In quei giorni di pioggia Mario insisteva per mangiare le frittelle che preparava la nonna. Lei, con un sorriso compiaciuto, acconsentiva senza difficoltà e spediva la Coca a tirar via la polvere sotto il guardaroba o a mettere in ordine la stanzina delle cose inservibili: questo era il suo modo di rimanere padrona assoluta della cucina.
In una casa così grande, così oscura e così spaziosa, potevo scegliere tra rimanere a guardare come le mani venose della nonna preparavano in maniera lenta e pignola le frittelle (che lei chiamava frattelle) o andarmene con la Coca e vederla sistemare le masserizie della stanzina delle cose inservibili. La Coca la chiamava soffitta ma io sapevo bene, dal Piccolo Larousse Illustrato, che una soffitta non poteva trovarsi al pianterreno, in un angolino con una finestra che dava sui confini del giardino, di fianco alla parete divisoria in mattoni, un posticino molto silenzioso ed umido dove c’erano un pezzo di ferro rettangolare ossidato, delle mattonelle con disegni floreali e un rubinetto per irrigare il giardino. Anche se il rubinetto era privo di chiave e comunque nessuno innaffiava il giardino, che non era neppure un giardino: non c’erano piante né fiori da coltivare, bensì erbacce, eterogenee piante rampicanti, porcellini di terra, formiche, pozzanghere, rospi e topi.
Credo che avessi già quattordici anni quando venni a sapere qual era l’aspetto esteriore della casa. Non uscivo quasi mai e quando lo facevo andavo e tornavo per lo stesso marciapiede di casa in modo tale che conoscevo a memoria gli edifici di fronte ma non conoscevo quello che mi ospitava dalla nascita. Una volta decisi di procedere solo per angoli retti senza attraversare in diagonale nessuna strada. Camminai dall’angolo sul marciapiede di fronte. A sinistra superavo cancelli di ferro o filo spinato e un’indefinita vegetazione; a destra, di tanto in tanto, ritrovavo un albero imprigionato in un quadrato di terra. In primavera e in estate i rami si intrecciavano in cielo e il sole filtrava appena appena, per una fessura, come attraverso uno staccio rinfrescato dall’ombra e mosso dal vento. Ma quel giorno si era in inverno e all’imbrunire. Tutto era molto triste, c’era un venticello fiacco, muto, la via era deserta, con quelle lucette che uscivano come già spente da saloni su tetti altissimi. Non so perché, tutto ciò mi faceva venire voglia di piangere e pensai subito a Mirta, una ragazza più vecchia di me che studiava nella mia scuola. Mi trovavo su dei mosaici azzurri e bianchi, uno bianco e l’altro azzurro, con nove quadratini posti in rilievo, e una pagina insozzata di El Gràfico stava per volar via col vento. Ci misi sopra un piede in tempo e, senza piegarmi, lessi: “Musimessi, bandiera del Newell’s”. Lo lasciai andare e il foglio volò via emettendo un aspro gemito e s’arenò nell’acqua. Che lugubre la mia casa! Si intravvedeva appena. Piante rampicanti appassite e scure coprivano il cancello nero e ossidato; dietro, palme grigie, pini sgusciati e l’onnipotente albero della gomma non lasciavano neanche intravvedere l’ossatura opaca della nostra casa, le cui pareti assomigliavano a mappe di crepe e macchie. Ma verso il cielo bianco si stagliava l’aguzzo tetto a due spioventi, un tetto di tegole che erano state rosse ed ora erano violacee o del colore del fango.
In casa c’era anche una soffitta ma siccome ci dormiva la Coca non era più una soffitta ma una camera da letto; anche se la nonna la chiamava la stanza della domestica (e diceva anche tranghia per tramvia e stivaletti per scarpe e la metropolitana di Primera Junta per lei era sempre l’Anglo). A me piaceva quella stanzina con il soffitto a V capovolta e con quelle grosse travi di legno scuro. Su una panchetta della cucina troneggiava una radio molto vecchia, molto alta, molto poco udibile, che la nonna usava ogni sera per ascoltare il radioteatro di Radio El Mundo. Usurpava mezza stanza un immenso guardaroba di mogano a tre ante con uno specchio ovale. Se lo si apriva si notavano, appesi con puntine da disegno: Gardel, vestito da gaucho celeste; Robert Taylor, da cowboy; Angel Magana, con la sua giacca e il suo papillon; c’era anche una piccola raffigurazione della Virgen de Lujàn e una di Ceferino Namuncurà. Alla parete era appesa una foto a colori in cui la Coca (nel giorno del suo matrimonio con Ricardo) non sembrava neanche la Coca, con quella pettinatura alta e quelle labbra così rosse e sottili. Sul marmo del tavolino da notte c’erano un flacone d’acqua di colonia e una stecca di zolfo. Tuttavia, il meglio della stanza era una finestrella circolare, simile ad un occhio di bue, che si apriva in due metà dai vetri rosei.
