QUANDO GLI ASINI VOLERANNO
di Giorgio Smojver
«Ai tempi di mio padre» disse il nonno «Si potevano vedere ancora draghi. I più piccoli, le Viverne, letali per ogni cosa vivente, ci sono ancora, nei monti impervi e nei boschi più selvaggi. Ma i draghi che solcavano i cieli spirando fuoco erano altra cosa. I più grandi erano venerati come déi: Perun re dell’estate, grigio e arancio come ferro rovente, e Veles re dell’autunno, bruno e con le ali vermiglie. Loro si accontentavano del sacrificio di una capra o di un vitello. Ma i draghi neri, Zmaj e Zmajna, erano più crudeli e mangiavano carne umana. Si dice discendessero da Azi Dahak, che un tempo era uno dei Guardiani del Mondo, prima di ribellarsi al Padre del Cielo.»
«Ma c’erano i Signori dei Draghi, no? Sapevano combatterli e dominarli» disse il piccolo Reinberg dai capelli color carota.
«Vi furono eroi che uccisero draghi; ve ne furono che trattarono con loro, ma nessuno mai li dominò. Gli ultimi eroi scomparvero coi Grandi Draghi.»
«Da grande io voglio diventare un Signore dei Draghi!»
«Sì, quando gli asini voleranno!» l’undicenne Ekhber gli diede un pugno sulla spalla «Da grande sarai un buono a nulla come adesso!»
Reinberg sapeva che era vero. Per quanto fossero amici, Ekhber era l’erede, un giorno avrebbe posseduto terre, sposato la piccola Menghild e forse sarebbe andato alla corte del Re, mentre lui sarebbe rimasto un orfano senza eredità, tollerato al desco dei padroni per via di una lontana parentela e dell’affetto di Ekhber. Non provava invidia: anche a nove anni, sapeva che ricchezza significa responsabilità, e che la responsabilità non era cosa per lui. Ma gli sarebbe piaciuto divenire un Signore dei Draghi.
Anche se era solo il primo meriggio, i tre camminavano nella semi oscurità. Tanto era fitto l’intrico di abeti, tassi e frassini, che a stento un raggio di sole scendeva a rifrangersi tra le fronde umide e i tronchi muschiosi. Prima, sicura nell’aprirsi la via, la fanciulla dal manto di piume di cigno, i capelli come la notte e il bianco, delicato collo, il cui nome era Svanhvit; dietro a lei Reinberg, col suo passo nervoso e leggero da cacciatore, le vesti di pelle e la banda scarlatta ormai sbiadita nei capelli rossi. Terza, grigia e quieta, li seguiva Pazienza.
Erano ormai lontani dal forte di Radebona, e anche dall’accampamento degli assedianti; non ne udivano più il clangore d’armi né il lezzo; camminavano in boschi remoti, dove Reinberg non si era mai avventurato.
Gli alberi si diradarono; era il tramonto e lei gli concesse una sosta. Reinberg bevve un sorso, masticò una stecca di carne secca, appoggiò il dorso a un grande frassino e chiuse gli occhi. Dietro le palpebre rivide quell’anno, il più straordinario della sua vita, e i volti degli amici persi.
Erano partiti, lui ed Ekhber, dal loro villaggio nei monti dei Pini, a nord del Danubio, per andare a vendere pelli di castoro e martora nella remota e ricca terra posta a sud delle Alpi, e lì avevano incontrato un giovane strano, Helmor; con lui avevano vissuto un’avventura quale nessuno della loro stirpe aveva conosciuto. Avevano visto un grande drago volare tra i fulmini sulle montagne; ucciso velenose viverne e stretto amicizia coi Waldshrat, il piccolo popolo dei boschi. Ekhber morì, ucciso da una Vila, e lui e Helmor portarono il suo corpo dalle Alpi al Danubio, perché Menghild potesse seppellirlo e piangerlo, su un carretto, grazie a Pazienza, un’asina coraggiosa. E ritrovarono il loro paese devastato.
Una guerra era scoppiata, e il Re Stregone Valpulis era sceso dal nord con le sue armate mostruose, mentre le orde nomadi razziavano da est.
