DELIRIO ALL’ULTIMA PALLOTTOLA – TUTTO IL CINEMA DI MICHELE SOAVI 25

APPENDICE

DELIRIA: LA FALSA SERIALITA’ DELL’ASSASSINO FANTASISTA – STUDIO DI UN TOPOS CINEMATOGRAFICO IMMOR(T)ALE

Quanti modi esistono di uccidere?

Ieri Sei Donne per L’Assassino, Reazione a Catena e Tenebre in Italia, Halloween – La Notte delle Streghe, Venerdì 13 e Nightmare – Dal profondo della notte in America.

Oggi Seven, Scream, Saw, sono i nuovi cult moderni.

In mezzo Deliria, classe ’87, diretto da Michele Soavi, summa e miscela di efficace spaghetti-horror dell’ultimo, tardo, periodo d’oro e per questo doppiamente singolare; in comune hanno la schematicità, il meccanismo previsto e prevedibile dell’eliminazione fisica di ognuno dei malcapitati personaggi-agnellini, la fisicità, l’inviolabilità e l’invulnerabilità (tale da diventare paragonabile a un supereroe dei fumetti… come in taluni casi avverrà con i vari sequel) del serial-killer, che sia carnale o partorito da sogni distorti della mente.

E non solo. Il suo volto, è quasi sempre celato da una maschera o deturpato, sfigurato in maniera orribile, ma soprattutto è un fantasista della morte. Un artista del delitto, sappiamo che succederà, che comunque ucciderà, ma non come. Qui ritorna anche Thomas De Quincey, ispiratore dei film esoterici di Dario Argento (Suspiria e Inferno) il pigmalione del nostro Soavi, che scrisse L’assassinio come una delle belle arti (Edizioni BUR), e se non è una delle belle arti il cinema, la settima per l’esattezza, qual è?

L’altra carta che entra in gioco quasi sempre è la gabbia chiusa. La trappola per topi. O i Dieci Piccoli Indiani, se preferite, della Christie. Ossia l’impossibilità di scappare dal luogo, dal palcoscenico della morte – e in Deliria si compie una perfetta analogia – aggravata dalla ridicola stoltezza dei sopravvissuti che gettano quasi sempre alle ortiche l’ultima chance di fuga facendo gridare all’idiota lo spettatore, che però sotto sotto ne gode dello sbaglio fatale.

Ma torniamo al come. E con cosa. In Sei Donne per L’Assassino di Mario Bava fa l’esordio uno strumento medioevale, trattasi di un guanto ferrato con tre uncini (siamo nel 1964!) conficcati nel volto della vittima con una memorabile inquadratura in soggettiva.

È lo sviluppo dello shock del sadismo, dell’accentuazione portata al limite del contatto tra assassino e vittime, che vede quest’ultime sfigurate col fuoco, soffocate, strangolate, famoso l’affogamento nella vasca da bagno con i polsi recisi dove il corpo semi nudo in intimo bagnato per l’epoca è una sfida alla censura nonché ai pruriti sessuali. Una scena simile verrà ripresa da Dario Argento, nel già citato L’uccello dalle piume di cristallo (1971) come un “plagio” del film del Maestro genovese, il quale è un vero precursore nello sviluppo di morti orrende.

Reazione a Catena (1971) è il primo vero esempio di questa estetica, come ha ricordato più volte Dardano Sacchetti autore del soggetto; Mario Bava volle costruire l’intero film su una sequela di omicidi l’uno diverso dall’altro, un “tutti contro tutti”, dove la trama è puro pretesto al servizio della spettacolarizzazione dell’omicidio e della tecnica registica e stilistica con la quale viene esibito, come fosse un dipinto (egli infatti era un grande direttore della fotografia e concepiva le inquadrature come dipinti): a cominciare dalla scena iniziale, durante un temporale una mezzaluna oscillante (vedi Il Pozzo e il Pendolo di Edgar A. Poe) uccide la contessa inferma sulla sedia a rotelle, da lì in poi è un susseguirsi di lame e asce fino al copiato – in Venerdì 13arpionamento al letto degli amanti. Se in Sei Donne per L’Assassino contribuiva ad aumentare la violenza un uso del colore fuori dalla norma, tinte dal viola-giallo-rosso-malva-blu elettrico, in questo l’ottima fotografia dello stesso Bava è perfetta e studiata come in un quadro. Lo spettatore di fronte allo scoppio improvviso della violenza si ritrova infilzato alla poltrona come i coleotteri dallo spillo di uno dei protagonisti.

