Era l’ora che precede il sorgere dell’alba.
Fra le mura massicce del nuraghe e nel villaggio circostante, il silenzio era rotto soltanto dall’agitarsi del bestiame nei recinti e da qualche russare particolarmente sonoro.
La sentinella di guardia sui bastioni si era addormentata, vinta dalla stanchezza accumulata durante la veglia notturna.
D’un tratto il suo sonno fu turbato da un rumore lontano; nel suo sogno prese vita un ritmo sordo e regolare come di pietre battute fra loro con una cadenza non casuale… una cadenza familiare, un avvertimento…
La sentinella si agitò nel sonno tentando di scacciare quel fastidioso incubo, quindi un senso di pericolo prese il sopravvento nella sua coscienza intorpidita e aprì gli occhi.
V’era solo il lieve chiarore della notte che si allontana, il carro rosato del sole non si era ancora levato e i suoi raggi non intaccavano il buio.
Nel sonno l’uomo si disse che era tutto tranquillo e che poteva tornare a dormire, ma un campanello d’allarme scattò dentro di lui costringendolo a ribellarsi alla fatica che faceva negare al suo sguardo la presenza di qualcosa d’ insolito.
Questa volta sbarrò bene gli occhi e si sollevò sui gomiti: le alte fiamme di un fuoco si sollevavano da un’altura a nord-ovest brillando intense nell’oscurità, per richiamare l’attenzione di chiunque cominciasse a riemergere dal torpore del sonno.
Ora anche il ritmo regolare dei colpi di pietra era più nitido.
La sentinella scattò in piedi completamente sveglia: – Il nuraghe Losa! – urlò nel silenzio – Pericolo dal nuraghe Losa!
Gli altri guerrieri si svegliarono bruscamente e si precipitarono sui bastioni che collegavano le quattro torri del nuraghe.
- E’ il segnale di pericolo del nuraghe Losa! – gridò qualcuno – Nemici! E’ il segnale della presenza di nemici!
Poco dopo anche Farisone, il capo tribù, aveva raggiunto i suoi guerrieri e, con loro, scrutava il rossore delle fiamme che si levavano da nord-ovest.- Presto! – ordinò – Due di voi sellino i cavalli e vadano a vedere cosa succede!
- Vado io! – e Nabine fece per precipitarsi verso il recinto dei cavalli, ma Lonfrò, un massiccio guerriero dai capelli cortissimi fra i quali cominciava a notarsi qualche ciuffo grigio, lo fermò afferrandolo per un braccio: – Dove vuoi andare, tu? Levati dai piedi! – e ingiunse a due giovani guerrieri di eseguire gli ordini di Farisone.
Questi scesero a precipizio le scale e montarono i cavalli più veloci del branco.
Nel frattempo anche il villaggio andava animandosi, svegliato dagli avvertimenti di pericolo provenienti dal nuraghe.
I primi raggi rosati dell’alba si erano da poco levati a scacciare le ombre che già, fuori e dentro l’imponente costruzione, un insolito fermento si era impadronito dei suoi abitanti.
A metà mattina i messaggeri furono di ritorno portando la notizia che gli esploratori del nuraghe Losa avevano visto molte imbarcazioni straniere approdare nelle vicine coste di nord-ovest e molti guerrieri dalla carnagione bruna come terra bruciata spingersi verso l’interno.
Farisone aveva subito ordinato ai suoi uomini di prepararsi per la battaglia e di trovare un ricovero per gli animali e il resto della tribù all’interno del nuraghe, approntando tutte le difese necessarie per un eventuale assedio.
Alcune guardie andarono quindi a prendere posto nel piazzale di fronte al portale principale, unendo i loro sforzi affinché si creasse un po’ d’ordine fra i numerosi contadini e pastori, capre e pecore che, spingendosi e urtandosi, cominciavano ad affollarsi all’interno degli angusti spazi del nuraghe.