Una sola cittadella accoglieva i disperati e i fuggitivi: Radebona, la rocca sul Danubio, difesa dal capitano d’occidente Mirluin,
In quella fortezza si erano rifugiati i due compagni. Helmor aveva formato uno strano plotone di guerrieri di diverse razze, i Cacciatori Scarlatti; avevano salvato la fortezza e quanti vi vivevano, ma a caro prezzo. Helmor, colpito a tradimento da una lama infetta di veleno di basilisco, che nessuno in quel continente sapeva guarire, era partito, sul suo grifone, a sud, oltre il mare, cercando una cura, credettero molti; ma Reinberg, che lo conosceva meglio, sapeva che voleva morire libero e solo come era vissuto. Andandosene, gli aveva donato un flauto fatto dai Waldschrat, un manto che cambiava colore a seconda dell’ambiente e una fiasca magica di acquavite di sorbo. Anche il Cavaliere Pescatore Caelidanor era ferito, forse a morte, e l’orco Lupo Wurdrak e il mezzelfo Svindhar se ne erano andati, quasi che con Helmor fosse sparito il loro legame col mondo degli Uomini.
Gli ultimi tre Cacciatori Scarlatti, il gigantesco barbaro Ermeric, la guerriera Ramatuin delle isole e Reinberg, erano in ricognizione, quella mattina. Avevano udito un canto di fanciulla. E si erano persi, loro che si ritenevano signori dei boschi. Nebbia iridescente ingannava i loro occhi, i sentieri mutavano, i loro passi li riportavano sempre allo stesso punto. Svanhvit apparve, ma non li liberò dall’incanto sinché non ottenne il servizio di uno di loro: e stranamente scelse Reinberg, il peggior guerriero del gruppo.
Qualcosa gli sfiorò il capo: le bianche delicate dita di Svanhvit gli tolsero una fronda caduta sugli arruffati capelli rossi. Poi d’improvviso lei lo baciò. Giacquero quella notte sotto le stelle che occhieggiavano sulla radura.
Un raggio dorato piovve tra i rami, era mattina. Credette di aver sognato ma lei era ancora lì, viva e reale. L’asina Pazienza li osservava senza scomporsi, mordicchiando un arbusto di bacche.
«Perché non hai voluto lasciarla, Reinberg?» chiese lei «Ti avrei dato una cavalcatura migliore.»
«Pazienza si fida di me. È l’unica, sai, a credere che io sia un eroe.»
Le si accostò, scostando una ciocca nera dalla sua fronte candida «Perché hai scelto me? Ermeric è più forte e ardito. Se mai ho fatto qualcosa di coraggioso, l’avevano iniziata i miei amici, io andavo loro dietro.»
«Per questo. Ammetti la paura, e malgrado la paura non vieni meno agli amici. Ermeric si farebbe uccidere, perché questa è un’impresa per cui non basta forza e coraggio.»
«Come posso riuscire dove fallirebbe un guerriero come Ermeric?»
«Ti ho sentito suonare. La tua musica pulsava della vita del bosco» gli sfiorò la guancia con un bacio «E sai ridere. È tutta la vita che ho attorno guerrieri intrepidi, a partire dai miei sei fratelli. Non sai che sollievo sia un fifone che sa ridere.»
«Sei fratelli, hai detto?» Si scostò subito. I fratelli lo innervosivano, specie se intrepidi guerrieri. Di solito portavano pesanti spade ed erano suscettibili riguardo alle sorelle.
«Sì. Saranno qui a momenti» disse lei, frugando con lo sguardo gli sprazzi di cielo nell’intrico di rami e inarcando il lungo collo.
Poi si accostò a un albero cavo e ne trasse lunghe cinghie di cuoio «Mettile sotto la pancia dell’asina e legati anche tu».
Obbedì. Sei grandi cigni giunsero in volo da nord e Svanhvit infilò loro l’imbracatura. Poi indossò il suo manto e si mutò in cigno sotto i suoi occhi. I cigni batterono le ali; Reinberg si sentì strappare e sollevare in aria.