Temi che svilupperà ancora in La frusta e il corpo unendoli al sadismo e in Gli orrori del castello di Norimberga dove fra gli altri è da ricordare la vittima imprigionata nella Vergine di Norimberga, scena che verrà citata e rifatta anni dopo da Tim Burton nel suo fiabesco horror Il mistero di Sleepy Hollow.

I primi Ottanta vedono un ulteriore scatto, un passo avanti, Bava è scomparso da poco e il giovane Dario Argento affonda l’ascia nelle carni. In tutti i sensi. Tenebre (1982) è doppiamente importante perché vede come aiuto regista il giovane Michele Soavi che ha terminato la sequela di brevi comparsate in modestissimi horror nostrani ed è passato dietro la cinepresa, oltretutto in un film che vede l’utilizzo per la prima volta da Argento dell’innovativo louma, un braccio snodabile – fino ad oltre sette metri – manovrato a distanza e controllato con un monitor che consente di effettuare complesse traiettorie di ripresa e di raggiungere luoghi di ripresa inaccessibili alle normali gru; il suo stile ne sarà segnato in futuro permettendogli di compiere quei movimenti di macchina che si riveleranno un marchio e un segno distinguibile di tecnica e agilità necessarie quanto a film come Deliria che ad alcune fiction d’azione degne di nota come Uno Bianca.

Tenebre è considerato il “film macelleria” di Dario Argento, si contano una dozzina di vittime ammazzate nei modi più disparati, ma è di nuovo la fotografia stavolta fredda e bianca, al neon, a illuminare ambienti moderni e quartieri come quello dell’EUR di Roma dove è stato girato a caratterizzare e fare da contrasto con il rosso del sangue.

Durante gli anni Ottanta il testimone del serial-killer sembra passato oltreoceano. Infatti la generazione cresciuta nell’ammirazione dei nostri artigiani del cinema, Mario Bava in primis, dirige i primi capitoli di quelli che diventeranno veri fenomeni da cassetta e a loro volta oggetto di cloni e omaggi da parte delle contemporanee generazioni di cineasti allora adolescenti che sono cresciuti con l’incubo di Freddy Krueger, di gite al lago rovinate da Jason Voorhees e Halloween trascorsi in compagnia di Michael Myers.

Pur sottolineando le diversità dei film, nonché delle carriere dei registi, di  Sean Cunningham – autore di Venerdì 13 (1980) – di John Carpenter – autore di Halloween – La Notte delle Streghe (1978) – e di Wes Craven – autore di Nightmare – Dal profondo della notte (1984) – e lasciando da parte la teoria secondo la quale questi capostipiti dello slasher contengono un messaggio d’ammonimento rivolto alla società puritana e conservatrice americana: attento giovanotto a ubriacarti, ballare il rock e fornicare ovunque, potrebbe succederti questo, una sorta di equazione a livello basso di eros-thanatos, pur vera, le somiglianze tra le pellicole sono tante, come la loro uscita nelle sale è distribuita in una manciata di anni e tutti abbiano avuto un enorme successo di pubblico consegnandoli alla storia dell’horror non solo su pellicola (chi ricorda i fumetti realizzati in onore di Freddy?).