Così come accadeva ogni volta che si presentava la minaccia di un’invasione, il villaggio si spopolava, mentre fra le mura massicce della costruzione rimbombavano le imprecazioni degli uomini e i belati degli animali.
La paura e l’essere costretti al chiuso rendeva i secondi più irrequieti e i primi più irascibili, così che qualche iniziale diverbio doveva essere sedato con grande rapidità ed efficienza, prima che i contendenti venissero alle mani.
Sui bastioni le sentinelle si avvicendavano senza tregua passandosi l’un l’altra gli ordini che Farisone impartiva, ora ai suoi uomini, ora ai vari membri della tribù affinché nulla li cogliesse impreparati.
Nel frattempo, i guerrieri affilavano le armi, tendevano gli archi al massimo della loro potenza per controllare che le corde non cedessero, si allenavano con le asce bifronti per le quali erano famosi e bilanciavano le lance sulle braccia robuste per appurare la precisione del tiro.
Il rumore dei preparativi per fronteggiare l’attacco nemico echeggiava da un punto all’altro del nuraghe spandendosi per tutta la vallata.
Nabine non sopportava quella confusione.
Scese le scale del torrione principale, nessuno badava a lui. Distrattamente lanciò uno sguardo all’interno della camera delle donne: giovani e vecchie e persino Eliona, sposa del capo tribù, erano intente a cucire le pelli conciate, per preparare robusti indumenti da guerra e scudi che avrebbero poi rivestito con grasso animale. Erano così attente al proprio lavoro che nessuna si accorse della sua presenza.
Nabine continuò a scendere, evitò l’atrio principale e si diresse verso i locali più protetti dell’imponente costruzione. Qui ferveva la stessa intensa attività, tutti erano intenti a preparare e conservare provviste; sacchi di farina e imballi di carne essiccata venivano stipati nelle profonde nicchie delle pareti che fungevano da dispensa.
L’anziana Arrosa finse di non accorgersi di lui che afferrava un pezzo di formaggio e qualche tozzo di carne con cui riempire la bisaccia che era solito portare con sé nei suoi frequenti vagabondaggi per i campi e i monti, lontano dal villaggio.
Era talmente solito quel suo strano modo di fare, che Arrosa ci si era abituata e, senza scomporsi, gli allungò un otre colmo d’acqua che il giovane aggiunse al suo bagaglio.
Nabine aveva venticinque anni e, se fosse stato considerato alla stregua di tutti gli altri, avrebbe già da tempo imparato a usare l’arco e a tirare di spada come un vero guerriero. Ma il giovane aveva una statura alta, troppo alta per la sua fragile costituzione, tanto da doversi chinare di quasi una spanna per attraversare i varchi d’ingresso; e quella sua gamba così sottile e debole non gli facilitava di certo le cose.
Nabine era considerato da sempre un diverso, uno “toccato dai poteri della luna”, così com’era stato definito dallo stregone del villaggio a causa dei suoi frequenti strani sogni e del suo essere taciturno. La comunità gli assicurava il sostentamento senza chiedergli in cambio niente di particolarmente impegnativo, qualche messaggio da portare di tanto in tanto alle tribù vicine, la raccolta di bacche commestibili da aggiungere alle provviste. Ma lo scotto che il giovane aveva dovuto pagare a causa della sua diversità fisica e mentale era stato alto, poiché egli conosceva bene la solitudine che era stata sua compagna sin da quando era ancora un bimbo.
Umiliato dal rifiuto di Lonfrò e dalla sua intimidazione di togliersi dai piedi, lui lo aveva preso in parola.
Così infilò un passaggio poco frequentato e si trovò in aperta campagna, scese per uno stretto e ripido sentiero che portava a valle, e si diresse verso il Monte Oe.
Dalla sua cima, Nabine sperava di avvistare gli stranieri battendo sul tempo le sentinelle appostate sulle torri di guardia, e di riuscire così ad avvertire Farisone, il capo tribù, in modo da non essere colti di sorpresa.
