1.
Tutto arriva in questa vita: arrivò anche il momento in cui Marina mi disse:
- Voglio che tu conosca i miei genitori.
2.
Da quel giorno saranno passati dieci anni; avvenne in un umido pomeriggio d’estate, vicino alla stazione Acassuso, all’ombra degli eucalipti cullati da un vento che portava l’odore di piogge distanti. Tuttavia, oggi non posso ricordare il volto di Marina.
Ricordo, senza ombra di dubbio, che era molto bella: è vero che ero innamorato di lei. Ma insisto: era bellissima; non si discute su questo punto. Cos’altro, cos’altro posso ricordare di Marina? Era alta, era mora, era allegra, era irresponsabile, era semplice, ignorante e infinitamente amabile. Mi ricorderà ora con tanta povertà come io a lei? E pensare a quante volte ci siamo detti che eravamo fatti l’uno per l’altra!
3.
Avevamo circa venticinque anni. In quell’epoca tutto mi riusciva bene. Non conoscevo l’infelicità e, se l’avevo conosciuta qualche volta, era già dimenticata. Avevo un’ingenua visione ottimistica dell’universo. Confidavo nell’onestà dei governi, nelle promozioni che avrei ottenuto nel mio lavoro, nel termine dei miei studi, nella dignità degli uomini. Vivevo nel migliore dei mondi possibili.
Senza essere intorpiditi se non da leggeri e prevedibili ostacoli, tutti i miei progetti si incanalavano verso il corso che io avevo assegnato loro. Il mio progetto era sposarmi con Marina nell’arco di un anno. E non avevo il minimo motivo per dubitare che in effetti, entro un anno mi sarei sposato con Marina.
E, dato che tutto arriva in questa vita, arrivò anche il momento in cui Marina mi disse:
- Voglio che tu conosca i miei genitori.
4.
La signora Stella Maris, la madre, costituiva una versione matura di Marina (che in verità si chiamava cacofonicamente Marina Ondina). Calcolai che Marina sarebbe stata cosi fra vent’anni, quando saremmo stati noi stessi genitori di una ragazza che avrebbe avuto nomi con rima meno intensa: tale fu l’obiettivo a lungo termine che mi proposi salutandola. E’ chiaro quindi che la signora Stella Maris era un’alta, mora, allegra e elegante dama di circa quarantacinque anni.
Ma il padre di Marina era l’uomo piú orribile che abbia potuto conoscere. Si caratterizzava in una statura ridotta. Ciò non è grave. Nessuno potrà dire che era un nano: era solo una persona bassa. La cosa inammissibile era che solo la testa gli occupava piú della metà della sua altezza. E che testa, mio Dio! Il primo tratto che mi attrasse (o piuttosto che mi allontanò), fu il suo colore, un colore improprio per una pelle. Sembrava un tornasole tra il rosa e il nero, con tutti i toni intermedi, cosi sensibile alle luci che mi obbligava a battere le ciglia quando mi incantava con i suoi splendori. Allo stesso tempo si notava che quella pelle era umida ed era lecito supporre – anche se non la toccai – viscida. Non aveva capelli né barba ed era evidente che non li aveva mai avuti: fino al punto che la semplice osservazione dimostrava che nessun capello poteva germinare in quella testa. La parte superiore minacciava essere una rotonda sfera, ma si frustrava, un po’ piú giù, in un emisfero perfetto, dato che, da quella che sarebbe la linea dell’equatore (piú o meno all’altezza delle inesistenti orecchie), la testa si trasformava in una colonna cilindrica, fino a perdersi, senza ammettere la transizione di un collo, tra le pieghe di una specie di tunica gialla, di tela di asciugamano, che lo copriva fino ai piedi senza che si potesse trovare l’allargamento corrispondente alle spalle. Cioè, il padre di Marina aveva lo stesso diametro dalla cuspide fino alle basi. Era un monolito con la cima arrotondata, che qualcuno avesse avvolto fino alla metà con un asciugamano giallo. Pochi centimetri piú su della toga, si trovava la bocca, cioè una cavità mobile e sdentata, flessibile e cornea allo stesso tempo, che si contraeva fino a sparire o si dilatava cosi tanto che, estendendosi i suoi angoli fino alla nuca, trasmetteva la sensazione che il signor Octavio fosse uno sgozzato la cui testa, riposando su una minima base non raggiunta da un boia negligente, potesse cadere strepitosamente a terra non appena la piú famelica delle mosche si fosse posata su di essa. Non aveva orecchie né naso: quei luoghi si mostravano lisci e lucidi come la testa pelata; niente, nemmeno una cicatrice, né una ruga, né un piccolo segno. Gli occhi erano due: enormi, rotondi, sanguinolenti, senza sopracciglia né ciglia, senza bianchi, senza pupille, senza movimento, senza espressione.
5.
