Cap. 3°
<Rimarrai per sempre qui? O invece, come me, anche tu emigrerai in altri lidi, per poi però ritornare?> chiese la rondinella mentre costruiva il suo nido.
<Rimarrò per sempre … questo è il mio paese ormai … un luogo che nasce e si sviluppa dai miei stessi pensieri e dalla voce del mio cuore: è un luogo a mia immagine …> rispose Ecìla, sorridendo alla rondinella industriosa.
“Ecco … a mia immagine.” Esclamò poi, colta da un’improvvisa intuizione <Ho finalmente trovato il nome da assegnargli; chiamerò questo paese “IMAGELAND”!>
Ecìla, man mano che i giorni passavano, prese a visitare una per una tutte le case del paese e ad ognuna prestava le sue cure, togliendo dai mobili quel sottile velo di polvere che ogni giorno il pulviscolo atmosferico depositava su di loro e lasciando poi un fiore fresco sul balcone o sul davanzale.
Ci volle un bel po’ di tempo prima che riuscisse ad ultimare questo compito che si era scelto, poiché le abitazioni erano numerose e la sua opera di riassetto meticolosa.
Ora le case erano pronte per accogliere i suoi abitanti, ma la mente di Ecìla non era evidentemente ancora pronta a dar loro corpo e spessore.
Con gli animali che aveva creato andava invece stabilendo un rapporto sempre più stretto e, in base alla regola che aveva lei stessa fissato, permetteva loro sempre più spesso di interloquire con lei.
V’erano creature più refrattarie - o erano piuttosto i suoi desiderata a renderli tali – quali, ad esempio, i serpenti ma, man mano, anche loro stavano divenendo più comprensibili e collaborativi, andando ormai abituandosi l’una agli altri.
L’ora più bella era il tramonto quando miriadi di uccelli si posizionavano sui rami intorno alla sua casa, così come tutti gli animali, che preferivano il giorno alle tenebre, si accoccolavano dinanzi all’entrata dell’abitazione di Ecìla e si scambiavano così, tra cinguettii, ciangottii, latrati, chiocchiolii e le risate argentine di lei, la “buona notte”. Ma anche gli animali notturni ed i gatti randagi, innamorati della luna, godevano spesso delle coccole e dell’affetto della bimba.
Era rimasto il castello … Ecìla lo guardava da dietro le ciglia abbassate. Con gli occhi socchiusi, come se fosse materia di sogno, ne osservava gli alti pinnacoli e la corona di merli che, come una perfetta chiostra di denti, pareva mordere affettuosamente il cielo. Il castello avrebbe dovuto ancora attendere, poiché ogni castello attende sempre il suo Signore, Duca, Principe o Re che sia: lei - la piccola Ecìla figlia del vento e del mistero – non sarebbe mai stata la sua castellana, poiché il suo compito era un altro, ma a lei atteneva inventare e scegliere quel Signore, quel Duca, quel Principe o quel Re.
Quanto tempo era passato da quando Ecìla aveva animato quel paese? Lei non lo sapeva, ma iniziava a provare un leggero sfinimento ogni volta che attraversava quei viali deserti e si trovava a sfiorare quelle case vuote, con quelle finestre chiuse che parevano osservarla come gli occhi di un cieco.
I suoi animali parlanti le facevano molta compagnia, ma lei iniziava a sentire ugualmente la mancanza di un altro essere umano.
Volatili, bipedi e quadrupedi erano simpatiche presenze, ma, pur dotati di parola, esprimevano ognuno la peculiarità della propria specie ed interagivano dunque per lo più tra di loro.
“Perché?” si stava chiedendo sempre più spesso Ecìla “Perché la mia mente, a differenza di quanto fatto sinora, non riesce a creare … a realizzare nessun essere umano?”
Raggomitolata nel suo letto, in una notte lunga e spesso insonne come erano divenute tutte le altre, si chiese: “Se soltanto lo potessi … se riuscissi a formare con la mia immaginazione un essere umano, chi vorrei per primo accanto a me?”
E si sforzava … si sforzava di crearsi un’immagine corrispondente ai suoi desideri, ma, malgrado ogni sforzo, non ci riusciva.
“Un’amica …” si confidò un giorno che vide due bellissime oche passeggiare insieme e parlottare animatamente tra di loro, aprendo e chiudendo i robusti becchi.
<Qua … qua … qua …> diceva una, scuotendo la grossa testa.
<Qua … qua … qua!> pareva affermare l’altra con piglio deciso.
“Parlano proprio tra di loro e non vogliono essere comprese da me,” si disse allora Ecìla ”poiché usano il linguaggio della loro specie e non quello umano che pur ho permesso di sperimentare quando vogliono.”
Quasi con un senso d’invidia Ecìla osservò quello strarnazzare complice delle due oche.
“Proprio due amiche” pensò e di nuovo provò ad immaginare un’amica, al fine di poterle finalmente regalare una realtà corporea, un’amica tutta per sé … ma quella concentrazione costante partorì soltanto una nebbiolina leggera che esplose di lì poco come una fragile bolla di sapone.
La casa che abitava le parve divenuta fredda ed anche, d’improvviso, non più così accogliente come all’inizio. Quella nebbiolina suscitata dai pensieri di avere un’amica si era come depositata intorno a lei, poggiando un velo di tristezza su ogni cosa ed anche la sua cameretta dal lettino color salmone sembrava essersi impregnata di quella misteriosa sostanza, illanguidendo i suoi colori.
(3 – continua)