FANTASCIENZA STORY 260

IL FUTURO E’ NELLO SPAZIO (2013)

Iniziamo a perlustrare questa annata con Hunger Games – La Ragazza di Fuoco (The Hunger Games: Catching Fire) di Francis Lawrence. Quasi un anno è passato dagli ultimi Hunger Games. Katniss e Peeta girano per i distretti, costretti a fingersi innamorati per volontà del regime. Ma suo malgrado, Katniss è diventata un simbolo che ha dato coraggio e vita a una rivolta che cova nella popolazione, con il simbolo della ghiandaia. Il presidente Snow, in occasione dei 75esimi Hunger Games, indice un’edizione speciale a cui partecipano 24 dei vincitori delle precedenti edizioni, fra cui Katniss e Peeta. Gli intrighi di Snow sono organizzati dal nuovo Stratega dei giochi, Plutarch (Philip Seymour Hoffman). Katniss si accorda con Heymrich perché Peeta sopravviva ai nuovi Hunger Games, ma stavolta i due ragazzi non dovranno difendersi solo dagli altri concorrenti… Con il secondo episodio della saga cine-letteraria creata da Suzanne Collins c’è un cambio alla regia, ma il livello resta all’altezza del primo, con un maggior approfondimento psicologico, alcuni nuovi personaggi e una dinamica diversa dei giochi, che salva il secondo episodio dalla ripetitività.

In The Zero Theorem – Tutto è vanità (The Zero Theorem) di Terry Gilliam troviamo Qohen Leth (Christoph Waltz), un informatico che lavora per la società Mancom. Misantropo e ipocondriaco, chiede alla società di lavorare chiuso nella sua casa, un monastero sconsacrato, ed è ossessionato dalla convinzione che un giorno riceverà la telefonata che gli svelerà il significato dell’esistenza. Nel tentativo di guarire dalle sue nevrosi, riceve via web le sedute della dottoressa Shrink Room (Tilda Swinton), una psicanalista virtuale. Nel fortuito incontro con la Direzione (Matt Damon), Qohen vede soddisfatta la sua richiesta, ma in cambio dovrà dedicarsi interamente a confermare il Teorema Zero, secondo la quale l’universo un giorno imploderà in un buco nero in cui nulla più esiste. Per aiutarlo in quest’impresa, la Direzione lo fornisce di un supercomputer e gli manda le periodiche visite di bizzarri personaggi, come la squillo Bainsley (Mélanie Thierry) e Bob (Lucas Hedges), il figlio quindicenne della Direzione, genio scientifico in erba. I lavori procedono incessanti e infruttuosi, mentre la realtà attorno a Qohen si sgretola… L’estroso e geniale Terry Gilliam dirige il suo terzo film etichettabile come fantascienza, dopo Brazil (Brazil, 1985) e L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, 1996). Il suo gusto per le scenografie ipertrofiche, i personaggi pittoreschi, gli sfondi surreali, l’umorismo acre si confermano in pieno, ma il tono intimista e una contenuta spettacolarità stavolta non incontrarono il gusto del pubblico.

Passiamo ora a Gravity (Gravity) di Alfonso Cuaròn. La dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) è alla sua prima missione spaziale a bordo dello shuttle Explorer. Il suo compagno Matt Kowalsky (George Clooney) invece è un veterano vicino alla pensione. Il loro compito è la manutenzione del telescopio spaziale Hubble, ma un missile russo nelle vicinanze esplode, e i suoi detriti colpiscono lo shuttle uccidendo tutti i membri della missione tranne Stone e Kowalsky, lasciandoli però privi di comunicazione con il centro di Houston o con chiunque altro. L’unica speranza di sopravvivenza sembra essere raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale, ma come? Grande successo di pubblico per questo insolito kammerspiel spaziale, che parte con tre personaggi che subito diventano due e a metà film uno solo. La combinazione di spettacolari riprese spaziali, suspense e introspezione psicologica funziona a livello drammatico. Riguardo all’attendibilità scientifica, il regista si prende un po’ troppe “licenze poetiche”, che stonano con l’impostazione di fondo, che vorrebbe essere realistica con la sua abbondanza di particolari tecnici.

Con Elysium (Elysium) di Neill Blomkamp siamo nel 2154: la Terra è un pianeta inospitale, devastato dall’inquinamento, i cui abitanti sopravvivono a stento, mentre una minoranza ricca vive agiatamente sulla stazione spaziale orbitante Elysium, dotata di lussuose comodità e persino di capsule mediche che rigenerano i tessuti malati, rendendo in pratica curabile ogni malattia. Gruppi di emigranti cercano ripetutamente di raggiungere Elysium con navi spaziali di fortuna, ma devono fare i conti con Jessica Delacourt (Jodie Foster), ministro della Difesa di Elysium, che non esita a bombardare quelle navi, sterminando i suoi occupanti. Max Da Costa (Matt Damon) è operaio in una fabbrica di Los Angeles che costruisce robo-poliziotti. Max, in un incidente sul lavoro, riceve una quantità di radiazioni tale che gli vengono diagnosticati solo 5 giorni di vita. Max accetta allora un incarico da Spider (Wagner Moura), un trafficante di emigranti: rapire Carlyle, il direttore della fabbrica di Max, e prelevare un database che costui ha impiantato nel cervello con il sistema difensivo di Elysium, e con quello ricattarne il governo per accedere alla stazione e alle sue cure. Dotato di un esoscheletro che lo rende forte e agile come un droide, Max inizia così un’avventura pericolosa e disperata… Dopo il fulminante esordio con District 9, il sudafricano Blomkamp sbarca a Hollywood con un film che conferma il suo talento adrenalinico, oltre alla propensione per i temi di attualità sociale, sia pur trasposti in ambito fantascientifico. Ineccepibile dal punto di vista spettacolare, purtroppo però il regista non cura a dovere la sceneggiatura, affidandosi, specie nella seconda parte, a soluzioni trite e scontate.