In questo modo sarebbe riuscito forse a conquistarsi il rispetto che gli era sempre stato negato e ad avere un suo ruolo all’interno della comunità. Forse non sarebbe stato più solo, forse sarebbe riuscito a catturare l’interesse di una donna…
Smise di sognare e scese giù, a valle, dove il gran caldo della stagione estiva aveva ridotto il fiume a un esile rigagnolo con scarse pozze sparse qua e là fra le pietre bianche.
Nabine restò affascinato dalle alte pareti rocciose della stretta gola, dove bassi arbusti d’erica e mirto crescevano arrampicandosi fin sulla cima.
A guardarlo dall’alto, lo stretto letto del fiume appariva come un’onda verde e rosa, leggermente ondeggiante sotto la brezza che portava con sé il delicato profumo degli oleandri e quello pungente dell’erica: Nabine cominciò a saltare di masso in masso con le sue lunghe e ossute gambe tanto oggetto di scherno, cercando la frescura sotto i grandi arbusti dai fiori bianchi e rosa.
Aveva percorso buona parte del letto del fiume quando, a un bivio segnato da un robusto ginepro, prese ad arrampicarsi sulla stradina tortuosa che portava sul Monte Oe.
Lassù il caldo era soffocante.
Il giovane si tolse il mantello di capra e raccolse i capelli corvini in una coda, legandoli con uno stelo d’erba sufficientemente resistente. Ne scelse quindi un altro più largo, lo piegò fra le dita formando una sorta di canna e cominciò a suonare soffiandovi dentro.
Le note aspre ma armoniose dell’erba che vibrava lo accompagnarono lungo la ripida salita.
Giunse finalmente su uno spiazzo del monte dove la vegetazione era particolarmente varia e folta.
Il giovane restò sorpreso nel notare che l’intero sottobosco era disseminato di piccole grotte, così minuscole che solo un bimbo o un nano avrebbero potuto passarvi. Nabine si accostò a una di esse e sentì provenire dal suo interno la musica più bella che avesse mai udito. Poi, improvvisamente, da ogni angolo del bosco si levarono altra musica e canti di voci melodiose come usignoli.
Ne restò talmente incantato che perse la nozione del tempo e il tramonto lo colse di sorpresa.
Nonostante l’ora fosse tarda, spinto da un’irresistibile curiosità, Nabine cercò di adattarsi come meglio poteva allo stretto antro della piccola grotta e, strisciando, cercò di raggiungere la luce che vi si vedeva brillare sul fondo, in un punto remoto e impreciso. Era giunto a metà del percorso che luci e suoni scomparvero lasciandolo nel buio e nel silenzio.
Al giovane non restò quindi che tornare goffamente indietro, con l’amarezza di non essere riuscito a scoprire chi viveva laggiù; ancora una volta, come tante altre nella sua breve vita, si sentì inutile e incapace e ciò gli gravava sul petto provocandogli una profonda tristezza.
Quando, strisciando e imprecando, riuscì a uscire dalla grotta, era notte fonda. Era ormai troppo tardi per proseguire e Nabine si preparò alla meglio un giaciglio di foglie su cui stese il suo mantello, vicino all’ingresso di una delle grotte; era stanco e deluso a tal punto da dimenticare persino di mangiare il poco cibo che aveva portato con sé.
Stava per scivolare nel sonno quando un tocco leggero lo svegliò ed egli vide che qualcuno gli aveva portato una scodella di latte di capra, delle bacche e del pane, mettendo il tutto vicino al suo giaciglio.
- Notte di prodigi! – disse fra sé – Chi avrebbe mai detto che anche a uno come me, considerato da tutti solo una seccatura, sarebbe potuta accadere una cosa simile! Grazie, gentile ospite – proseguì rivolto al buio – un giorno vorrei ricompensarti per la tua cortesia. Anche se finora non sono riuscito a dimostrare che, nonostante i miei difetti, sono anch’io un uomo con la sua dignità, capace di rendermi utile, sono certo che un giorno incontrerò chi saprà guardare il mio cuore, oltre al mio aspetto!
