Cap. 16°
Qualcosa la svegliò e si accorse che quella coltre di silenzio, simulacro di un vuoto totale, era stato d’improvviso spezzata.
Un leggero brusio le arrivava infatti da qualche parte dell’immenso maniero.
Sollevandosi dal suo improvvisato giaciglio, Ecìla, stiracchiandosi a lungo come a scacciare quella sonnolenza malsana, simile ad una tenace ragnatela, prese a percorrere di nuovo le varie sale del castello. Poi, prestandovi meglio orecchio, poté rendersi conto che, a quel brusio, si era ora aggiunto anche un evidente scalpiccio che proveniva dal piano superiore.
Senza esitazione, allora vi si diresse.
Attraversato un interminabile corridoio – di cui non ricordava di aver avuto nozione – e, in un tempo che pareva dilatarsi, ripercorsa la lunga sequela di stanze, in fondo a tutto, da sotto una porta, vide finalmente filtrare della luce.
Sforzandosi di produrre meno rumore possibile e con estrema cautela, vi si diresse e, man mano che si avvicinava, il brusio diveniva sempre più intenso, ma andava anche trasformandosi in una congerie di voci – maschili, femminili e di bimbi – che si sovrapponevano, si scavalcavano, si opponevano. Non ne ricavò infatti l’impressione di un armonioso coro, ma bensì quella di un’orchestra stonata e dove gli strumenti, invece di cercare un accordo comune, suonavano ognuno per suo conto, ma con il preciso intento di sopraffarsi l’un l’altro per intensità, volume, durata.
Pur esitando, si decise comunque ad aprire l’uscio.
La fiamma delle candele restituiva forme spigolose e contorte ad animare, al pari di ombre cinesi, le pareti e l’alto soffitto della stanza ed in quelle voci, ora più chiare, ma ugualmente colme d’ira, Ecìla vi percepì persino qualcosa di osceno.
Avanzò allora per tentare di distinguere meglio ciò che si trovava all’interno di quella stanza e si avvide che, a quel pallido lucore, anche i volti, con quelle loro espressioni cupe ed irrigidite, apparivano laidi e grotteschi insieme.
D’istinto Ecìla arretrò terrorizzata e già decisa a richiudersi dietro l’uscio ed allontanarsi da lì, quando senti pronunciare il suo nome.
<Ecìla!> e v’era rabbia e scherno in quel richiamo.
<Ecìla!> ed un’ombra si separò dalle altre e le si fece incontro. Per un attimo una pozza di buio parve di nuovo inghiottirla, poi la fiamma di un grosso cero, guizzando improvvisa, ne illuminò il volto. E fu con profondo raccapriccio che Ecìla poté riconoscere … se stessa!
<Si sta svegliando!> sentì sussurrare intorno a sé e si rese conto che qualcuno la stava scuotendo.
“Devo essere svenuta” pensò, ma, quando aprì gli occhi e vide ciò che la circondava, avrebbe voluto tornare a sprofondare nell’incoscienza.
Era infatti come risvegliarsi da un incubo, per entrare in un altro incubo
Intorno a lei una folla di volti … volti che – pur trasformati e come deformati da un odio profondo, una ferocia inaudita, una rabbia inspiegabile – erano pur tuttavia volti noti, perché quei visi erano … quelli del fabbro … dello speziale … della merciaia … del casaro … del pastore, ecc … e, soprattutto, era il suo stesso volto quello che la fissava malignamente, mentre le mani strette ad artiglio, parevano pronte a ghermirla.
Probabilmente svenne di nuovo, poiché tornò a svegliarsi su di un lettuccio rigido e maleodorante mentre, a proteggerla dal gelo profondo, una sudicia coperta era stata gettata su di lei.
In cuor suo fu comunque grata del fatto che il volto che si chinava su di lei non avesse quelle sembianze stravolte della sua copia deforme, ma bensì quello della merciaia. Pur, a sua volta deformato, quel viso pareva infatti nutrire nello sguardo minore odio e rancore nei suoi confronti di quell’altra Ecìla che le incuteva ormai un terrore senza pari.
<Chi … chi siete voi? Tutti voi?> azzardò allora Ecìla.
<Noi?> ripeté sottovoce la merciaia, e parve chiederlo soprattutto a se stessa.
<Ma siamo quelli che tu hai ideato … creato! Siamo così come ci hai voluti … nostra Signora!> e, d’improvviso, esplose in un riso sguaiato.
< No … non è vero!> provò a difendersi Ecìla, scuotendo la testa ed agitando le mani dinanzi a sé, come a voler ribadire quel concetto <Io ho creato Imageland, e lì tutto è bello, buono, perfetto!>
<Anche qui … anche questo è “Imageland” e noi ne costituiamo soltanto l’altra faccia, derivata però dalla tua stessa immaginazione … Noi siamo infatti la parte oscura che è in ogni essere umano, ma che tu hai creduto di poter dimenticare, eludere, eliminare!>
Ecìla, ormai travolta dalle troppe emozioni, non riuscì ad obiettare nulla e si rifugiò in un silenzio protettivo.