Diamo un’occhiata adesso a Oblivion (Oblivion) di Joseph Kosinski. Nel 2077 Jack Harper (Tom Cruise) è un riparatore di droni, inviati per scrutare la Terra 60 anni dopo che la guerra contro la razza aliena degli Scavengers l’ha resa inabitabile, ma ancora afflitta da loro occasionali razzie. Quasi tutta l’umanità vive in una stazione orbitale, ma Jack e sua moglie Vika (Andrea Riseborough) ricevono ordini dallo spazio tramite Sally (Melissa Leo) e vivono la loro missione con abnegazione in una Terra disabitata, in una lussuosa casa in quella che un tempo era New York. Jack però ha sogni di una vita passata a New York con una donna sconosciuta (Olga Kurykenko). Ma un giorno Jack scopre altri esseri umani chiusi in capsule criogeniche, fra cui Julia, identica alla donna dei loro sogni. E subito dopo viene catturato da Scavengers che si rivelano in realtà essere guerriglieri umani, guidati dall’anziano Beech (Morgan Freeman), che gli rivelano una realtà ben diversa da quello che Jack ha sempre creduto… Joseph Kosinski realizza un film suggestivo, ben giocato sull’alternanza fra intimismo, azione e colpi di scena, che ha fra i suoi punti di forza il fascino di una New York abbandonata dall’uomo ma sovrastata da una natura bizzarra e rigogliosa. Forse troppo sottile per il pubblico americano, che lo ha snobbato, ricevette accoglienze migliori in Europa.

In È difficile essere un Dio (Trúdno byt’ bógom) di Alexey Yurevich German, Rumata (Leonid Yarmolnik) è uno psicologo inviato sul lontano pianeta Arkanar, abitata da una popolazione umanoide che vive in una condizione sociale, politica e scientifica simile al nostro medioevo feudale, oppressi da un folle Re (Sergey Stuonikov), dagli intrighi del suo ministro Reba (Aleksandr Chutko) e da una religione fatalista. Per volere di Reba, scienziati e intellettuali sono perseguitati come criminali. Rumata fa parte di una squadra il cui scopo è osservare la vita di questo mondo, ma senza interferire, trasmettendo ciò che vede a un’astronave che orbita intorno al pianeta, tramite una videocamera impiantata nel suo occhio. Rumata però non sopporta più i soprusi a cui assiste, e cerca l’alleanza dello scienziato-filosofo Budach (Andrei Bottnew) per organizzare una rivolta. Questi progetti sono in contrasto con lo scopo della missione, come pure il suo amore per la sua domestica Ari (Natalya Moteva): Rumata si trova così a combattere la sua sfida su due fronti… Il regista russo Alexey German cercò di adattare l’omonimo romanzo di Arkadij e Boris Strugatski già nel 1968, ma varie vicissitudini politiche e produttive lo costrinsero a rinviare il progetto fino al 2000, quando iniziarono riprese che si protrassero fino al 2006, a causa del maniacale perfezionismo del regista. Successivi problemi di postproduzione ritardarono l’uscita del film al 2013, dopo la morte del regista. È difficile essere un dio riprende personaggi, sfondo, vari episodi e dialoghi del romanzo, ma senza inserirli in una vera trama, in un clima delirante ed esasperato, quasi da happening teatrale da avanguardia, mentre la cinepresa non sta mai ferma, aumentando la sensazione di straniamento nello spettatore. Un film “estremo” nello stile e nei contenuti, che divide il pubblico in entusiasti e irritati, senza mezze misure.

Star Trek – Into Darkness (Star Trek – Into Darkness) di J.J. Abrams è il secondo episodio della serie di J.J. Abrams che racconta la giovinezza degli eroi di Star Trek. Stavolta incontrano per la prima volta nientemeno che il giovane Khan (Benedict Cumberbatch), cattivo già presente, interpretato da Ricardo Montalban, sia nella serie tv originale che nel film Star Trek II: l’ira di Khan (Star Trek II: The Wrath of Khan, 1982). Tripudio di effetti speciali digital-spettacolari, ma anche una trama ben congegnata, un ritmo trascinante, bravi attori che sanno caratterizzare dei personaggi così rodati e sfruttati, e persino un finale commovente che strappa la lacrimuccia ai fan della serie: cosa chiedere di più? Una comparsata di Leonard Nimoy che interpreta Spock anziano? Sia pur tirata per i capelli, c’è anche quella!

