LO SPIRITO D’EMULAZIONE

E’ abbastanza forte lo spirito d’emulazione che esiste tra i condomini del palazzo di via Paraguay in cui risiedo.

E’ certo che per molto tempo i condomini si limitarono a rivaleggiare con cani, gatti, canarini o pappagalli. Il massimo dell’esoticità fu raggiunto con degli scoiattolini o con una tartaruga. Io stesso avevo un bel cane poliziotto che era un po’ più piccolo dell’appartamento e si chiamava Josecito. Ma oltre a Josecito (e questo non lo si sapeva) viveva con mia moglie e con me un bel ragno appartenente alla specie licosa pampeana.

Una mattina, alle nove, mentre stavo dando da mangiare alla mia mascotte, il vicino del 7C, che non avevo mai visto, venne, per non so quale oscura ragione, a chiedermi il giornale per un istante. Poi, senza nessuna intenzione d’andarsene, rimase lì un bel po’ con il giornale in mano. Contemplava affascinato Gertrudis e nel suo sguardo c’era qualcosa che mi fece rabbrividire: era lo spirito d’emulazione. Il giorno seguente mi chiamò per mostrarmi lo scorpione che aveva appena comperato. La domestica del 7D ci sorprese sul pianerottolo mentre discutevamo della vita, delle abitudini e dell’alimentazione di ragni, scorpioni e zecche. Quello stesso pomeriggio i suoi padroni comperarono un granchio.

Poi, per una settimana, non ci fu nessuna novità. Fino a una sera in cui capitai in ascensore con una delle vicine del terzo piano: una ragazza bionda, dallo sguardo languido e perso nel vuoto. Aveva una grossa borsa gialla con una cerniera un po’ bucherellata: da uno dei fori spuntava di tanto in tanto la testina di una lucertola.

Il giorno dopo, mentre tornavo dal supermercato, mi trovai a tu per tu con il formichiere che stavano scaricando da un camion per portarlo in portineria e per poco non mi caddero le sporte. Uno dei tanti curiosi che si erano radunati lì mormorò, abbastanza forte da essere sentito, che un formichiere, in realtà, non valeva un orso. La moglie dell’avvocato ebbe un sobbalzo e, tremante, corse a rifugiarsi nel suo appartamento. La rividi solo alcuni giorni dopo quando, con aria sprezzante e raggiante in volto, uscì a firmare la ricevuta ai trasportatori che le avevano portato l’orso grigio americano.

Ormai la situazione diventava per me insostenibile. I vicini mi tolsero il saluto, il macellaio smise di farmi credito, ogni giorno ricevevo lettere anonime offensive. Alla fine, quando mia moglie minacciò di separarsi, capii che non mi sarei più potuto tenere, neanche per un solo giorno, quell’insignificante licosa pampeana. Detti allora vita ad un’attività senza precedenti. Chiesi vari prestiti ai miei amici, m’imposi una rigorosissima austerità, smisi di fumare… Così potei comperare il leopardo più meraviglioso che si possa immaginare. Il vicino del 7C, che mi marcava strettissimo, pretese subito di surclassarmi con un giaguaro. E, per quanto sembri poco logico, ci riuscì.

Ciò che più mi rattrista è avere a che fare con persone prive di sensibilità artistica, persone che non percepiscono la qualità, persone che guardano solo alla quantità. Nessun vicino s’inchinò davanti all’insigne bellezza del mio leopardo: le maggiori dimensioni del giaguaro avevano loro offuscato la ragione. Provocati dalla spavalderia del proprietario del giaguaro, tutti i vicini si dettero subito da fare per rinnovare il loro zoo interno. Dovetti riconoscere che il mio umile leopardo non mi conferiva lo status dei vecchi tempi.

Di fronte alle conversazioni telefoniche segrete che mia moglie sosteneva con uno sconosciuto capii di non avere alternative. Senza alcun rimorso, vendetti i mobili, il frigorifero, la lavatrice, la lucidatrice. Vendetti persino il televisore. Vendetti tutto ciò che potevo vendere e comperai un’anaconda veramente eccezionale.

Dura è la vita del povero: fui l’eroe del palazzo per tre soli giorni.

La mia anaconda abbattè ogni barriera, superò ogni limite, annullò le convenzioni più rispettabili. In tutti gli appartamenti andarono moltiplicandosi leoni, tigri, gorilla, coccodrilli… Alcuni avevano addirittura delle pantere nere, quelle pantere che non si vedono nemmeno allo zoo. In tutto il palazzo echeggiavano un parlottio continuo unito a muggiti e ululati. Passavamo le notti in bianco, dormire risultava impossibile. Gli odori combinati di felini, quadrumani, rettili e ruminanti rendevano l’aria irrespirabile. Grossi camion portavano tonnellate di carne, pesce, verdura. La vita nel palazzo di via Paraguay si fece un po’ pericolosa.

Fu un’esperienza inquietante quella che feci quando, dopo tanto tempo, condivisi nuovamente l’ascensore con la vicina dallo sguardo languido del terzo piano: portava la sua tigre del Bengala a fare il giro dell’isolato per la pipì. Ricordai la lucertola che aveva lasciato intravedere la sua testina attraverso la fenditura della cerniera. Mi commossi. Com’erano lontani quei primi, difficili tempi donchisciotteschi degli scorpioni e dei granchi!

Alla fine giunse il momento in cui non ci si poteva più fidare di nessuno. Il portiere, sotto lo sguardo preoccupato dei vari condomini, lavò sul marciapiede, con acqua e sapone, il suo rinoceronte a due corna e successivamente, come se nulla fosse accaduto, lo condusse nel suo appartamento. Ciò era più di quanto il vicino del 5A era abituato a concedere: poche ore più tardi salì le scale trionfante, portando il suo ippopotamo per le briglie.

Il palazzo è ora allagato e semidistrutto. Mi trovo a comporre questa relazione sulla terrazza in condizioni disagevoli. Di tanto in tanto mi fanno sobbalzare i barriti piagnucolosi dell’elefante che vive nel 7A. Scrivo tenendo l’orologio ben in vista poiché ogni otto minuti devo mettermi al riparo tra le rovine delle scale per evitare che il getto di vapore che emana la balena blu del 7C danneggi queste pagine. E scrivo con una certa inquietudine trovandomi, come mi trovo, sotto il muso supplichevole della giraffa del 7D che, sporgendo la testa da sopra il muro, non smette un attimo di chiedermi biscottini.

Fernando Sorrentino

(Da Imperios y servidumbres, Barcelona, Editorial Seix Barral, 1972. Traduzione di Alessandro Abate)