche parte, mentre un fruscio alla tua destra attira la tua attenzione: le piante si muovono, forse un animale, anche se il fruscio è lento, come se qualcuno si stia facendo strada, con passo tranquillo. Ti fermi a osservare il movimento delle pannocchie a una quindicina di metri. Forse c’è qualcuno, sì.
«Giovane! Ti sei addormentato? Dai, su!». Artemio ti chiama: è già bello lontano. Guardi ancora un momento le pannocchie, ma non si muove più nulla, non odi neppure più il fruscio. Corri, per quanto possibile, per accorciare la distanza tra te e il vecchio contadino, che si è fermato nei pressi di una pianta.
È un salice, i rami sono secchi, totalmente spogli: sembra morto, eppure è lì, ritto in mezzo a un campo, un’aiola di pietre lo circonda, delimitando un ampio cerchio di terreno sgombro dalle coltivazioni, al cui interno si dipana un fitto tappeto erboso. Appesi ai rami, strani manufatti in legno: bastoncini legati con dello spago a formare una sorta di stella.
Artemio è ritto di fronte alla pianta, le mani ficcate in tasca, lo sguardo stretto in contemplazione, e un filo d’inquietudine, forse timore? Mai vista l’ombra di insicurezza in quell’uomo. In giro dicevano che durante la guerra avesse guardato in faccia una Camicia nera che rastrellava il paese in cerca dei partigiani. Lo aveva portato fuori di casa, il mitra spianato in faccia. Lui era lì, le mani in tasca anche allora, un’espressione di compatimento in viso: «Eh ben? Che vuoi fare? Spari tu o soffio io nella canna?». Quello aveva perso per un istante la sua spavalderia, di fronte a tanto disinteresse, quasi come se la faccenda non riguardasse Artemio. Aveva bofonchiato qualcosa riguardo al fatto che non gli fosse chiaro cosa stesse accadendo, che lui aveva la sua vita in mano, che bastava premesse sul grilletto. «Se mi ammazzi, giovane, non è che mi fai avere paura. Mi ammazzi e basta. E poi? E poi sono morto, mica spaventato. Però io, i partigiani non te li vendo, giovane. Quelli sì che scelgono di servire la patria, di lottare contro chi obbedisce a un tizio al seguito di un crucco stragista. Quindi, tu, giovane, non sei un patriota, sei un filonazista, un tedesco. Vuoi essere un tedesco, o un italiano, giovane?».
Artemio, in quel suo discutere, si dice, non ebbe mai un tremito di voce, mai un’esitazione negli occhi, eppure lì, di fronte a quell’albero morto, il vecchio antifascista mostra un moto di timore.
Il fiato grosso, la voce affannata, apri finalmente bocca: «Che significa questa pianta, qui nel mezzo dei campi?».
Il vecchio non parla, rimane a fissarla come si fa con una strana bestia, arricciando le labbra meditabondo.
Continua a fumare la pipa, sbuffa fumo lentamente, pensieroso, poi rompe il silenzio: «Questa pianta è il santuario della Bruciata, giovane. Non si può toccare. Il campo è mio, ed io me ne guardo bene dallo sradicare l’albero, anzi, ho fatto in modo che possa prosperare in pace».
L’osservi perplesso, poi sposti lo sguardo sul salice, ne scruti la corteccia grigia, apparentemente priva di vita. Un segno campeggia sul tronco… sembrerebbe quasi marchiato a fuoco… un triangolo da cui si dipartono tre line a “L” trasversali, una per lato. «A me questa pianta pare morta, Artemio», osservi dubbioso, mentre fai per avvicinarti al fusto, ma il vecchio ti prende con forza per il braccio, quasi ti solleva, mentre ti ammonisce: «Attento, giovane! Non entrare nel santuario! Evita di oltrepassare il cerchio di pietre, se non vuoi finire male!».
«Ma davvero credi che questa pianta rinsecchita sia l’altare di… di una specie di spirito?». Ti penti quasi subito di quella frase, dell’insolenza con cui hai apostrofato un’autorità riconosciuta tacitamente da tutti. Artemio, tuttavia, non si scompone: non è tipo da appropriarsi di un rispetto che considera un dono, piuttosto che un diritto. Ti trascina di fronte a sé, piantandoti addosso quegli occhi glaciali, taglienti, colmi di una vitalità che pare non risentire minimamente degli anni trascorsi, anzi: «Sai bene che di stronzate io non ne dico, giovane. Sai bene che non sono un rimbambito che si piscia addosso e si dimentica cos’ha mangiato la sera precedente. Sono vecchio, ma non sono un moribondo. Sono ben vivo e lucido, sia fuori che dentro». Mentre ti parla, ti stringe il braccio con tanta forza da farti temere te lo possa rompere. Artemio è serio, tetro, e il suo fervore ti spaventa.
Cerchi di non mostrare troppo il tuo disagio, volgi lo sguardo altrove, verso le pire funebri dei campi dati alle fiamme. Osservi le nere volute di fumo, avverti l’acre odore della legna e dell’erba bruciata, un olezzo reso amaro dai diserbanti che impregnano i terreni. Una brezza si leva timidamente, muove le colonne, rendendole simili a vortici di innumerevoli trombe d’aria, mentre il panno di nubi s’illumina di lampi ancora lontani. La brezza prende maggior convinzione, facendo oscillare i piccoli manufatti appesi alla pianta, che suonano una marcia dal rumore d’ossa…
Torni a osservare Artemio, il quale prosegue imperterrito a fissarti con quegli occhi gelidi. La luce prende a piegarsi, a curvarsi, come se il moto terrestre avesse preso ad accelerare, a correre all’impazzata, in fuga. Sembra che il tempo scorra a rapidità innaturale, mentre sei lì, nei campi, e Artemio ti stringe ancora il braccio. L’osservi, e giureresti, sotto quella luce, che sia fatto proprio di legno, di quella medesima bruna e rugosa pelle di cui è paludato il vecchio salice, l’altare della Bruciata.
«Sai bene che non sono un credente, giovane. Di Dio, dei santi e degli angeli, me ne frego. Non m’interessa nessuna salvezza propagandistica, ma gli spiriti… quelli sì che esistono. E non bisogna farsene beffe, men che meno ingannarli.
È qualcosa di antico, di radicato nelle nostre terre; leggende abbarbicate alle radici di alberi come questo. Gli spiriti esistono, e vanno trattati con il rispetto che meritano. Della Bruciata, giovane, tanti ciarlano senza sapere. Dicevano fosse una ragazza morta accidentalmente durante gli abbruciamenti; alcuni – i più maligni e pettegoli – ciarlano di una coppia di amanti, di tradimenti e futili vendette, ma non sanno niente… La Bruciata è uno spirito antico, forse un demone, se stai a sentire le religioni… va’ a sapere».
«Un demone?», gli chiedi scettico, ma lasci cadere subito quell’espressione dubbiosa dal viso quando Artemio stringe i suoi occhi glaciali: «Non ti conviene scherzarci su. Ricorda quanto ti ho detto: la terra dà, in continuazione, ma bisogna ricambiare tanta benevolenza, ricordalo. Forza, si torna indietro. In marcia, giovane».
Mentre ti volti, avverti un brivido correrti lungo la schiena; un vento gelido ora soffia a raffiche intermittenti, come il respiro di un morto. Quando sale d’intensità, ti pare di udirvi un fischio… un suono umano, anche se solo in parte…
(1 – continua)