Non era possibile. Sette cigni, anche grandi come quelli, non potevano sollevare un uomo e un’asina. Eppure era così: le cime degli alberi e gli specchi dei laghi fuggivano sotto di lui. Strinse freneticamente le cinghie. Mentre Pazienza si godeva l’esperienza del volo e l’insolita vista dall’alto, Reinberg quasi vomitò a ogni virata o cabrata, chiuse a lungo gli occhi e quindi non ebbe la minima idea di dove si trovasse il monte alle cui pendici si posarono.
Aveva la forma di un cono tronco: i fianchi scintillavano bianchi coperti da betulle e abeti innevati. Ma la cima di nudo, nero basalto baluginava di fiamma come la fucina di fabbro.
Tre guerrieri a cavallo sbarravano loro la strada. Svanhvit, tornata in forma umana avanzò.
«Che cercate?»
«Si dice» affermò il primo, un asdingo dal volto angoloso e il cranio rasato «che la Regina delle Huldre colmerà d’oro l’uomo che le riporterà il bambino, o gli darà il suo amore».
«Toccherà a uno di noi» disse il secondo, un cimbro massiccio e villoso come un orso «O pensi ci riesca lo sgorbietto che ti segue?»
«Io le restituirò suo figlio, io e nessun altro» disse il terzo, un biondo rugio agile e muscoloso «e non per l’oro.»
Svanhvit li squadrò «Non è impresa per voi. Sprecherete le vostre vite e il nostro tempo, e il secondo ha valore.»
«Davvero? Vuoi batterti per la precedenza, cavaliere dell’asina?»
«Agiamo da persone civili» protestò Reinberg «se siete arrivati prima, prego».
Svanhvit sbuffò «Un’ora di vantaggio, non di più».
I guerrieri risero, girarono i possenti cavalli ed entrarono nel bosco bianco.
«Regina delle Huldre? Bambino?» chiese Reinberg.
Lei sospirò «Sì, è ora che ti dica tutto. La regina delle Huldre di Iperborea, mia cugina, ha un figlio. Re Valpulis ha rapito per costringere il popolo Hulder a combattere al suo servizio. Lo stregone ha posto a sua custodia difese che né la magia degli Elfi, né quella delle Huldre possono superare. Abbiamo provato a volare lassù. Vortici di ghiaccio e fiamma ci hanno respinti».
«Certo che sai essere incoraggiante».
Attesero in silenzio. L’ora passò. «Hanno fallito, come inevitabile. È tempo che vada tu. Lo so che non credi in te stesso, Reinberg. Io sì, però».
Reinberg montò su Pazienza e si addentrò nella foresta, che era bianca e silente come un sudario. Ghiaccioli pendevano dai rami come lacrime, dando alle betulle l’aspetto di giganti piangenti. Il gelo l’investì: si strinse nel mantello cangiante, si coprì sino alle caviglie, calò il cappuccio sul viso.
Era avanzato di poche centinaia di passi nella foresta di ghiaccio quando vide due dei guerrieri che erano stati così superbi, rigidi come statue, esangui, la pelle bluastra, barbe e capelli incrostati di ghiaccio. Le mani gli tremarono e la voglia di tornare indietro quasi lo travolse. Ma proseguì.
Rare volte un uomo diventa un Hrimgaest, uno spettro della brina. Non basta che muoia congelato: un odio estremo deve abitarlo, e disseccare ogni altra emozione, persino quel baluginio di vita che permane nella mente dei morti come struggimento e nostalgia. I Hrimgaest non desiderano che bere sangue caldo e prosciugare le vittime, e allora per pochi minuti assaporano di nuovo la vita. Re Valpulis sapeva servirsene.
I Hrimgaest avvertirono la presenza di sangue vivo nella foresta. Si misero in caccia seguendo la traccia di calore, ma non videro che una piccola asina, che trotterellava tranquilla. Un Hrimgaest non distingue gli odori, come non sente alcun sapore: brama solo il calore del sangue. Ma un’asina è una misera preda, e si erano appena saziati di due uomini forti e di due cavalli.
