Io vivo delle superstizioni altrui. Non guadagno molto e il lavoro è abbastanza duro.
Il mio primo impiego è stato in una fabbrica di sifoni di soda. Il padrone credeva, vai a sapere perché, che uno delle migliaia di sifoni (sì, ma quale?) alloggiasse la bomba atomica. Credeva pure che bastasse una presenza umana per impedire che quella terribile energia si liberasse. Eravamo in diversi sotto contratto, uno per camion. Il mio compito consisteva nello stare seduto sulla superficie irregolare dei sifoni per le sei ore al giorno che durava la consegna della soda. Un compito arduo: il camion ondeggiava; il sedile era scomodo, doloroso; il tragitto, noioso; i camionisti, gente volgare; ogni tanto scoppiava un sifone (non quello della bomba) causandomi lievi ferite. Alla fine, stanco, rinunciai. E il padrone si affrettò a rimpiazzarmi con un altro uomo che, con la sua solo presenza, avrebbe impedito lo scoppio della bomba atomica.
Immediatamente venni a sapere che una zitellona di Belgrano possedeva una coppia di tartarughe e credeva, vai a sapere perché, che una di esse (sì, però, quale?) fosse il demonio in forma di tartaruga. Dato che la signorina, che vestiva di nero e recitava il rosario, non poteva sorvegliarle continuamente, mi ingaggiò affinché lo facessi di notte. “Come tutti sanno”, mi spiegò, “una di queste due tartarughe è il demonio. Quando lei vedrà che a una di esse stanno crescendo due ali di dragone, non manchi di avvisarmi, perché quella, senza dubbio, è il demonio. Allora faremo un falò e la bruceremo viva per farla così finità con la malvagità sulla faccia della terra”. Le prime notti rimasi sveglio, badando alle tartarughe: che animali stupidi e sgraziati. Poi il mio zelo mi apparve ingiustificato e, non appena la zitellona si addormentava, mi avvolgevo le gambe in una coperta e, rannicchiato su una sedia del giardino, dormivo tutta la notte. Di modo che non potei mai verificare quale delle due tartarughe era il demonio. Quindi dissi alla signorina che preferivo lasciare l’impiego, dato che mi risultava insalubre passare la notte vegliando.
Anche perché avevo appena saputo che a San Isidro c’era una vecchia casona su un alto dirupo, e, nella casona, una statuina che rappresentava una dolce fanciulla francese della fine del XIX secolo. I proprietari – una coppia di anziani ingrigiti – credevano, vai a sapere perché, che quella fanciulla fosse malata di amore e di tristezza, e che, se non le si trovava un fidanzato, sarebbe morta di lì a poco. Mi assegnarono uno stipendio e mi convertii in fidanzato della statuina. Iniziai a farle visita. Gli anziani ci lasciano soli, benché sospetti che ci sorveglino di nascosto. La fanciulla mi riceve nella sala malinconica, ci sediamo su un sofà sciupato, le porto fiori, cioccolatini o libri, le scrivo poesie o lettere, lei suona languidamente il piano, mi lancia sguardi soavi, io la chiamo Amore mio, la bacio furtivamente, a volte vado più in là di quello che permetterebbero il decoro e la innocenza di una fanciulla della fine del XIX secolo. Anche Giselle mi ama, abbassa gli occhi, sospira tenuemente, mi dice: “Quando ci sposeremo?”. “Presto”, le rispondo. “Sto mettendo insieme i soldi”. Sì, ma la data si differisce, dato che è molto poco quello che posso mettere da parte per il nostro matrimonio: come ho già detto, non si guadagna granché vivendo delle superstizioni altrui.
Fernando Sorrentino
(Da: En defensa propia, Buenos Aires, Editorial de Belgrano, 1982. Traduzione di Federico Guerrini)