La prima caratteristica visiva in comune – anche con Deliria – è la maschera. Il non-volto dell’omicida. Il primo a indossarla è il Michael Myers di Halloween che pochi sanno riproduce le fattezze di William Shatner / Capitano Kirk in Star Trek, seguito da vicino dal Jason di Venerdì 13 che porta una maschera da giocatore di hockey, pure fisicamente i due si assomigliano nei movimenti e nello stile, oltre che godere di lunga e immortale vita nei capitoli successivi che nel secondo caso giungono fino ai giorni nostri senza intenzione di mettere la parola fine, mentre Freddy Krueger che seppur non ne indossa materialmente una, la sua faccia devastata dalle fiamme diventa un’icona.

Nel film di Soavi il parallelo è rappresentato da una grottesca e inquietante maschera da civetta che durante la messa in scena dello spettacolo viene rubata all’attore che impersona il serial-killer di cui si stanno narrando le gesta e finisce in mano a quello vero. Ma nelle pochissime inquadrature dove lo si vede a volto scoperto ricorda vagamente la fisicità del protagonista pelato fritto sulla sedia elettrica di Sotto shock di Wes Craven.

Ho volontariamente omesso dalla lista dei più famosi serial-killer mascherati il temibile “Faccia di Cuoio” che pure una maschera fatta di pelle umana cucita su misura ce l’ha, però egli non è solo, agisce con la famiglia pazza quanto lui, non visita le case altrui ma è visitato dai maldestri viaggiatori di turno, è soprattutto un antropofago, è reale e non gode di decine di capitoli successivi, ma in una cosa il protagonista di The Texas Chainsaw Massacre (1974) di Tobe Hooper lo accomuna al maniaco di Soavi, una scena, un omaggio forse voluto o casuale (d’altronde l’autore del soggetto è Luigi Montefiori alias George Eastman vecchia guardia dell’horror nazionale nonché braccio destro di Joe D’Amato), quando il nostro brandisce una sega elettrica con la quale ha appena separato le gambe dal tronco di una vittima non può non ricordare chi di tale strumento ha fatto un’icona come “Faccia di Cuoio”.

In Nightmare il serial-killer fa un passo avanti distinguendosi dagli altri: egli arriva nel sogno, anzi negli incubi, uccide nella mente ma si muore nella realtà. Un meccanismo che da allora verrà ripreso continuamente, la mescolanza di forma e sostanza dei pensieri delle vittime legate tutte dallo stesso incubo che puntualmente si materializza abbattendo così le barriere che lo separano dalla realtà, che lo confinano in un mondo che gli appartiene in quanto frutto delle fantasie – e del rimorso – dei genitori degli adolescenti tormentati che lo hanno bruciato vivo anziché consegnarlo nelle mani della giustizia.

Ultimo vero e proprio omaggio dichiarato al genere è Intruder (1989), piccolo cult per gli appassionati dovuto anche al cast e ai nomi che orbitano intorno ad esso: fra gli attori c’è un giovane Sam Raimi nel ruolo di un macellaio, proprio lui, l’osannato regista de La Casa – Evil Dead e Spiderman e un cameo da poliziotto dell’amico e attore-feticcio Bruce Campbell, la regia è dell’allora giovane Scott Spiegel oggi produttore di Hostel e il nome di Quentin Tarantino a cui è legato tale film torna perché il produttore è Lawrence Bender, colui che l’ha scoperto dalle Iene al doppio Kill Bill.

Intruder è la summa degli archetipi del genere, debitore del cinema giallo italiano dei Settanta in primis di Dario Argento e Lucio Fulci, claustrofobico e violento ha la sua forza sul piano visivo e sugli effetti splatter che citano nelle morti atroci tramite decapitazione, spilloni, ganci e seghe circolari, classici come Paura nella città dei morti viventi di Fulci o Rosso Sangue di Joe D’Amato alias Aristide Massaccesi, nonostante resta godibilissimo. L’azione si svolge di notte dentro un market dove i protagonisti apprendono di essere stati licenziati per l’avvenuta vendita dello stesso, mentre fuori si aggira un ex fidanzato morbosamente attratto – e respinto malamente – da una delle cassiere, all’interno avvengono i primi delitti a opera di un intruso.