Perciò, quando si diceva che la Coca andava a pulire la soffitta significava in realtà che andava a mettere in ordine la stanza delle cose inservibili. La nonna era ben contenta quando Mario le chiedeva di fare le frittelle, non tanto perché le piaceva prepararle, quanto perché così recuperava un po’ di quell’importanza che aveva avuto un tempo, quando era lei a dirigere tutte le cose di casa, quando ancora non avevano iniziato ad emarginarla. Naturalmente, poiché stava rimbecillendo (ottantasei anni, arteriosclerosi) era giustificata ad avere manie, non stupiva che si sbagliasse e si dimenticasse, non era deprecabile il fatto che a volte mentisse o s’inventasse le cose. Il dottor Calvino disse che erano cose tipiche dell’età; non c’era una soluzione scientifica e bisognava semplicemente accettare la situazione così com’era. In ogni caso la nonna era adorabile e non disturbava nessuno. Passava i pomeriggi autunnali e invernali con uno scialletto sulle ginocchia e una sciarpa sulle spalle, dondolandosi sull’enorme sedia a dondolo che, tuttavia, persa nello sterminato salone pieno di disegni di fiori lilla e uccelli verdognoli, sembrava piccola. Lì, con le mani giunte, pensava a chissà cosa, guardando attraverso la tavola nera e ovale, sempre coperta da un tappetino grezzo lavorato ad uncinetto. Altrimenti lucidava tutti gli oggetti metallici della casa fino a farli brillare in modo accecante e tale scintillio era come uno scandalo, tra tante cose opache e malinconiche. Io ero solito cercarle candelabri di bronzo o cestini da frutta d’argento ma Mario me lo vietò argomentando che ciò favoriva lo sviluppo di qualcosa che si potrebbe definire mania. Ad ogni modo, ora che le giornate s’erano fatte più tiepide, alla nonna era venuta voglia di vagare sul far della sera per gli angoli inesplorati, quasi tutti lo erano, del giardino; se ne stava seduta, ben lontana dalla casa, su una sediolina di paglia, fino a che la Coca non usciva a cercarla e la costringeva a rientrare, poiché poteva esserle assai nociva l’umidità della sera. Convincerla a rimanere in salone era difficile e ogni giorno passava più ore in giardino, in genere vicino alla statua abbattuta. Il dottor Calvino consigliò di assecondare la sua volontà ma stando attenti che non prendesse freddo per via della debolezza dei suoi bronchi.
La notte della tempesta di santa Rosa, quando Mario si alzò per chiudere meglio le persiane, la nonna, incredibilmente, camminava per il giardino sotto la pioggia, sballottata come una fragile pianta dal vento gelido e impetuoso. Il dottor Calvino diagnosticò una polmonite e ora all’arteriosclerosi si aggiunse la febbre e la nonna cominciò a delirare con gli ometti. Gli ometti? Sì, gli ometti dai pantaloni gialli e dalla giacca rossa che s’elevavano su degli stivali neri molto alti e che avevano la testa coperta da un berretto azzurro di velluto. Era inutile che interrompessero i suoi pensieri annunciandole che Telma aveva partorito due gemelli o che zia Marcelina le mostrasse le lenzuola che aveva appena ricamato. La città degli ometti si chiamava Natania e in essa c’erano principalmente boschi, torri e ponti; la cittadella del re e i tre ministeri erano sorvegliati da leoni alati e da tori con teste d’aquila. “Da statue di leoni e di tori?” No, da leoni e tori in carne ed ossa. Il dottor Calvino fece la faccia tipica che fanno i medici amici di famiglia e la casa divenne passaggio obbligato di parenti lontani solidali nella disavventura che sopraggiungeva. Quando l’esile vituccia della nonna si spense del tutto arrivarono quelli delle pompe funebri con gli assurdi addobbi con i quali si accoglie la morte.
La camera ardente fu allestita nella sala in cui la nonna lustrava metalli e i manici della bara brillavano come se li avesse lustrati lei stessa. Le due sorelle sposate e la zitellona la ricordarono quando era giovane, sempre bella e vivace, e gli zii notai o avvocati bevevano caffè con cognac e calcolavano quante possibilità avevano Balbìn e Frondizi rispetto a Peròn e Quijano. Per tutta la serata contemplai un volto dopo l’altro (e a volte pensavo a Mirta) e, disertando la veglia funebre, m’inoltrai nell’intrico del giardino, tra palme grinzose e campanelle azzurre che morivano appena venivano sradicate. Piansi, sia pure in modo contenuto, al solo ricordo di lei lì, con i suoi occhiali e il suo cappotto nero.
