DA GOBLIN A FARFAROUT: ALLA RICERCA DEL PIANETA X

In un articolo di novantadue pagine pubblicato su Physics Reports, gli astronomi tornano a parlare del misterioso pianeta nascosto del sistema solare, noto come “Planet X”. Un team di ricercatori della Caltech infatti hanno esaminato alcune prove che confermerebbero l’esistenza di questo pianeta.

La teoria dei ricercatori è che alcuni oggetti distanti oltre Nettuno avrebbero delle strane orbite che potrebbero essere il risultato di un misterioso pianeta che influenza il loro movimento. Soprannominato anche “Pianeta Alieno”, questo mondo fu teorizzato svariati anni fa, ma ancora non è stato trovato.

Gli astronomi del California Institute of Technology hanno analizzato se il raggruppamento degli oggetti della fascia di Kuiper che circonda il Sistema Solare sia dovuto ad un corpo estraneo, come ad esempio “Planet X”. Lo studio conferma le fondamenta di queste teorie, ma come precisato da Mike Brown “direttamente l’analisi non ci dice nulla sul fatto che questo pianeta sia li, però conferma che l’ipotesi si poggia su delle solide fondamenta”.

In un altro progetto che il CalTech ha condotto insieme ai ricercatori dell’Università del Michigan, questi hanno calcolato che la massa del pianeta sarebbe superiore a quella di nove Terre messe insieme, con un’orbita solare 44,4 superiore al nostro pianeta. Alla luce di tali calcoli, il mondo potrebbe essere facile da individuare poiché sarebbe più vicino al Sole e forse anche più luminoso rispetto a quanto ipotizzato in precedenza.

Fred Adams crede che ci siano buone possibilità che “Planet X” venga scoperto nel giro di 9-14 anni. Qualora gli scienziati non dovessero riuscire a trovarlo in questo lasso di tempo, la teoria sarebbe messa da parte. L’idea di base dello scienziato è che “entro il 2030 o l’avremo visto, o avremo un’idea migliore del suo posizionamento”.

Ma non è tutto. Le teorie sono tante e tutte affascinanti. Infatti recentemente la scoperta di un oggetto spaziale in un’area molto remota del nostro Sistema Solare sta offrendo nuovi elementi a sostegno delle teorie sull’esistenza di questo fantomatico e misterioso “Pianeta X”, che secondo si troverebbe oltre l’orbita di Nettuno o di Plutone. L’ipotetico pianeta, come dicevamo, non è stato mai osservato, ma negli ultimi anni l’analisi di quella porzione di spazio ha permesso di identificare diversi corpi celesti che indicano la sua possibile presenza. La scoperta di un nuovo pianeta nel nostro sistema solare sarebbe storica e avrebbe notevoli implicazioni sulle conoscenze del posto che ospita anche la Terra, per questo i ricercatori sono molto cauti e ci sono astronomi che non nascondono il loro scetticismo.

Fra i papabili per ricoprire il ruolo che spetterebbe al “Pianeta X”, c’è un corpo celeste che è stato chiamato TG387, “il Goblin” per gli amici, ed è un sasso spaziale con un diametro massimo intorno ai 300 chilometri. È stato osservato dagli astronomi della Carnegie Institution of Science (Stati Uniti) grazie al telescopio giapponese Subaru alle Hawaii. Identificato per la prima volta nel 2015, i ricercatori ne hanno tenuto traccia per analizzare il percorso che compie intorno al Sole. Dai loro studi è emerso che Goblin impiega 40mila anni per compiere un’orbita completa intorno al Sole, seguendo una traiettoria ellittica molto schiacciata. Nel suo punto di massimo avvicinamento, mantiene una distanza di 65 unità astronomiche dal Sole, pari cioè a 65 volte la distanza tra la Terra e il Sole, la massima distanza è invece pari a 2.300 unità astronomiche. Viaggia lontanissimo, e a quanto pare indisturbato, ai confini del Sistema Solare.

Le caratteristiche orbitali, spiegano i ricercatori, fanno di TG387 un buon indiziato da pedinare per scoprire se esista o meno “Planet X”. Fa parte di una famiglia di sassi spaziali che ormai conta 14 membri, tutti con caratteristiche orbitali simili, come se qualcosa di molto grande li avesse influenzati con la sua gravità. E quel qualcosa potrebbe essere stato proprio “Pianeta X”.

