Titolo originale: Magnificat
Anno: 1993
Regia: Pupi Avati
Soggetto: Pupi Avati
Sceneggiatura: Pupi Avati
Direttore della fotografia: Cesare Bastelli
Montaggio: Amedeo Salfa
Musica: Riz Ortolani
Produzione: Antonio Avati e Giorgio Leopardi
Origine: Italia
Durata: 1h e 47’
CAST
Nando Gazzolo, Luigi Diberti, Arnaldo Ninchi, Massimo Bellinzoni, Dalia Lahav, Lorella Morlotti, Massimo Sarchielli, Brizio Montinaro, Marcello Cesena, Consuelo Ferrara, Eugenia Abbati, Miriam Abutori, Eleonora Alessandrelli, Ilaria Amaldi, Diana Anselmo, Santi Bellina, Salvatore Billa, Flavio Bisone, Michelangelo Brancato, Laura Brotzu, Valentina Capone, Alfredo Caruso Belli, Massimiliano Cavallaro, Davide Celli, Chantal Chierici, Consuelo Cialdi, Marco Colacioppo, Paola Contini, Rodolfo Corsato, Vincenzo Crocitti, Elisabetta Darida, Ludovico Dello Ioio, Mariella Di Lauro, Lucio Di Lullo, Francesco Gabriele, Federico Gentilini, Federico Geremicca, Gaia Graziani, Ferdinando Gueli, Barbara Marciano, Bruno Marinelli, Marina Marini, Maria Claudia Massari, Michele Melega, Mimmo Mignemi, Beatrice Morgia, Salvatore Mortellitti, Abramo Orlandini, Ignazio Pandolfo, Claudio Parise, Giuseppe Pasculli, Mario Patanè, Rosa Pianeta, Claudia Pozzi, Fabio Roscillo, Lucio Salis, Cinzia Scalzi, Andrea Scorzoni, Loredana Solfizi, Bianca Maria Sorgi Moschini, Sofia Spada, Marzia Spanu, Don Tesdahl, Marco Tomassi, Valentina Tomiselli, Luca Trinca, Guglielmo Ucciero, Antonio Viespoli, Sasa Vulicevic, Giuliana Zaroli
TRAMA
Un film in costume, ambientato nella Settimana Santa del 926 dopo Cristo, costruito in maniera non molto uniforme e coerente a livello di sceneggiatura su quattro episodi di vita quotidiana, vera e propria cartina di tornasole per conoscere il rapporto tra l’uomo e Dio nel Medio Evo. Avati descrive la morte e il funerale di un cavaliere che spartisce il suo patrimonio tra figli, parenti e amante, prosegue con una quattordicenne analfabeta costretta a farsi suora per necessità familiari, ci fa conoscere gli eccidi di un boia e del suo apprendista, segue i passi di un frate pellegrino che conta i morti, illustra un matrimonio nobiliare e il parto (purtroppo) femminile della concubina del re. Storie collegate tra loro da una troppo invasiva voce fuori campo – intensa e profonda – di Nando Gazzolo e dai versi del Magnificat (L’anima mia magnifica il signore), da quella religiosità diffusa che comunque pervade il secolo.