- Octavio sta a dieta – spiegò la signora Stella Maris notando che guardavo il vassoio destinato a suo marito.
La signora Stella Maris, Marina e io mangiavamo alimenti – diciamo – comuni. Il vassoio del signor Octavio invece ci si presentava come una specie di antologia della fauna marittima. Il brusco odore di pescheria entrò nelle mie narici in profondità, fino agli occhi, facendomi lacrimare. Dato che il mio futuro suocero aveva le mani avvolte nelle maniche della tunica, che finivano in un nodo, usava le posate come lo farebbe una persona che non si fosse tolta i guanti. Vassoio dopo vassoio di pesci, molluschi e crostacei non cotti, erano divorati rapidamente e voracemente dal signor Octavio. A occhio calcolai che aveva ingerito non meno di cinque chili di quegli animaletti multicolori. Credo aver distinto calamari, gamberetti, ostriche, granchi, lumache, meduse, cozze, vongole, stelle e ricci di mare, coralli, spugne, aguavivas, pesci irriconoscibili…
- Octavio sta a dieta – ripeté la signora Stella Maris verso la fine della cena. – Andiamo al living a prenderci il caffè?
Cedetti il passo al signor Octavio e osservai il suo modo di camminare. Lo faceva irregolarmente, un passo molto veloce e un altro lentissimo, senza che ci fosse, d’altra parte, quell’alternanza di uno a uno, che potesse indicare che zoppicava. La sua andatura ricordava quella di un’automobile le cui ruote fossero: una triangolare; un’altra quadrangolare; un’altra rotonda, e la quarta, ovale. Ho già detto che la toga gialla lo copriva completamente, tranne che la testa. L’orlo della toga era abbondante e si trascinava per terra come un vestito da sposa.
La signora Stella Maris depose un vassoio con tazzine di caffè su di un tavolino ottagonale intarsiato, circondato da due divani. In uno ci sedemmo Marina e io; di fronte a noi, con in mezzo il tavolo, il signor Octavio e sua moglie. Allora potei osservare un altro dettaglio che, durante la cena mi era sfuggito. Quando il signor Octavio parlava, nella sezione del cilindro coperta dalla tunica, si producevano dei movimenti riflessi, come se braccia invisibili accompagnassero con gesti e modi le parti piú salienti del discorso. Sembrava che il corpo del signor Octavio fosse in ebollizione, tanto violente e frequenti erano le bollicine gialle che formava la toga.
Il signor Octavio era loquace, con un’irrefrenabile tendenza a monopolizzare la conversazione. Parlava, parlava e parlava. Io non lo ascoltavo nemmeno. Pensavo: “Ma è possibile che quest’uomo mostruoso abbia generato Marina, la mia meravigliosa, bella e angelica Marina?” D’improvviso pensai che nella sua giovinezza la signora Stella Maris avesse tradito suo marito e che Marina era frutto di quegli amori illeciti. Subito, trasportato da questo pensiero, mi ritrovai lanciando alla signora Stella Maris complici sguardi di solidarietà – per fortuna non li avvertì – come per farle capire che avevo scoperto il suo segreto ma che non lo avrei svelato. Al contrario, al contrario: approvavo senza riserve la sua impresa, approvavo tutto, tranne che quel chiacchierone mostro parlante fosse il padre della mia Marina.
Una domanda rivolta a me mi riportò alla realtà. La conversazione era decaduta nel tema delle malattie. La signora Stella Maris si lanciò con entusiasmo a sviluppare questo argomento, nel quale si sentiva comoda.
- Sei come un pesce nell’acqua – disse il signor Octavio.
Lei sorrise con orgoglio e continuò. Aveva, sotto questo aspetto, un magnifico curriculum: operazioni, fratture, infarti, malattie epatiche, disturbi nervosi…
Io, essendo timido, avevo mantenuto fino ad allora un silenzio eccessivo. Marina mi spinse con uno sguardo a intervenire nel discorso. Con umiltà, addussi certi accessi di asma che mi colpivano di tanto in tanto.
- Per l’asma – disse il signor Octavio, con la sua voce piena di bollicine – niente di meglio che il mare. Il mare è molto meglio di qualunque porcheria che ricettano i medici, ad eccezione, certamente, dell’olio di fegato di baccalà.
- Per favore, Octavio – lo richiamò sua moglie – non lo dire, che una volta a Mar del Plata mi presi un raffreddore che durò due mesi.
- Vedi? – sentenziò il signor Octavio. – Il pesce muore per la bocca. Ricordati che quel famoso raffreddore l’ hai preso qui, a pochi chilometri da Buenos Aires, quando andavamo verso Mar del Plata, non a Mar del Plata! Non c’è niente come il mare per la salute.