Mario permise che la Coca, che s’era separata da Ricardo, quello della foto a colori, facesse venire a vivere con lei un fidanzato, o qualcosa del genere, ora che non c’era più la nonna che si scandalizzava. Risultò essere un individuo torvo, con pochi capelli, dalle brutte maniere e di pochissime parole. La prima settimana, dopo che tornava da non so dove, più o meno sempre alla stessa ora, passò i pomeriggi ad osservare attraverso la finestrella circolare la casa di fronte. Il sabato dimostrò di possedere un perverso spirito innovatore: iniziò ad introdurre una serie di cambiamenti e, con il permesso di Mario, si accanì a rivoluzionare tutte le cose, che stavano bene dove stavano.
Progettò di cominciare nientemeno che dal giardino: tagliare le erbacce, seminare il prato, coltivare fiori. Così il giardino non sarebbe stato altro che un giardino, ovvero un qualcosa di ordinato, pulito e manifesto a tutti e non un luogo misterioso e segreto. Non potevo più pensare e giocare nell’angolino formato dalla palma più grossa, dalla siepe di ligustri selvaggi e dalla statua rotta e abbattuta, ricoperta di muschi e licheni, come direbbe il manuale di Botanica del primo anno. Attorno al piedistallo della statua le erbacce erano cresciute fino a nasconderlo del tutto ma sotto, sempre se qualcuno riusciva a sollevarlo, dal momento che era pesantissimo, la terra era piana e compressa in un cerchio perfetto ed era nel cerchio che c’erano i primi accessi. Era da un bel po’ di tempo che quel blocco di marmo era abbandonato nel giardino: ELISA E MARIO, un cuoricino e una freccia mezzi cancellati, e Mario era vedovo da più di vent’anni.
Il cane dei vicini rallentò il piano del fidanzato della Coca. Latrava e piangeva giorno e notte; era un cane stupido e insopportabile e in effetti lui non lo poteva sopportare: con una uscita molto tipica del suo modo di risolvere i problemi gli lanciò della carne avvelenata da sopra il muro divisorio. I vicini, che pure, anche se per altre ragioni, erano persone sgradevoli, sporsero denuncia alla polizia e lui dovette passare due giorni al commissariato. Al ritorno, preferì rinnovare l’interno della casa. Mario era ormai molto vecchio e non influiva più su nulla; era una suppellettile in più che, invece di occupare un posto nella stanzina delle cose inservibili, lo occupava nella biblioteca: con una stilizzata calligrafia stile anni Trenta copiava in un quaderno di scuola poesie romantiche o altisonanti, perché, a che scopo? Ma le settimane passavano e il tipo stava già finendo di ammodernare e dipingere la casa, con dei colori sempre più chiari e luminosi, e subito avrebbe attaccato con il giardino. Cominciò a pulirlo procedendo per cerchi concentrici il cui centro era la casa. Di sicuro mancavano ancora molti metri alla statua e ancora mi rimaneva un po’ di tempo per chiaccherare e informarmi di altri dettagli. Nel frattempo, strappò le prime erbacce, eliminò le scatole di latta e le pietre che s’erano accumulate in più di venticinque anni di negligenza, uccise un’infinità di rospi innocenti e tracciò così il primo cerchio. Per fortuna col passare dei giorni procedeva più lento poiché le nuove circonferenze diventavano sempre più grandi. A scuola ero nervosissimo pensando che sarebbe già arrivato al pino Julio (osservandolo da un angolo ben preciso i nodi recitavano Julio) e, in effetti, ci era arrivato: la terra era già perfettamente ripulita e spianata tutt’intorno.
Essi avevano iniziato un’ordinata migrazione e, benché mi dovessero avvertire mai acconsentirono a dirmi dove si sarebbero trasferiti. Per colmo di sventura, la domenica rinunciò alla sua abituale chiacchierata e alla partita di biliardo con i suoi amici, dei tipacci del bar con il sigaro in bocca, e rimase in giardino a bere mate con la Coca e a leggere le fandonie del giornale, cosicché non potei avvantaggiarmi per nulla. Il giorno dopo mi attendeva una prova scritta di zoologia e non riuscivo a concentrarmi, gli occhi mi scappavano fuori dalla finestra. Non ero dell’umore giusto per affrontare l’ameba e il paramecio; non ero in grado di pensare a simili stupidaggini, sicuro che lunedì sarebbe inevitabilmente arrivato al piedistallo. Alle due di notte detti la buonanotte ed ero così nervoso che non riuscii a chiudere occhio. Di zoologia non ricordavo nulla; tentai di copiare, la professoressa mi scoprì e mi ritirò il foglio. Finalmente, allora, sul banco di scuola, rimasi comodo e disoccupato e potei così ricordare ancora una volta gli ometti dai calzoni gialli e dalla giacca rossa che s’elevavano su stivali alti e neri e che avevano in testa un berretto azzurro di velluto.
Fernando Sorrentino
(Da Imperios y servidumbres, Barcelona, Editorial Seix Barral, 1972. Traduzione di Alessandro Abate)