Ringraziato l’invisibile ospite, Nabine mangiò con gusto quel cibo che gli sembrò il migliore che avesse mai assaggiato. Prima di riuscire a riprendere sonno, i suoi occhi vagarono nel buio e le sue orecchie si tesero a ogni sibilo o calpestio di foglie, nella speranza di scoprire chi abitasse quelle grotte e poter provare, una volta nella vita, cosa volesse dire avere degli amici.
Ma era così stanco che alla fine si addormentò.
Si svegliò alle prime luci dell’alba, stiracchiò le lunghe membra intorpidite e per un poco ebbe difficoltà a ricordare dove si trovasse; finalmente riuscì a riprendersi del tutto, costernato per il fatto che, se non si fosse sbrigato e se non avesse raggiunto al più presto la vetta del Monte Oe, avrebbe perso un’ulteriore occasione per mostrare quanto valesse e gli abitanti del villaggio avrebbero continuato a schernirlo come sempre avevano fatto.
Il giovane balzò in piedi e il suo sguardo scivolò sul leggero mantello con cui qualcuno lo aveva amorevolmente coperto.
Si chinò a raccoglierlo, il tessuto gli scivolò fra le dita, morbido e leggero come piuma; Nabine non aveva mai visto un mantello di lana filata così bene, certamente un mantello da re, così prezioso e creato da mani oltremodo abili. Era inoltre di un bianco talmente candido che aveva quasi paura a toccarlo.
Nabine era stupito, tanto che non lo sfiorò neanche l’idea di provare a drappeggiarselo sulle spalle, al posto del grezzo mantello di capra ancora steso sul giaciglio su cui aveva dormito.
Alcune risatine sommesse lo riportarono alla realtà; egli si volse e vide sei o sette donne minuscole e bellissime, con grandi occhi scuri e i capelli ricci e corvini raccolti in trecce tanto lunghe da sfiorare i polpacci. Avevano un sorriso schietto e gentile e un’aria talmente imbarazzata che solo con difficoltà osavano sollevare lo sguardo su di lui, sotto le folte ciglia nerissime.
Apparivano timide e riservate con le piccole mani incrociate sul grembo, e alcune di loro tormentavano con le dita i riccioli ribelli che ne incorniciavano il volto.
- Chi siete, nobili fanciulle? – chiese Nabine con tutta la gentilezza di cui era capace – Voi che avete reso il mio sonno sereno e privo di incubi come mai sino a ora?
Le fanciulle si guardarono a vicenda interrogandosi con lo sguardo, poi finalmente una di loro si fece avanti e parlò per tutte.
- Noi siamo le gianas, le fate protettrici di questo luogo e, poiché il tuo cuore è puro e buono, abbiamo tessuto per te questo dono! – e la fanciulla indicò il mantello che Nabine teneva ancora fra le mani.
- Non so come ringraziarvi! Siete tanto gentili con me e io non sono sicuro di meritarlo! – rispose il giovane poco abituato a essere trattato con tanto riguardo – Questo è un mantello degno di un re!
- Ebbene, un giorno tu sarai re!
Quindi la fanciulla gli si avvicinò seguita dalle compagne e, tutte insieme, riuscirono a drappeggiare lo splendido mantello intorno alle sue spalle.
Il giovane si sentiva tremendamente imbarazzato.
- Come potrò mai sdebitarmi con voi per il dono che mi state facendo? Si tratta di una cosa talmente bella e preziosa che io non saprei proprio cosa potervi dare in cambio, dato che non possiedo niente, a parte il mio mantello di capra e la mia bisaccia!
- Noi non vogliamo nulla, prosegui invece nel tuo intento e raggiungi la cima del Monte Oe, poiché se gli stranieri dalla pelle scura giungeranno sin qui, tutti noi spariremo e la storia dimenticherà la nostra esistenza. Va dunque lesto sin sulla vetta, là troverai un Dolmen e lo attraverserai, il resto lo verrai a sapere in seguito. Porta con te questo fuso, è l’unica cosa che ti chiediamo di fare per noi.