- Certo, certo – dissero, dicemmo profusamente; – il clima marittimo, lo iodio, la sabbia…
- Niente di meglio che il mare – ripeté il signor Octavio, con un tono di autorità irrefutabile. – Otto giorni in mare e addio asma! Se ti ho visto, non mi ricordo.
- Si, papà, si – concesse Marina. – A te piace il mare perché sei dell’Acquario, ma c’è gente che non va a genio con… Io, per esempio, anche se sono dei Pesci…
- E – disse la signora Stella Maris – io sono del Cancro e non mi piace molto il mare…
- A me – confessò Marina – il mare innervosisce.
- Al contrario – ribatté il signor Octavio – Si tratta di adattare l’organismo. Una volta che ti abituerai vedrai come il mare ti calma i nervi.
- Parlando di nervi – interruppe la signora Stella Maris – lo spavento che ci siamo presi sull’aereo, quando tornavamo da Rio de Janeiro…
- Io ti avevo avvertita – il principio che guidava la condotta del signor Octavio era quello di opporsi a tutto ciò che veniva detto – Te l’ avevo detto: viaggia in nave. La nave è sicura, è comoda, costa poco, si sente l’odore del mare, si vedono i pesci… Anche se l’aereo ci mette molto di meno, non c’è paragone.
L’energia con cui pronunciò queste parole causò una certa impressione, per cui sopravvennero degli istanti di silenzio. Io non mi sentivo capace di riprendere la conversazione. In realtà non mi sentivo capace di nulla. L’aspetto mostruoso del signor Octavio – benché attenuato da una certa paradossale simpatia che emanava dalle sue imperative opinioni – , la sua voce acquosa, l’odore della sua dieta marittima, erano forti argomenti che mi spingevano a ritirarmi. Sentivo la traspirazione sulla fronte e il soffocamento nel collo della camicia; le mie gambe, senza poterle governare, si muovevano incessantemente. Ero turbato e direi anche malato. Volevo solo andarmene a casa. Un’inquietante sensazione che proveniva dal mio stomaco mi faceva vacillare tra il vomito e la diarrea nervosa.
Ma quel terzetto logorroico era incontenibile. La signora Stella Maris e Marina, anche se trovavano sempre l’inappellabile confutazione del signor Octavio, non sembravano infastidite. Si vedeva che quello era il modo abituale in cui avvenivano le loro discussioni. Il signor Octavio, degno e calmo, distruggeva tutti gli argomenti di sua moglie e sua figlia. Loro ammettevano questa situazione con naturalezza.
Avvertii nuovamente che si richiedeva la mia opinione. Il dibattito verteva intorno a quale fosse il miglior luogo dove io e Marina potessimo trascorrere il nostro viaggio di nozze. Marina suggeriva debolmente e simultaneamente la campagna, le serre di Cordoba, le province del Nord; il signor Octavio tenacemente faceva pubblicità al Mar del Plata.
- E’ piú sano – disse – piú naturale. C’è mare, c’è sale, c’è iodio, c’è sabbia, ci sono lumache… Niente meglio che il mare…
Io stavo per svenire. Mi sembrava capire che Marina preferiva un luogo piú tranquillo, con pochi turisti…
- Vuoi un posto tranquillo? – il signor Octavio era invincibile.- Ci sono San Clemente, Santa Clara del Mar, Santa Teresita… Luoghi tranquilli ce ne sono a miriadi sulla costa atlantica!
Facendo un grande sforzo, mi misi in piedi e annunciai debolmente che mi sarei ritirato.
- Cosi presto? – chiese il signor Octavio guardando l’orologio-. Mancano ancora otto minuti alla mezzanotte.
La recriminazione che emanava da queste parole mi spinse a ricadere sul divano. Che personalità potente aveva quell’uomo cosi orribile!
Con pallida allegria contemplai la possibilità di rianimarmi con una bottiglia di whisky, appena arrivata nelle braccia della signora Stella Maris. Con un solo sorso svuotai il mio bicchiere.
- Ai miei tempi – diceva il signor Octavio – quando ero giovane, andavamo a ballare per i bar del porto di Bahía Blanca…
Mi distesi per un istante cercando di immaginare il signor Octavio ballerino.
- …a volte ballavamo tutta la notte, fino al mattino. Invece, i ragazzi di oggi, alle otto di sera sono già a lettuccio, con la loro copertina e la loro borsetta d’acqua calduccia… ah ah ah! Sembrano bambinetti dell’asilo nido!
Il soliloquio del signor Octavio, aggravato nella sua fase finale da una serie di diminutivi ingiuriosi, aveva acquisito le tinte inconfondibili di un attacco personale. Mi alzai in piedi, disposto a ritirarmi anche con la forza, se fosse stato necessario. Per fortuna, non ci fu bisogno di ricorrere alla violenza. Il signor Octavio riacquistò le sue maniere affabili e dopo avermi teso la manica annodata del suo asciugamano giallo, disse con l’aria confortevole di chi si appresta a descrivere una giornata perfetta:
- Bene… – e, attraverso la tela, si sfregò le mani -, adesso a letto, con un buon libro… Acconsentii ampiamente. Volevo uscire da quella casa. Se fossi rimasto li ancora un secondo, penso che sarei svenuto.