Veniamo ora a Riddick (Riddick) di David Twohy. Diventato re del pianeta Helion, Riddick (Vin Diesel), in seguito a una congiura dei Necromanger, si ritrova solo e abbandonato su un pianeta inospitale, e lotta contro la fauna locale per sopravvivere. Incappa però in una base di appoggio per mercenari di passaggio, e la usa per lanciare un segnale, sapendo che attirerà i cacciatori di taglie che lo cercano per tutto l’universo. Il suo scopo è scendere a patti con loro per lasciare il pianeta. Arrivano ben due squadre, una guidata da Saldana (Jordi Mollà) e una guidata da Johns (Matt Nable), che punta però non alla taglia ma a saldare un conto in sospeso con Riddick vecchio di dieci anni. Scorrerà molto sangue prima che i superstiti si rendano conto qual è la vera minaccia che li sovrasta… Il regista-sceneggiatore David Twohy e il divo-produttore Vin Diesel si ritrovano per il terzo capitolo della saga di Riddick (il quarto se si conta anche il cortometraggio animato Dark Fury). Il progetto iniziale era molto più ambizioso ed era molto più incentrato sul regno di Riddick, ma problemi di budget costrinsero il duo a una trama meno epica. Il risultato è il più debole dei tre film, che liquida troppo in fretta i legami con il secondo capitolo, The Chronicles of Riddick, e costruisce una trama troppo simile a quella del primo, Pitch Black. Ma quel che è peggio è comunque un copione troppo esile e prevedibile, non abbastanza migliorato dalla fantasia visiva del regista e dal carisma di Vin Diesel.

Parliamo adesso di Snowpiercer (Snowpiercer) di Bong Joon Ho. 2014, una sostanza che ha lo scopo di neutralizzare il riscaldamento globale è sparsa nell’atmosfera: l’esperimento ha fin troppo successo e l’intero pianeta cade in una glaciazione perenne che stermina il genere umano. I superstiti fanno in tempo a radunarsi in un treno lunghissimo che compie un incessante viaggio intorno al mondo, al riparo dai ghiacci letali. Ad allestire questo treno è il magnate Wilford (Ed Harris). Nel 2031 gli abitanti del treno vivono in una società che dire classista è poco. Nei vagoni di coda, infatti, vivono i poveri ammassati in condizioni penose, sorvegliati da guardie armate, nutriti solo con blocchetti gelatinosi “proteici”. Emissaria di Wilford è Mason (Tilda Swinton), una donna che istruisce i passeggeri di coda su come devono comportarsi e commina atroci punizioni a chi si oppone. I ricchi vivono invece in giardini di delizie forniti di ogni comodità, devono solo adattarsi a celebrare Wilford in maniera quasi religiosa. Curtis (Chris Evans), uno dei “passeggeri” di coda, decide di ribellarsi guidando una rivolta per arrivare ai vagoni di testa aiutato da alcuni amici, fra cui l’anziano e plurimutilato Gilliam (John Hurt). A muovere Curtis c’è anche il ricordo di una precedente rivolta finita male, e una serie di bigliettini rinvenuti nei blocchi “proteici” che gli danno suggerimenti sulla strategia da adottare nella sua avanzata… Tratto da un fumetto francese degli anni ’80, Snowpiercer è un film di produzione sudcoreana ricco di trovate originali e di suspense, con ottimi interpreti (strepitosa e istrionica Tilda Swinton) e colpi di scena ben calibrati. L’idea del treno microcosmo sociale, dove persino il cibo è strumento non solo di divisione di classe ma di sopruso, è un’innovazione ben riuscita nell’ambito delle invenzioni distopiche.

Chiudiamo il 2013 con Under The Skin (Under The Skin) di Jonathan Glazer. Una misteriosa aliena (Scarlett Johansson) prende le fattezze di una ragazza trovata morta nelle strade di Glasgow, quindi attraversa la Scozia in un furgone, adescando giovani uomini che poi intrappola in un liquido nero dove l’interno dei loro corpi viene risucchiato e usato come materiale energetico per la sua astronave, lasciando di loro solo la pelle vuota. Un silenzioso motociclista (Jeremy McWilliams) la aiuta nascondendo le tracce lasciate dalle sue vittime. L’incontro con un ragazzo deforme (Adam Pearson) accende però in lei dei sentimenti inaspettati… Intellettualistica variante sul tema dell’invasione extraterrestre, il film ha un ritmo lentissimo, lunghe e pittoriche sequenze fisse ma con un soggetto in movimento, trama enigmatica e allusiva, la cui comprensione è lasciata spesso all’intuizione dello spettatore. Presentato con grande successo di critica al Festival di Venezia 2013, è stato un fiasco totale al botteghino, nonostante l’indubbio magnetismo emanato dalla star Scarlett Johansson. Davvero impressionante la scena dello “svuotamento” dei corpi. Molte delle scene di adescamento sono state girate in candid-camera, con passanti ignari delle riprese.

Mario Luca Moretti