Oggi il filone si è concluso, tanto che i suoi padri fondatori sono presi di mira: Wes Craven, padre di Nightmare, dirige nei Novanta la serie di Scream dove l’assassino indossa una maschera con le sembianze del famoso dipinto “L’urlo” di Munch e più tardi esce la parodia comica Scary movie, sberleffo di tutto un genere che per anni ha terrorizzato le platee di adolescenti al cinema.

Lo slasher puro non esiste più, se si escludono i vari sequel di Venerdì 13 e Halloween che però interessano solo il mercato di cassetta degli aficionados e sempre meno il pubblico, vista la povertà di idee nonché il copione identico di ogni episodio: i vari Michael / Jason diventano parodie di se stessi morendo e risorgendo all’infinito come cartoon.

Alcuni elementi sopraccitati sono stati ereditati dai thriller malsani e d’atmosfere horror come Seven e recentemente Saw soprattutto per quanto concerne le modalità degli omicidi a cui è dedicata la massima attenzione e inventiva degli autori per risultare più cruenti e inaspettati possibile, quasi a discapito di tutto il resto.

Di Deliria stupisce che non si sia tentata la strada del sequel (anche se pare fosse nelle intenzioni di Joe D’Amato dirigerlo personalmente, a detta di Antonio Tentori che lo ha dichiarato in una recente intervista inclusa nel dvd italiano di Frankenstein 2000) nonostante il buon successo commerciale internazionale e anche quello della critica ufficiale con la premiazione al Festival di Avoriaz, in un periodo, quello degli anni Ottanta, dove c’era quasi sempre un “parte due” o a volte anche un “tre” se il botteghino pagava.

Un’altra curiosità sono i vari nomi con cui la pellicola è stata chiamata prima di quello ufficiale, tutti bizzarri e anglofobi come andava di moda all’epoca: il più celebre è Aquarius, ma anche Stage Fright e Bloody Bird, quest’ultimo fa venire alla mente per assonanza un altro film della factory D’Amato e prodotto dalla sua Filmirage (di cui giovanissimo ha fatto parte lo stesso Soavi) ossia Killing Birds Raptor anche conosciuto come Zombi 5, dove i non-morti sono dei rapaci, guarda caso lo stesso uccello della maschera di Deliria.

Il primo film di Michele Soavi va dunque ricordato e apprezzato per essere la perfetta sintesi, forse l’ultima in ordine temporale, di un sottogenere decantato, temuto e sfruttato come lo slasher, che ha prodotto negli Ottanta dozzine di pellicole anche qualitativamente molto discutibili, qui proposto nella sua originale italianità senza infamia e con qualche lode: il ritmo, la padronanza dei mezzi e l’atmosfera sublimata nella scena finale con la composizione metafisica dei cadaveri sul palcoscenico e la Marsigliese in sottofondo, merito dell’abilità di un grande tecnico della cinepresa quanto visionario che manca ingiustamente da troppi anni al genere che lo ha visto nascere e dal quale ci si aspetta ancora molto. La speranza è l’ultima a morire, no?

Nota: la presente appendice non ha la pretesa di essere l’enciclopedia esaustiva di un (sotto)genere e tantomeno uno studio citazionistico fine a se stesso, altri l’hanno già fatto, ma una panoramica relazionata all’opera prima di Michele Soavi, Deliria, confrontata con le altre pellicole del periodo e quelle che l’hanno anticipata individuando i meccanismi e la dialettica del genere stesso per una visione più attenta e stimolando la stessa a nuove aperture cinematografiche.

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(25 – fine)

Gordiano Lupi, Maurizio Maggioni e Fabio Marangoni