- Ti accompagno al marciapiedi – disse Marina.
6.
Tra la casa e il marciapiedi c’era il giardino: mi colpì come una benedizione la fragranza vegetale di pini e abeti. Respirai con profondità, di modo che l’aria pura eliminasse le ultime vestigia dell’odore di pescheria. Mi sembrò di risorgere: all’istante si evaporarono le sensazioni stomacali che mi avevano afflitto.
- Hai visto, povero papà? – disse Marina.
- Sì – risposi vagamente, senza sapere cosa aggiungere.
- Sta molto meglio – continuò Marina, abbracciandomi alla cintura come chi sta per fare una confidenza. – Fino a un anno fa non lo potevamo tirar fuori dalla piscina. Giorno e notte nella piscina. Adesso almeno mangia a tavola e dorme nel letto. E’ già un progresso, no?
Disse tante cose e io notai soltanto una, la meno importante:
- Avete una piscina a casa?
- Certo, non te l’avevo mai detto? Nel giardino posteriore. Adesso non te la posso far vedere perché la sta usando papà. Tutte le sere si fa un bagno, prima di andare a letto. Cosi digerisce meglio.
Formulai una domanda imbecille:
- Non gli si blocca la digestione?
- Al contrario: ha bisogno di acqua salata. Una cosa peró, quando sta in acqua diventa molto aggressivo e non riconosce nessuno. Non riconosce nemmeno noi. Quando torna a terra, hai visto quant’ è buono e simpatico…
Prostrato, senza sapere cosa fare, guardai l’orologio. Marina si aspettava qualcosa da me.
-E i vicini? – chiesi. – Non si lamentano?
- Perché dovrebbero lamentarsi? Non c’è nessun rumore. Papà non potrebbe essere più silenzioso. Non si tuffa neanche. Arriva al bordo della vasca e si lascia scivolare cosi: shhhh…
La sua mano scivolò lentamente sul mio volto. Spaventato, feci un salto indietro. Marina volle confortarmi con un aneddoto spiritoso:
- Una sera era semisommerso, vicino al bordo della piscina. Il cagnolino del vicino scavalcò la ringhiera di arbusti e si avvicinò a odorarlo. Allora papà tirò fuori alcune delle sue braccia e… shak!
E con un sorriso giocherellone, Marina fece finta di strangolarmi. Neanche mi sfiorò: solo fece un passo in avanti e fece la mimica di stendere le braccia verso di me. In questa dimostrazione, le sue membra sembravano aver acquistato una plasticità e forza singolare. Se prima avevo fatto un salto all’indietro, ora volai letteralmente circa tre metri. Marina scoppiò a ridere, divertita dalla mia reazione sproporzionata. Marina rideva, rideva, rideva. Mi sembrò che la sua bocca si dilatasse fino alla nuca, che la testa si facesse rotonda e si ingrandisse, che scomparissero il naso e le orecchie, che perdesse i suoi superbi capelli scuri, che la sua pelle diventasse nera e rosa… Per evitare la caduta, mi appoggiai a un albero.
- Ehi! Che cosa ti succede? – Marina mi scuoteva dal braccio e io tornai in me.
Lì stava la stessa adorabile Marina di sempre. La Marina alta, mora, allegra, irresponsabile, semplice, ignorante e infinitamente amabile.
- Non è niente – dissi, respirando di nuovo. – Mi sento un po’ male. Per finire di rianimarmi, Marina mi disse:
- Vuoi venire a nuotare domani mattina? Tanto è domenica. Porta il costume ed è fatto. Promisi di arrivare, intorno alle dieci. Salutai Marina come sempre: con un bacio.
- A domani – dissi.
7.
Ma non tornai.
Con pronta lucidità, prima che il treno arrivasse a La Lucila, seppi tutto ciò che dovevo fare. Nei quindici giorni che seguirono, fui un vortice di attività febbrili e misi a posto quasi tutti i miei affari sospesi. Non risposi al telefono, e riuscii a cambiare domicilio e posto di lavoro. Come dicono in genere le cronache poliziesche, smisi di presentarmi nei luoghi che abitualmente frequentavo. In poco tempo, riuscii a radicarmi definitivamente a Santa Rosa, provincia de La Pampa. La città gode di un clima molto secco e si trova lontana equidistantemente dall’oceano Atlantico e dal Pacifico.
Fernando Sorrentino
(Da Imperios y servidumbres, Barcelona, Editorial Seix Barral, 1972. Traduzione di Isabel Cuartero)