Per esempio, qualcuno di notte tossisce e batte i pugni sul lavandino perché sa che quella maledetta tosse non lo lascerà più, che quella stessa tosse anzi è il segno della sua morte più o meno imminente. Cosa gli resta da fare? Forse, dopo tante balle, al massimo mettere a posto qualche dettaglio prima di andarsene: ecco, il miglior Tarantino è tutto qui.
La condizione del protagonista de Le iene, Mr. Orange, in The Hateful Eight diventa condizione universale dal momento in cui, in un open space molto simile a quello del suo primo film, gli otto pieni d’odio cominciano ad ammazzarsi, non senza aver prima omaggiato e allo stesso tempo usato ciò che regge il mondo, la sua vera, tenebrosa e beffarda Signora, la Menzogna, allo scopo maligno di scavare ulteriori vie per l’odio: come ci si può fidare di un negro che descrive la morte di tuo figlio nella maniera più insultante possibile per te che sei un confederato? E d’altro canto, cosa ne sappiamo noi confederati della profondità delle cicatrici che abbiamo inciso nella sua carne per portarlo a immaginare e soprattutto a godere di tanto inferno?
Lui, pubblicamente, ha già trovato un’invenzione di paradiso portando con sé una lettera apocrifa di Abramo Lincoln, l’amico bianco che ogni negro vorrebbe avere. Non c’è nessun Mr. Orange, qui, che nonostante tutto pensi di riuscire a salvarsi la vita dopo aver sgominato la banda, né nessun Mr. White che voglia sapere la verità o che creda nella lealtà, semplicemente perché non esistono né l’una né l’altra e ognuno di loro lo sa, è inserito nella storia americana e la conosce bene: queste le differenze decisive fra i due film.
Utilizzando abilmente western e noir, o meglio quello che gli serve e quello che prende su (per usare le parole di Burroughs, alla faccia di tutti cinefili), Tarantino chiude il cerchio cominciato nel 1992 con la sua prima pellicola e trova una volta per tutte la strada della vera condizione umana: questa coincide anche, bizzarramente solo fino a un certo punto, con una nuova definizione dell’horror che unicamente all’apparenza ricalca la sua forma più volgare e chiassosa, lo splatter.
Se in principio furono i fantasmi e quindi vennero gli zombi, oggi arrivano gli agonizzanti, i semimorti: perlopiù ricoperti di sangue da capo a piedi ma ancora in grado di sparare e mentire, usano il breve spazio vitale che resta loro per “mettere a posto qualche dettaglio prima di andarsene”. Lo spettatore, al di fuori delle metafore artistiche, può identificarsi subito in tanta precarietà, in tanta vita, instabile per definizione: siamo proprio noi (e non è neppure detto che ci manchi il sangue).
Naturalmente, quel che nel Kurosawa di Vivere fu cinema d’autore, nel regista di Knoxville diventa Cinema di Genere (cioè il cinema d’autore di Tarantino): c’è chi (Mobray) parla di se stesso come di un futuro cadavere che avrà un prezzo preciso, stabilito dalla taglia che pende sulla sua testa, e chi (Daisy) non rinuncia a minacciare l’arrivo di un improbabile esercito di banditi tentando così di salvarsi la vita; ma i suoi nemici ne riconoscono al volo le menzogne proprio perché abituati a produrne in continuazione (Warren) o dotati di un talento speciale per analizzarle e smascherarle (Mannix) e quindi non lasciano via di scampo alla donna: mentre stanno ormai soffiando via l’ultimo spirito vitale, i due impiccano secondo giustizia – e non secondo la legge passionale della frontiera – la sanguinaria mentitrice (1).
L’atto conclusivo prima di spirare, prima della fine del mondo, non può essere che la lettura del falso scritto di Lincoln, un cippo commemorativo di assurda, inconcepibile retorica (com’è d’altro canto la storia) su una condizione, la vita, che come si è detto fa dell’insicurezza il suo tratto essenziale: è pronta a sparire da un momento all’altro, ma difficilmente senza lasciarci il tempo di riflettere atterriti sulla nostra fine, facendo così piazza pulita delle favole amene che continuiamo a raccontarci l’un l’altro. “La mia cara vecchia Mary mi chiama, quindi immagino che sia tempo di andare a dormire. I miei rispetti. Abramo Lincoln”… “La mia cara vecchia Mary… questo è un bel tocco”…“Sì… Grazie.”
Filologia inutile, impotente di fronte alla forza della politica: come al solito, fin da quando Lorenzo Valla scoprì la falsità della Donazione di Costantino, uno studio del 1440 non a caso pubblicato solo nel 1517 (e fra i protestanti), fuori tempo massimo.
Gianfranco Galliano
NOTA
(1) Che una volta morta si trova sulla schiena, come mostrano due fuggevoli inquadrature, delle ironiche ali da angelo (!) disegnate da due racchette da neve.