La fata gli porse uno stupendo fuso d’oro, intarsiato così finemente che poteva essere stato creato solo con la magia.
Nabine pensò che nessuno dei suoi compagni avrebbe rispettato il patto: se la sarebbero svignata al più presto tornando al nuraghe e portando con sé quel tesoro.
Quasi fosse capace di leggere i suoi pensieri, la fanciulla gli disse: – Troverai molti tesori là dove andrai, starà al tuo cuore trovare quello per te più importante!
- Non tradirò la vostra fiducia! – rispose con impeto Nabine – Ma prima di lasciarvi, ditemi almeno il vostro nome, affinché possa serbarlo nel mio cuore.
Per un poco, la piccola fata sembrò indecisa, quindi gli disse: – I nostri nomi non possono essere rivelati a orecchie umane, ricorda quindi solo questo “Filo d’Oro di Oe” e che ciò ti sia sufficiente.
Nabine ringraziò e riprese il cammino verso la cima del Monte Oe.
Camminava di buona lena, nonostante la totale assenza di vento rendesse l’aria irrespirabile, ma il magico mantello che lo avvolgeva gli restituiva le energie e, come una grande ala, lo trasportava agilmente senza che il giovane avvertisse la fatica.
Ogni tanto Nabine si fermava ad ammirare lo splendido fuso d’oro che gli era stato consegnato, e immaginava le piccole e agili mani di Filo d’Oro di Oe che tessevano il mantello con il quale, gli aveva predetto, un giorno sarebbe stato re.
Nabine sorrise: era senz’altro un bell’auspicio, ma anche se non fosse mai stato re, quell’incontro aveva già dato un grande significato alla sua esistenza. Finalmente anche lui possedeva un segreto che avrebbe custodito gelosamente nel suo animo.
A metà mattina raggiunse la cima del Monte Oe.
Subito gli si parò davanti il grande Dolmen che avrebbe dovuto attraversare: la pietra era grezza e fredda, incisa con simboli arcani che lui non seppe decifrare.
Ebbe un moto di paura, ma poi raccolse tutto il coraggio di cui era capace e lo attraversò, sempre tenendo ben stretto fra le mani il fuso d’oro.
Un fremito lo percorse da capo a piedi e la vista gli si annebbiò per un breve istante; quando poi ogni cosa tornò finalmente chiara e nitida al suo sguardo, si trovò di fronte a una grande caverna che prima non aveva notato, dove, accoccolata su una pietra vicino all’ingresso, vi era un’altra piccola donna.
Era del tutto simile a quelle che aveva già incontrato, era solo più anziana.
La fata sorrise e rispose ai suoi pensieri.
- Sono la custode del tesoro del Monte Oe, e quelle che hai incontrato sono le mie figlie, hai portato qualcosa per me?
- Filo d’Oro di Oe mi ha dato questo – e Nabine le porse il fuso.
- Lei lo prese dalle mani di lui con soddisfazione e disse: – Bravo, figliolo, non hai ceduto all’avidità, la peggiore delle tentazioni degli uomini, ora puoi entrare nella grotta e scegliere quel che preferisci.
Nabine entrò e si trovò davanti agli oggetti più belli che avesse mai visto, gioielli, piatti, vasi e spade, tutti in oro purissimo che brillava come la luce del sole.
Dopo aver ammirato quelle meraviglie per un poco, uscì a mani vuote.
La gianas lo guardò con finta sorpresa.
- Come? Non hai trovato nulla che ti piaccia?
- No, no! – si affrettò a rispondere Nabine temendo di apparire ingrato e scortese – E’ tutto molto bello ma troppo prezioso per uno come me, non sono degno di tanta ricchezza e non saprei né come usarla, né come meritarla! Io voglio solo dare una mano alla mia gente che ora si trova asserragliata nel nuraghe, affinché i nemici siano scacciati e non invadano le nostre terre, altrimenti tutti noi spariremo, lo ha detto Filo d’Oro di Oe.