Reinberg avvertì lo scricchiolio delle foglie gelate e la presenza vicino a lui di qualcosa di più freddo del ghiaccio. Con uno sforzo riuscì a non alzare gli occhi e a non muovere un muscolo. Restò a capo chino sotto il cappuccio e il manto bianco come la neve, che si striava di grigio quando passava davanti a un tronco di betulla o a una roccia. Lasciò che Pazienza trovasse la strada da sola. Solo un istante l’asina sussultò, e un alito gelido l’investì. Poi passò, e dopo cento battiti di cuore sentì un soffio d’aria calda. Non era più nella foresta di ghiaccio.
Hartvig, il terzo guerriero, avanzò sulla roccia scura e spezzata sino al fiume di fuoco che circondava la cima. Il ponte, largo due palmi, sembrava una spada di ferro brunito. Fiammate si levavano a intervalli irregolari dal letto di fuoco, superando l’altezza del ponte. Hartvig era giovane e forte, ritenuto un eroe tra i Rugi. Avrebbe potuto divenire un capo, un principe, servendo Re Valpulis, ma aveva gettato via tutto. Da quando aveva visto la regina delle Huldre, non sognava che del suo corpo morbido e slanciato, le labbra rosse, la chioma splendente come foglie di acero in settembre. Non le aveva mai parlato, ma dopo aver visto i suoi occhi da cerva velati di tristezza, gli era rimasto un solo pensiero: restituirle suo figlio.
Carezzò il collo di Silfedr: uno stallone grigio d’Iperborea, l’unica altra creatura che amasse al mondo, e tutta la sua ricchezza. Provava rimorso di averlo esposto a quel rischio, ma non ce l’avrebbe mai fatta senza di lui. Gli aveva salvato la vita, volando attraverso la foresta di ghiaccio e distanziando i Hrimgaest che avevano ucciso i suoi compagni.
«Ce la puoi fare, Silfeldr.»
Il ponte era troppo stretto per il galoppo di uno stallone e, anche se il letto di fuoco era molte braccia al di sotto, fiammate si levavano a lambire il passaggio, a intervalli troppo frequenti per passare a piedi. Ma Silfeldr lo poteva superare in tre balzi, se riusciva ad atterrare due volte con gli zoccoli vicini.
«Ce la puoi fare, amico». Spinse i talloni nei fianchi e il cavallo scattò, si librò in aria e il primo atterraggio sulla striscia di ferro fu perfetto. Un secondo salto, e ancora atterrò con gli zoccoli allineati. Tutti i muscoli si tesero per il terzo. E in quell’istante una lingua di fiamma si levò alta davanti a loro, il cavallo scartò e, nitrendo, precipitò nel letto di fuoco.
Hartvig riuscì ad aggrapparsi con le mani all’orlo tagliente del ponte. Udì l’ultimo nitrito di dolore e non volle guardare. Perdonami amico mio, cosa ti ho fatto!
Con uno sforzo estremo riuscì a issarsi sul ponte di ferro con le mani sanguinanti. Strisciò per gli ultimi passi e raggiunse il basalto sull’altro lato. Una testa tre volte più grande di quella di un cavallo, dai denti come pugnali, calò su di lui e posero fine a tutto, e fu quasi un sollievo.
Reinberg aveva assistito all’agonia dello stallone e visto l’enorme testa e il collo serpentino scattare fuori da una grotta nel basalto, ghermire il Rugio come un coniglio e portarlo via. No, questo era troppo. Non poteva andare su quel dannato ponte, ancor meno condurci Pazienza. Helmor aveva ucciso un drago nero, ma ora era morto o disperso nei cieli del sud. Lui non era Helmor. Ma lei aveva detto «Credo in te». Mai una fanciulla così bella gliel’aveva detto. A essere sinceri, mai una qualunque fanciulla gliel’aveva detto. Le pastorelle o contadine con cui era stato si divertivano per una notte o due, gli chiedevano una canzone, ma senza prenderlo sul serio. Un giovane nobile spiantato non è qualcuno con cui si possa pensare un futuro.