La merciaia allora puntualizzò: <Sì, ci siamo tutti … proprio tutti sai! Riuniti in questo castello al pari di una bolgia infernale e vogliamo che il nostro diritto di esistere … ad esistere venga rispettato, altrimenti ciò che – dopo lunghe riflessioni e feroci dibattiti - abbiamo progettato … pianificato ce lo prenderemo da soli ed a nostro modo!>
Ecìla seguitava a tacere, ma quando quel silenzio divenne come una coltre soffocante intorno a loro, si decise finalmente a chiedere: <Chi è che
comanda … qui? A chi debbo dunque rivolgermi per poter avere dei chiarimenti? A chi, dopo ciò di cui qui sono stata testimone, presentare tutti i miei dubbi e le mie perplessità?>
<Ma a te stessa naturalmente!> ed il volto della merciaia si contrasse in una smorfia e di nuovo si lasciò andare a quel suo riso sguaiato <Beh , non proprio tu, naturalmente,> aggiunse poi <ma l’altra te stessa che comunque ti appartiene, in quanto – anche se sembri ignorarlo – parte di te!>
<Alzati ora … ti condurrò nel sancta sanctorum del castello e potrai così vedere con i tuoi occhi chi lo governa, supportato dai suoi più stretti collaboratori e da tutti noi, suoi sudditi, consenzienti e piegati ai loro voleri.
Ecìla, a fatica, si sollevò allora da quel tristo giaciglio e, pur covando in cuor suo un pessimo presentimento, seguì la merciaia.
La sala del trono era gremita. Tutti si voltarono al suo ingresso ed Ecìla, ancora un volta, poté rendersi conto dello stravolgimento profondo di quei volti a lei, sino ad allora, così noti e cari: persino i loro corpi – notò – avevano assunto forme grottesche, rimpiccioliti e ingobbiti come si presentavano.
Sentì allora le lacrime salirle agli occhi, ma in un’impennata di orgoglio le trattenne.
In fondo alla sala, colma di molti angoli bui al fioco lume delle poche candele, adagiata sul lugubre trono di nero giaietto, sedeva la sua alter-ego: un’ombra quasi in bianco e nero che, pur tuttavia, nella sostanza era del tutto identica a lei.
In piedi, ai due lati del trono, riconobbe i suoi genitori e Nives, la sua migliore amica : in quel mondo alla rovescia, proprio negli sguardi delle persone a lei più care, si rendeva invece ancor più palese l’odio ed il rancore che nutrivano nei suoi confronti.
<Inginocchiati dinanzi a me!> le ordinò quell’Ecìla che era e non era Ecìla .
<Qui la Regina di Imageland sono io!>
Appena lei, ubbidendo all’ordine, s’inginocchiò, l’altra se stessa si chinò verso la copia deformata dei suoi genitori, sussurrando poi qualcosa ai loro orecchi
<Ecco allora cosa abbiamo da dirti …> sibilò subito dopo <Ci hai mortificati … ridotti soltanto a questa forma ributtante ed ingrata. Ci hai costretti a rinunziare ad un’interezza a cui abbiamo invece diritto: l’altra parte di noi che crea equilibrio!
Pertanto soltanto tu sei in grado di porvi rimedio o tutta la tua Imageland si frantumerà come uno specchio incrinato!>
Ogni brusio cessò ed il silenzio, pesante come un sudario, calò sulla sala.
<Per ciò che hai fatto> riprese poi a dire la sedicente regina di quel regno oscuro <vorrei poterti uccidere, ma non posso farlo … ucciderei infatti anche me stessa!>
Ecìla sussultò al pensiero di essere legata a quell’essere ripugnante, ma comprese che, pur terrificante, quella doveva essere invece la verità.
<Potremo però tenerti prigioniera sino a quando ci aggraderà, così da darti tutto il tempo per riflettere e tentare di trovare poi una soluzione!>
I suoi genitori annuirono – ed a loro infatti si era rivolta la regina, passando di continuo da “tu” al “noi” – e, subito dopo aver fissato Ecìla con quel loro sguardo cupo e feroce, affermarono all’unisono: < Alla fine della tua prigionia dovrai subire un processo. Avrai così modo di confessare i tuoi errori, per provare poi ad emendarli!>
E, detto ciò, le si affiancarono ed, afferrandola ognuno per un braccio, la sollevarono quasi di peso ed, attraversando sale deserte e corridoi umidi e bui, tana di ombre e muffa, la condussero infine nei sotterranei del castello.
Scelta poi, tra le tante, una cella dalla porta rugginosa e dalle pareti offuscate dal tempo, ve la gettarono dentro. Poggiata in terra un piccola bugia, la lasciarono sola con i suoi foschi pensieri e quell’unica debole fonte di luce a farle compagnia.
Quando il pesante catenaccio della porta fu sprangato alle sue spalle, finalmente Ecìla si lasciò andare alla lacrime.
(16 – continua)