LA BRUCIATA – PARTE 1

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Nella campagna, la notte, quando tutti dormono, il silenzio diviene quasi irreale. Arriva un momento in cui anche gli animali riposano, e le bestie notturne si fermano, rimangono immobili, silenziose, in ascolto di quel muto concerto. Percepiscono qualcosa che va ben oltre il suono: una presenza impalpabile, eppure concreta. La nebbia, che con lentezza quasi immota è giunta a stendere le proprie dita lungo strade e campi, abbracciando le abitazioni, si porta al suo interno qualcosa, qualcuno… Dai gelidi vapori si delinea un volto, un’accennata forma femminile, ma è solo un istante, un momento fugace che ti fa pensare possa essere semplice suggestione. Le parole di Artemio ti echeggiano ancora in mente, come una sinistra storia che ti raccontavano da bambino e che poi, lontano dalla luce del giorno, si faceva strada nella tua mente, disegnando immagini inquietanti che ti strappavano il sonno di dosso.

Sei in macchina, ti sposti lentamente, mentre lo stereo fa girare un brano che non conosci [1], da una stazione presa a caso proprio in quel momento. In quel punto della campagna vercellese, dove un ponticello in pietra attraversa il fiume, la radio non prende mai; strano, dunque, che tu riesca a udire la musica con tanta nitidezza. Poco più avanti si trova una chiesetta sconsacrata, strangolata dalla vegetazione e stuprata dal vandalismo. La scorgi non appena oltrepassato il ponticello, subito dietro una curva stretta che sale e immerge la strada in una fitta boscaglia.

Quando ci passi, solitamente le getti un’occhiata distratta, ti lasci sfuggire un sorriso, nel tentativo di esorcizzare il disagio che quella costruzione ti trasmette. Stasera, senza comprenderne il motivo, accosti e ti soffermi a fissarla con maggior attenzione. Le parole di Artemio paiono aver fatto breccia nelle tue insicurezze infantili, in quei timori superstiziosi che tua nonna t’inculcava quand’eri ancora un bambino, e che, a dispetto dell’età adulta, nonostante il pragmatismo che accompagna la crescita, ti rimane attaccato come il muschio sulla corteccia.

Scendi dall’auto, incuriosito da quel luogo, che ti attira e al contempo ti intimorisce. Nella tua mente ti compare un flash in cui l’albero con i ninnoli, il “santuario” della presunta Bruciata, s’incendia da solo, mentre i manufatti oscillano agitati dal vento e dal calore delle fiamme.

Osservi la facciata ingrigita e sommersa dalla vegetazione, lo sporco che si è accanito sui volti dei santi raffigurati, menomati dalle ingiurie del tempo e dalle sassate di qualche teppista.

Oltrepassi il tappeto muschioso del sagrato e t’avvicini all’ingresso: la porta è stata divelta chissà da quanto tempo, buttata a terra e infarcita di sfregi d’ogni tipo. Cammini sul legno marcio, facendolo scricchiolare ad ogni movimento: rumori di legno infranto che ti fanno pensare a ossa spezzate. Perché ti giungono simili immagini? Forse… forse è il caso di tornare sui tuoi passi; in effetti, cosa stai facendo, lì, nel cuore della notte, nei pressi di quel luogo che gli stessi credenti hanno abbandonato? Eppure, senti qualcosa che ti porta ad avanzare, a varcare la soglia ormai annerita e scalcinata. All’interno, nel buio, si vede poco; sarebbe oscurità totale, se non fosse per i fari dell’auto che puntano contro la chiesa e disegnano qualche contorno della navata, delle panche ormai a pezzi. Il Cristo è ancora lì, abbandonato a sé stesso così come la sua casa, la vernice scrostata e imbrattata dagli escrementi degli animali. Ti fai strada con attenzione tra le masserizie buttate in giro, fino a giungere di fronte al crocefisso. L’osservi, provi un moto di compassione per quel pezzo di legno modellato con cura, solo per essere poi abbandonato così, senza rispetto proprio da coloro che esigono il rispetto per quell’icona. Osservi i suoi occhi spenti, slavati dall’umidità impietosa, sofferenti; ti pare che si arricchiscano di una certa intensità, che si ravvivino… quasi accesi, luminosi, pervasi da un alone rossastro… È un istante: scintille cremisi scaturiscono dalle iridi azzurre, divampando in un fuoco che ne avvolge prima la testa, e subito dopo l’intera figura. L’incendio cresce rapido, avvinghiando l’intera scultura, mentre tu, stupefatto, inorridito, indietreggi, inciampando su qualcosa che ti fa cadere a terra. Ti rialzi goffamente, ti volti verso l’uscita e, mentre corri sgraziatamente, ti pare che l’uscio, quel rettangolo di luce nelle tenebre, si stia stringendo. Devi fare presto, o rimarrai intrappolato, e intanto odi le fiamme crepitare, le lingue di fuoco schioccare come a sghignazzare della tua paura, mentre finalmente imbocchi l’uscita e arrivi alla tua auto.

Ti volti, il fiato grosso, il sudore e i brividi, mentre all’interno la chiesa è illuminata da una croce di fuoco che arde con sinistri bagliori. Osservarla ti fa male: anche se credi, non pratichi, eppure sei cresciuto con quella dottrina inculcata in testa, e osservarne un’effige profanata in quel modo, ti suscita un moto di disgusto, perfino di terrore.

Sali in macchina, senza smettere di guardare quello spettacolo inquietante, nemmeno quando metti in moto e ti allontani, ritornando al ponticello, mentre la radio, ancora accesa, fa passare un’altra musica [2] a te sconosciuta in quell’emittente che, inspiegabilmente, continua trasmettere con splendida chiarezza.

(2 – continua)

Matteo Manferdini


[1] Riverside: Hybrid Times

[2] Behemoth: Bartzabel