I serpenti ci mettono molto a digerire una preda, e il guerriero era robusto. Forse ora dorme.
Tornò al limitare del bosco bianco. Raccolse neve nel suo mantello; prese dal basto di Pazienza la coperta, l’infradiciò di neve e fango e la pose sull’asina, coprendola sino agli zoccoli. Le bagnò la testa e le strinse un bavaglio fradicio alla mascella. Lei accettò con la pazienza da cui prendeva il nome. Reinberg salì in groppa, si avvolse nel mantello gelido e umido e si avventurò sul ponte.
Pazienza iniziò ad avanzare sulla stretta striscia metallica, mettendo gli zoccoli uno avanti l’altro con calma e precisione, come solo un asino sa fare, mentre le mani di Reinberg tremavano come foglie. Erano a metà del ponte quando una fiammata li sfiorò, ma la stoffa fradicia li protesse. E ancora avanti, passo dopo passo, con lentezza esasperante. Quando mancarono solo due braccia una vampata li investì, scottando mani e viso di Reinberg e strinando il pelo a Pazienza che emise un raglio di protesta, ma non perse l’equilibrio. Le fiamme ricaddero, tre passi ancora e finalmente furono oltre il ponte.
Smontò: era una selva di picchi, forre e grotte; in alto vide un padiglione e udì il vagito di un bambino. Si avviò, incredulo della sua fortuna; e giustamente, perché a un tratto il collo inarcato e la testa triangolare torreggiarono su di lui: il drago misurava cinquanta piedi, aveva zampe artigliate e corte ali, e scaglie nere da cui il fuoco del fiume di lava traeva riflessi vermigli.
Reinberg non cercò nemmeno la lancia: prese invece il flauto dei Waldschrat. Lo portò alla bocca con dita tremanti, e soffiò: il suono uscì stridulo e asfittico. Il drago emise un sbuffo di fiamma, irritato.
Sforzandosi di tener fermi i piedi che volevano correre, cercò il tono, con la gola tesa. E la musica si dispiegò, alta e armoniosa, nell’aria caliginosa. Il drago ascoltava, con occhi gialli splendenti, inclinando la testa triangolare. Reinberg suonò e suonò, i muscoli della gola iniziarono a dolere, sudore freddo gli imperlava la fronte, ma non perse il ritmo per un istante. Era una vecchia canzone, che al suo paese perduto si suonava a Calendimaggio: parlava dei cieli color indaco, delle stelle palpitanti nelle sere di mezza estate, dei fuochi che si saltavano a passo di danza. Parlava di casa.
Il fiato gli bruciava come fiamma in gola, non ebbe più aria nei polmoni e si arrestò.
E il drago parlò, con fresca voce femminile. «Ciao» gli disse «Io mi chiamo Zmajna. Sei un Orco o un Eroe?»
«Mi chiamo Reinberg e sono un grandissimo eroe. Ti sembro forse un Orco?»
«Scusa. Ma sono uscita dall’uovo solo quindici giorni fa. Babbo mi diede pezzi d’Orco, la carne era dura e stopposa. Sono contenta che tu sia un eroe, gli eroi sono saporiti».
«Dimenticavo di dirti che mia nonna era un’Orchessa. Sono certo di aver preso da lei».
«Oh peccato. Vuol dire che ti mangerò quando avrò proprio fame. Un eroe ce l’ho, per oggi, grosso e gustoso, anche se un po’ bruciacchiato. Ne vuoi un po’?»
«No! Grazie, ma ho avuto una colazione abbondante. Mangia tu, sei giovane, devi crescere.»
«È vero. Sai, devo diventare tre volte più grande più di così, per essere un vero Drago della Notte».
«Perché non ne tieni un po’ per domani? Così non dovrai mangiare me, che sono amaro e fibroso. Poi voi rettili, scusami, mangiate molto di rado, no?»
«Quelli a sangue freddo. Non sono mica un serpente, sono un drago» disse lei, risentita.
«Tuo padre è Re Valpulis?»