Presentato in concorso al Quarantaseiesimo Festival di Cannes, Avati ha confidato: “Sono risalito a mille anni fa per trovare un’epoca in cui la fede era fondamentale per riempire quel silenzio di Dio che era allora identico a quello che è oggi. Era tale e tanta la necessità di trovare un interlocutore che trascendesse le cose e gli uomini per dare un senso a una vita così grama e bestiale, per trovare un modo di vivere e sperare”. Inutile narrare la trama per filo e per segno, anche perché non esiste una vera e propria storia con un intreccio e una concatenazione di eventi, ma le cinque storie scelte come esempio sono spaccati di vita medievale accompagnati dal commento di un narratore, spesso didascalico e dal piglio documentaristico. La cosa migliore del film sono le usanze medievali descritte con dovizia di particolari, i costumi curati con precisione e l’ottima ricostruzione scenografica. Todi, i suoi castelli e la vallata boschiva si prestano bene a ospitare il set di un film in costume, che Avati costruisce con taglio che fonde suggestioni pasoliniane e il rosselliniane, attraverso una scelta di volti perfetti per i ruoli. Gli attori sono bravi e ben calati nelle rispettive interpretazioni ma Avati stacca con taglio netto rispetto alla precedente produzione perché non troviamo alcun componente della sua storica factory. Tecnica di regia sopraffina: il film inizia e finisce con intensi piani sequenza tra cielo e campagna con la visione di una quercia imponente che pervade l’orizzonte. Fotografia curata dal vecchio aiuto regista Cesare Bastelli, molto azzeccata, tra l’ocra e il marrone, montaggio compassato come richiede il tipo di film, sceneggiatura a tratti confusa, che non si segue con facilità. Notevoli le sequenze che vedono protagonista il boia e il suo assistente, costretti ad affogare un’adultera e a squartare un uomo colpevole di aver ucciso la moglie. Il regista non scende nei particolari ma riprende soltanto il necessario per far capire, senza compiacimenti morbosi.
Un film girato tra campagna, conventi e antichi manieri, che precipita lo spettatore in un’altra epoca, tecnicamente perfetto, ma a nostro avviso privo di quel cuore pulsante sempre presente nel cinema di Avati. Le storie proseguono all’interno della loro cornice fino al racconto dell’annunciazione e alla recita del Magnificat, concedendosi lo spazio del sentimento con la regola dell’ultimo saluto al quale i defunti non rispondono mai, anche se il vento che scuote le fronde degli alberi pare dire qualcosa.
La critica. Paolo Mereghetti (una stella e mezzo) non è molto soddisfatto: “Avati continua a raccontare storie corali, ma questa volta con la ferocia intransigente del moralista che racconta un tempo e un mondo tremendi, ma li assolve perché pervasi dall’amore e dalla paura di Dio (Aprà), come se al mondo moderno con le sue degenerazioni fosse da preferire quello barbarico, perché almeno era imbevuto di spiritualità. Scolastica anche al ricostruzione scenografica”. Morando Morandini (quattro stelle – due per il pubblico) è di ben altro avviso: “In cadenze quasi liturgiche, Avati, bolognese bizzarro e regista anomalo, ricostruisce un tempo ferino e, insieme, immerso nella dimensione del sacro dove si alternano riti, presagi, superstizioni, misteri, paure, punizioni, un mondo dominato dall’incombere della violenza, dalla presenza della morte, dall’idea di Dio, eterno sordomuto. Difficile dire se sia un film laico o religioso, sicuramente è il risultato più alto nella ventennale carriera di Avati”. Pino Farinotti (quattro stelle) è entusiasta: “Presentato in concorso a Cannes, è stato considerato da molti critici come il miglior film realizzato fino ad allora da Pupi Avati. E il giudizio era senz’altro fondato. In uno stile originale che richiama le lezioni di Rossellini e Pasolini (non in senso politico), Avati si muove con semplicità e rigore in un mondo pervaso dalla crudeltà e dalla paura”.
Magnificat è grande cinema da un punto di vista strettamente tecnico e fotografico, ma – per usare le parole di mia figlia che ha dieci anni e ha visto con me tutto il cinema del grande regista bolognese -, manca di quel cuore e di quella partecipazione profonda che nella restante produzione sono il vero e proprio marchio di fabbrica avatiano. In Magnificat non c’è traccia di quella macchina da presa che parla al cuore dello spettatore, ma forse non è l’opera adatta e non è quello che il regista voleva fare. Resta un film imperdibile.
Gordiano Lupi
(tratto dal libro Tutto Avati di Gordiano Lupi e Michele Bergantin – Edizioni Il Foglio, 2012)