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“Sanzioni più aspre per chi brucia le stoppie”, recita il titolo in prima pagina di un giornale locale. Lo leggi seduto al tavolino di una caffetteria nel centro di Vercelli, mentre fuori piove timidamente, quel tanto sufficiente a far fuggire le poche persone girovaganti tra le bancarelle del mercato. Ti soffermi a guardare oltre la vetrata la gente che corre verso un riparo, qualcuno se ne infischia e rimane imperterrito sotto la pioggia, che man mano prende sempre più vigore, come a volerne forzare l’indifferenza. È un brulicare lento, assonnato.
«Questa città sta morendo». La voce giunge sommessa, alla tua sinistra, eppure, nonostante la delicatezza del tono, ti fa sobbalzare. Ti volti verso la sua origine: un uomo seduto a un tavolo sta leggendo un libro: “Il Maestro e Margherita”, leggi sulla copertina, di un certo Michail Bulgakov. Il tizio è magro, rasato, vestito di grigio, di nero: una maglietta con una scritta incomprensibile, un disegno strano, simile alle incisioni medievali, in cui distingui due chierici in preghiera, dai quali, tuttavia, fuoriesce una lingua di serpe. Distingui una croce rovesciata e la scritta “The satanist”, e ti torna alla mente la vicenda di ieri, il crocefisso avvolto dalle fiamme.
«Non è d’accordo con la mia asserzione?», insiste, perforando il muro di silenzio che hai eretto. Che diavolo vuole? Perché non sta zitto a leggersi il suo libro, invece di scocciarti?
«Non mi sembra. C’è un po’ di gente, in giro», replichi senza troppa convinzione, guardandoti intorno. Il locale è abbastanza affollato, i tavoli quasi completamente occupati. Una coppia di ragazzi siede uno di fronte all’altra, ignorandosi reciprocamente, la testa immersa nel cellulare, non una parola.
«Si guardi bene intorno. Osservi i volti della gente, il loro atteggiamento, uno spegnimento mentale diffuso: quali sono le occasioni in cui riesce a intravedere un briciolo di vitalità in questa terra? Quando giunge il sabato sera, e si riversano nei bar a sbronzarsi, a sbraitare e urlare per le strade, senza una ragione, se non quella di sfogare una frustrazione che si estende a macchia d’olio, che si diffonde come una pestilenza. E poi, l’ostilità… Sono tutti rabbiosi, aggressivi, anche quando si comportano male, quando buttano i rifiuti in terra, o mollano la macchina in doppia fila. Se prova a farlo notare loro, le saltano alla gola, accampando assurdi diritti».
«Mi pare parecchio eccessivo, come giudizio. Non ci trovo nulla di male, nulla che non s’incontri in qualsiasi altra città, dopotutto. Anche in altri posti la gente butta i rifiuti a terra, o molla la macchina dove capita». Avverti un fugace brivido correrti lungo la schiena. Quella conversazione ti mette a disagio, e quel tizio non ti piace; non ti piace la maglietta che indossa, né tantomeno quella sua flemma snob, ma meno di tutto ti piace il suo sguardo, che pare irrompere nei tuoi occhi con prepotenza, aggirandosi dentro la tua mente come un topo d’appartamento. Ti alzi, te ne vuoi andare da lì, lontano da quel rompiscatole inquietante; lo saluti con un cenno e un “salve” sussurrato, impercettibile, eppure lui riesce ugualmente a udirti: «Arrivederci», ti apostrofa seraficamente, riprendendo a leggere il proprio libro. Poi, avverti la sua voce come un sussurro, seppur sia troppo distante affinché tu lo possa udire: «La Bruciata chiede molti tributi, ma non le basta: esige anche rispetto. La gente nei pressi del suo santuario lo sa, e si mostra deferente verso la terra, ma qui… qui il popolo ha scordato il rispetto necessario verso gli spiriti antichi, verso la terra che li ospita. L’ha dimenticato, o se ne disinteressa, e questo solleverà qualcos’altro, presto o tardi». Ti volti un istante ed è lì che legge, impassibile. Ti sei sbagliato, di certo. Ti lancia un’occhiata, e un sorriso sinistro. Te ne vai.
Ancora una gelida scossa lungo la schiena, il cuore prende a batterti: tachicardia, improvvisa, inspiegabile. Palpitazioni ti assalgono stringendoti il torace in una morsa pulsante; esci, cercando l’aria, quasi annaspando. Fuori, oltre il portico, la pioggia è diventata una furia di dardi liquidi, mentre le bancarelle del mercato svaniscono sotto le sferzate del nubifragio. In pochi attimi è il deserto per le strade: non fosse per l’acquazzone, parrebbe che ogni cosa si sia fermata, che il tempo abbia cessato d’esistere, e tutto sia rimasto impressionato in un inquietante fermoimmagine.
Ti volti verso il finestrone del locale, da cui vedi una cameriera ritirare gli avanzi della tua consumazione, alle sue spalle, il tavolo a cui sedeva il tizio con il libro ora è vuoto.
Attraversi la strada di corsa, coprendoti come puoi, mentre un tuono spezza il monotono picchiettio della pioggia. T’infili in un vicoletto che sbucherà sulla piazza dove hai parcheggiato, ma quando esci dalla stradina acciottolata, ti trovi altrove: piove ancora, ma sei in mezzo ai campi. Ti volti verso il vicolo, ma non vi è più alcuna stradina lastricata di sanpietrini; solamente altri campi spogli, argini e rogge. Niente palazzi, solo le montagne all’orizzonte, niente auto, giusto un trattore fermo in un angolo… Niente asfalto sotto i piedi, piuttosto terra che si ammorbidisce sotto le percosse della pioggia, si arrende all’intrusione inarrestabile dell’acqua, cedevole sudario di fango, sotto il quale, di colpo, qualcosa prende a muoversi. La massa sottostante si agita, mentre i tuoi piedi affondano nel pantano. Cerchi di uscire da quelle sabbie mobili, tiri fuori un piede quando una mano irrompe dal terreno ghermendoti la caviglia e trascinandoti nuovamente nella terra. Urli dalla sorpresa e per la paura di quell’incubo: un secondo arto cinge l’altra gamba, sotto il ginocchio. Braccia infangate, talmente luride che paiono fatte di terra, si protendono verso di te facendoti affondare. Un lamento di dolore, ondeggi le braccia, cercando invano un equilibrio ormai illusorio. Cadi a terra; avverti il terreno ormai ridotto a una poltiglia risucchiarti, mentre le braccia di fango ti stringono furiosamente. Urli, urli con quanto fiato ti rimane. Ti trovi nella piazzetta, di fronte alla tua auto, a terra, mentre da un negozio, nei pressi, una commessa ti osserva perplessa: «Si è fatto male?», ti chiede dall’ingresso. La campagna è sparita: niente appezzamenti, le braccia di fango non ci sono mai state. Un’allucinazione. Eppure, mentre ti rialzi, osservi macchie sui pantaloni, sulle scarpe, fin sulle mani, che vengono lavate via dalla pioggia battente.
Entri in macchina, il petto ti lancia fitte micidiali, ma soprattutto ti dolgono le gambe: avverti un senso di bruciore lancinante. Alzi i pantaloni e impallidisci, il sangue ti si gela, il cuore pare voler sfondare la gabbia toracica: sulla caviglia sinistra e sul polpaccio destro distingui nitidamente i segni purpurei di dita umane.
(3 – continua)