«No, cosa dici, lui è solo un mago umano. Il babbo è Azi Dahak, padre di tutte le Dragonesse della Notte, Valpulis è suo vassallo. Noi nasciamo una per volta, quando una muore si schiude un nuovo uovo. Il mese scorso dei cattivi eroi uccisero mia sorella maggiore. Così sono nata io, ma sono sola, mi annoio».
Reinberg si guardò intorno, sperando che almeno Pazienza fosse fuggita. Era lì accanto, aveva trovato un cardo da rosicchiare e seguiva quieta la conversazione.
«Hai un gran senso del dovere a startene qui mentre potresti volare in giro a cacciare. Se vuoi farti un voletto, posso restare io a badare al moccioso».
«Grazie, ma non volo ancora, ho le ali piccole, non vedi? Ma cresceranno. Facciamo così, mi lascio una gamba di quello là per il pranzo di domani e te ti mangerò a cena, così mi farai compagnia tutto il giorno. Conosci delle storie?».
Cercò disperatamente una qualsiasi cosa da usare contro il drago. Toccò la fiasca magica d’acquavite di sorbo. «Ne so un sacco. Ma non vuoi bere un goccio, prima?»
«È forte? Babbo dice che non devo bere roba forte, solo sangue».
«È forte. Ma tu fai sempre ciò che ti dice?»
Zmajna ammiccò, complice «Mica sempre».
Reinberg bevve un sorso e passo la fiasca a Zmajna, che la svuotò a metà. Non sapeva cosa aspettarsi, ma fu deluso; il sorbo evidentemente non aveva effetto sui draghi.
«Proprio buona. Dai, comincia».
Pensò alla storia più lunga che conoscesse «Era aprile, dopo giorni di pioggia continua il sole era tornato sulle pendici della Selva Nera, stendendo un velo d’argento sulle fronde bagnate. Una ragazza di tredici anni camminava nella foresta, sola; ma non aveva paura. Si chiamava Valawyne…»
Il sole tramontò e la luna salì alta nel cielo, Pazienza e il bambino si addormentarono. Zmajna seguiva attentamente il racconto, facendo domande curiose sui popoli e i paesi e sulle loro avventure, particolarmente sul mare che faticava a immaginare, e ogni tanto beveva. La fiasca fu svuotata tre volte, tre volte si riempì da sola di nuovo.
«Allora io montai sul più grande e selvaggio tra i tori. Helmor aveva paura, ma mi seguì come faceva sempre. Tutti assieme, con mille capi di bestiame al seguito, caricammo i barbari…»
Zmajna sbadigliò, mostrando le terribili zanne «La storia mi piace, ma è lunga. Mi è venuto sonno, con tutto quello che mi hai fatto bere. Dormiamo un po’, ti va?»
«Certo»
«Ma poi Helmor e Valawyne si sposano? O lui torna da Sch… Sh… quella a sud? No non dirmelo! Voglio sentire domani come finisce».
Piacerebbe anche a me saperlo. Zmajna si addormentò. A quel punto, lui lo sapeva, un vero eroe avrebbe preso la lancia e trafitto il drago nella vulnerabile gola, ma Reinberg proprio non ne ebbe il cuore. In punta dei piedi, scosse Pazienza e si accostò al letto del bambino. Era bello e in tutto umano, a parte la piccola coda: eppure aureolato di potere. Gli sorrise. Lui lo avvolse nella coperta e tenendolo tra le braccia montò sull’asina. Per fortuna Zmajna non vola ancora, pensò, gettandole un’occhiata d’addio.
La discesa fu facile. Pazienza attraversò tranquillamente il ponte della spada: sul fondo il letto di lava si stava scurendo e solidificando. Nella foresta bianca non c’era traccia degli Spettri della Brina, e le lacrime di ghiaccio degli alberi si scioglievano e cadevano in pioggia sottile. La stregoneria era infranta.
Svanhvit attendeva, prese il bambino in braccio, lo depose con cura in una culla di rami e fronde, con morbido muschio. Poi prese tra le mani il viso di Reinberg e lo baciò sulla bocca. «Non lo sai, ma oggi hai mutato le sorti della guerra e salvato i tuoi amici. Salute a te, Signore dei Draghi!»