Pupi Avati dopo aver dato alle stampe la sua autobiografia (La grande invenzione, 2013) scrive il primo romanzo non collegato a una pellicola, una storia che contiene tutti i temi del suo cinema: adolescenza, musica, provincia, amicizia, persino horror, in un ritorno al passato che profuma de La casa dalle finestre che ridono.
Si tratta di IL RAGAZZO IN SOFFITTA (Guanda Editore; 16 euro; 250 pagine). Protagonisti della storia sono due adolescenti: il bolognese Berardo Rossi, detto Dedo, studente poco brillante ma popolare tra le ragazzine, e il triestino Giulio Bigi, introverso quanto abile traduttore dal latino. Filo conduttore del racconto un’amicizia nata sui banchi di scuola che – con il meccanismo del flashback (capitoli alterni) – apre le porte a una storia horror che vede protagonista un orco, presunto assassino di bambine.
Finale a sorpresa. Meglio non anticipare altro sulla trama, aggiungiamo solo che dal passato emerge una storia di frustrazioni, di ambizioni abortite, ma anche un amore eterno che supera i confini dell’immaginabile.
Pupi Avati mette tutto il suo stile cinematografico nelle descrizioni di ambienti bolognesi, racconta un’amicizia intensa che si consolida tra due ragazzi molto diversi tra loro, punta l’indice sulla provincia pettegola che giudica senza capire.
IL RAGAZZO IN SOFFITTA è una storia di amicizia e amore, la passione per la musica fa da sfondo a una storia nera che vive sui sentimenti ma non dimentica la suspense. Un film mancato, perché ne sarebbe venuta fuori una storia a tinte fosche, un thriller claustrofobico permeato di dolcezza e ricordi del tempo passato, tipici della poetica di Avati. Un lavoro che consigliamo a chi ha amato il regista di film come Zeder, La casa dalle finestre che ridono, L’arcano incantatore e – per certe soluzioni stilistiche – anche il recente Un ragazzo d’oro.
Il protagonista negativo ha in comune con Pupi Avati il grande amore per la musica, la voglia di affermarsi come suonatore di violino. Il regista era clarinettista jazz – passione che torna spesso nel suo cinema – e abbandonò tutto quando nella sua band debuttò Lucio Dalla, che (come afferma lo stesso Avati) si interpose tra lui e il sogno. L’orco del racconto comprende, proprio come il regista, di non essere abbastanza bravo per dedicarsi alla musica e medita vendetta…
Per fortuna Avati non medita scelte cruente, ma decide di impiegare il suo talento per regalare al pubblico – dal 1970 a oggi – alcune delle più belle storie scritte per cinema e televisione.
Abbiamo avvicinato Pupi Avati per avere dal regista – scrittore una sorta di interpretazione autentica: “Una storia così articolata, così densa di eventi e di sorprese, non poteva essere sintetizzata in un film senza specificare, approfondire, le dinamiche psicologiche che intercorrono fra i tre protagonisti della storia, i due ragazzi di oggi, Dedo e Giulio e il ragazzo che riemerge dal passato più remoto, il violinista Samuele Menczer. È in realtà una storia sulla dismisura di cui l’amore è capace, quello di un undicenne per una ragazza di vent’anni che dura la sua intera esistenza, e quello di due amici, agli antipodi all’inizio della storia, per estrazione sociale, culturalmente e fisicamente. Eppure un evento di assoluta drammaticità li coinvolgerà legandoli in un’amicizia fortissima e definitiva. L’aspetto più singolare dell’intera narrazione, che accompagna il formarsi dell’identità di un orco, dalla sua infanzia alla sua piena maturità. è però il finale, che costringe il lettore a ripercorrere l’intera storia in un’ottica del tutto imprevedibile”.