La donna annuì con un sorriso e non rispose.
Proprio in quel momento passava in volo un grande uccello dal piumaggio rosato: Nabine non ne aveva mai visto uno simile e lo guardò ammirato.
- Com’è bello! – disse – Con quegli occhi acuti potrebbe avvistare il nemico da lontano e la mia gente potrebbe sapere del pericolo nel tempo di un battere d’ali e prepararsi alla guerra senza timore di venire sorpresa, conoscendo quanti uomini e quali armi dover combattere. Vorrei essere come lui. Del resto, con quelle sue lunghe gambe e il collo così sottile, mi assomiglia pure!
- Se è questo il tuo desiderio – disse la fata – che questo sia!
Batté le mani e l’uccello venne ad appoggiarsi sul terreno, non lontano da lei.
- Arrubiu del Popolo Rosso! – gli disse la gianas - Tu porterai Nabine sul tuo dorso e lo aiuterai a scacciare gli invasori che vengono dal mare, voglio che questo bravo giovane venga ricompensato per la lealtà e l’onestà dimostrati.
Il giovane non osava credere alle sue orecchie.
- Ma come farò a montargli in groppa? – obiettò – Sono troppo grosso perché questo splendido animale possa sopportare il mio peso!
- I difetti di un uomo – rispose con indulgenza la fata – stanno solo nella sua mente e in quella di chi lo circonda! Ma prima che tu vada, voglio farti un dono – e sparì all’interno della grotta.
Quando uscì, portava fra le mani un prezioso oggetto che porse a Nabine.
Questi lo prese e lo scrutò con attenzione: si trattava di una fionda fatta con robusti fili d’oro fittamente intrecciati, uno strumento che qualcuno aveva costruito con un’abilità inconsueta.
Il ragazzo la fece ruotare con la mano destra e subito notò la velocità e la prontezza dello scatto; quindi raccolse una pietra e la lanciò contro un bersaglio in bilico su una roccia e il colpo fu così preciso che quello cadde al primo lancio.
- E’ fantastica! – esclamò rivolto alla fata.
Questa sorrise, quindi aprì l’altra mano che sino ad allora aveva tenuto chiusa a pugno, e mostrò una pietra ovoidale, di un lucido nero dove spiccavano, come nuvole vaganti, zone di colore rosso e azzurro.
- Questa è una pietra magica – spiegò la gianas – è composta di ossidiana, corallo e turchese; questa pietra e la fionda obbediranno a ogni tuo volere, ma usale sempre per una giusta causa. E ora va, la salvezza della nostra terra è nelle tue mani.
Nabine non sapeva come ringraziare la fata che gli stava dando una tale opportunità per dimostrare il proprio coraggio. Finalmente la gianas riuscì a farlo salire in groppa all’uccello rosa che si chiamava Arrubiu e insieme volarono sino alla costa di Bosa, dove una potente flotta aveva ormeggiato nelle tranquille acque della baia naturale, mentre un esercito di guerrieri dalla pelle scura stava marciando verso l’interno, distruggendo e conquistando tutto quel che trovava sul suo passaggio.
“Questi non sono uomini buoni”, pensò il giovane, quindi disse a voce alta: – Arrubiu! I nostri nemici sono troppo numerosi! Come faremo a fermarli?
- Ricorda quel che ti ha detto la gianas a proposito della fionda e della pietra magica, usale e sta a vedere cosa accade – gli rispose l’animale.
Nabine osservò la pietra e pensò ai minerali di cui era composta, quindi disse: – Voglio che una pioggia di lance acuminate cada trafiggendo questo esercito di uomini senza cuore!
Fece ruotare la fionda e la pietra partì, esplodendo in una tempesta di lance appuntite e taglienti che precipitarono sugli invasori aprendo ferite da cui il sangue prese a scorrere copioso.
Gli stranieri furono ben presto preda del panico; più Nabine faceva ruotare la sua fionda e lanciava la pietra, più la tempesta di lance, proveniente da un nemico a loro invisibile, sconvolgeva gli invasori costringendoli alla ritirata.
Nelle file nemiche c’era un gran caos.
Nabine fermò la fionda e la pietra tornò al suo posto.
- E ora – disse – che si alzi il vento dell’est e che accechi questa gente malvagia con la sua sabbia cocente, che non permetta loro di proseguire, ricacciandoli nel mare da dove sono venuti.
Fece ruotare nuovamente la fionda e la pietra esplose creando una tempesta di sabbia che fece volgere i nemici in ritirata correndo e maledicendo quella terra stregata.
Nabine e Arrubiu restarono a osservarli mentre si precipitavano sulle navi, tiravano su le ancore e si mettevano ai remi, cercando di allontanarsi il più presto possibile.
I loro capi non facevano che urlare ordini che nessuno ascoltava.
- Perché non gli diamo una mano? – propose Arrubiu.
- Hai ragione! – rispose Nabine e fece ruotare nuovamente la fionda – Che il mare si sollevi e allontani per sempre da noi questi avvoltoi!
La pietra esplose ed enormi onde si sollevarono allontanando le navi dalla costa; queste presero a urtarsi e speronarsi a vicenda e a lungo si udirono le urla disperate dei marinai che avevano perso ogni velleità di governare le loro imbarcazioni impazzite.
Finalmente le navi superstiti non furono che un puntino sulla linea dell’orizzonte.
- Ora possiamo tornare! – disse soddisfatto Nabine – Abbiamo fatto il nostro dovere!
- Vuoi che ti riporti al nuraghe?
- No, voglio tornare sulla cima del Monte Oe.
Lassù tutte le gianas, le fate del monte, stavano ad aspettarli. Fra loro, c’era anche Filo d’Oro di Oe che era la più contenta.
- Ora puoi tornare fra la tua gente e raccontare le tue imprese, nessuno oserà più schernirti e avrai il rispetto che meriti!
Nabine si strinse nelle spalle.
- Non mi crederebbero mai! – disse lui con aria triste – Gli invasori se ne sono andati e io sono contento di quel che ho fatto poiché non avrei mai pensato di possedere tanto coraggio…ora non mi interessa più ottenere il rispetto della tribù, finalmente so cosa vuol dire provare rispetto per se stesso! Ora posso andare per il mondo e nessuno sentirà più parlare di me.
Filo d’Oro di Oe si fece avanti e parlò con la sua voce melodiosa.
- Un giorno ti dissi che saresti divenuto re, ebbene quel giorno è arrivato poiché, se tu vuoi, potrai essere per sempre il re di questi meravigliosi uccelli che noi chiamiamo fenicotteri, il Popolo Rosso. Con loro migrerai per i paesi del mondo e, a ogni primavera, tornerai nei nostri stagni per raccontarci quel che hai visto nel tuo peregrinare. Potrai inoltre, col tuo nuovo popolo, fare da messaggero fra le domus de gianas, le case delle fate, della nostra isola e quelle degli altri paesi del mondo, poiché ovunque è il Regno della Magia, di cui talvolta qualcuno oltrepassa i confini, così com’è accaduto a te.
Accetti la mia proposta?
Nabine la guardò senza parlare e sorrise: – Sono felice dell’onore che mi fate ed è questo il dono più bello che abbia mai ricevuto.
Da allora, durante la stagione autunnale, re Nabine e i suoi fenicotteri attraversano le valli e i cieli della Sardegna portando l’eco dei loro saluti alle gianas che ancora si trovano nascoste in tutta l’Isola, mentre in primavera tornano a popolare i nostri stagni col loro tenue colore rosato, portando alle fate le notizie raccolte in altri paesi e fra altre genti.
Fu questo il dono delle gianas alla loro Isola.
18/02/2008, Lidia Petrulli