A questo punto verrebbe da chiedersi giustamente: ma se davvero esistesse un altro pianeta, non lo avremmo già dovuto osservare come è successo con MercurioMarte, Venere, Giove e tutti gli altri? Il problema è che la zona dove gli astronomi stanno cercando il nuovo pianeta è lontanissima ed enormemente più vasta di quella dove abbiamo trovato gli altri pianeti, molti dei quali sono (in proporzione) così vicini da essere osservabili a occhio nudo. Gli oggetti che si trovano dove dovrebbe esserci anche “Pianeta X” sono invece talmente distanti dal Sole da rifletterne molto flebilmente la luce, rendendo la loro osservazione ancora più difficoltosa. Inoltre, i ricercatori possono osservare quella gigantesca area di spazio con telescopi potenti, ma che permettono di guardarne porzioni limitate per volta: è un po’ come osservare ciò che abbiamo intorno attraverso un mirino.

Per tutti questi motivi gli oggetti come TG387 sono importanti: le loro caratteristiche e i loro spostamenti ci possono dare preziosi indizi per capire se là in fondo ci sia qualcos’altro. La nuova scoperta ha per esempio permesso di ridurre il numero di potenziali orbite da analizzare per trovare “Planet X”. I ricercatori avevano iniziato con circa 30, ora sono diventate 25: sono ancora molte e richiederanno anni di studi, ma la scoperta di ulteriori sassi spaziali nella zona potrebbe permettere di ridurre ulteriormente il campo di ricerca. I 14 oggetti, o pianeti nani, trovati finora non sono infatti sufficienti per potere dire con certezza che esista un pianeta mai osservato.

Fra questi pianeti nani esiste anche Cerere, recentemente venuto alla ribalta in quanto sono state rilevate tracce delle eruzioni di un criovulcano sulla sua superficie, che hanno aiutato gli scienziati a dimostrare che sotto la superficie di questo pianeta nano si trova un oceano. Lo riporta la rivista Geophysical Research Letters.

“I criovulcani possono essere la culla della vita nell’universo. Per questo stiamo cercando di capire come funzionano le sorgenti d’acqua che li alimentano, nascoste sotto il guscio ghiacciato dei pianeti, e come si comportano”, ha detto Marc Hesse dell’Università del Texas.

Le prime immagini di Cerere scattate dalla sonda Dawn nel marzo 2015, dopo il suo arrivo sul pianeta nano, hanno rivelato due strane strutture che nessuno si aspettava di vedere: misteriose macchie bianche nel cratere di Okkator, tracce di un denso “salamoia”, e il monte Ahun di 4000 metri d’altezza.

Successivamente, gli scienziati della missione Dawn scoprirono che Ahun è in realtà un antico criovulvano estinto, e le macchie bianche risultarono essere tracce di eruzioni dai suoi “fratelli”. Inoltre, in altre regioni, gli scienziati hanno trovato depositi di ghiaccio “puro”, indicando che la superficie di Cerere è in costante mutazione, dal momento che questi ghiacci dovrebbero essere evaporati nello spazio già da tempo.

Tali scoperte hanno portato alcuni esperti a suggerire che nelle profondità del pianeta nano potrebbe esserci un oceano subglaciale, ghiacciato o ancora liquido, pieno di una specie di “salamoia” o di acqua pura riscaldata da una fonte di calore ancora sconosciuta.

I planetologi discutono da diversi anni su come possa esistere su Cerere acqua liquida. Hesse e i suoi colleghi hanno studiato la composizione chimica delle emissioni di “magma d’acqua” del criovulcano e le loro proprietà fisiche, così come le caratteristiche della superficie di Cerere.

Gli scienziati erano interessati a capire come le grandi riserve di sali e composti di metano nel presunto oceano sottomarino e negli strati solidi delle profondità del pianeta nano sono influenzate dal modo in cui conducono il calore. Per farlo, i planetologi hanno creato modello computerizzato di Cerere ed eseguito i calcoli.

Si è scoperto così che il “magma d’acqua” dei criovulcani si è indurito molto più lentamente di quanto supponessero i planetologi: è rimasto liquido per 6-10 milioni di anni dopo la sua formazione. Allo stesso tempo, la velocità del suo raffreddamento dipendeva molto dal volume di questa “salamoia”: più ce n’era, più lentamente perdeva calore.

Entrambi, secondo Hesse, indicano che sotto il cratere di Okkator deve esserci un serbatoio subglaciale molto grande, situato a grande profondità dalla superficie. Non potrebbe essere stato formato dalla caduta di un asteroide, e quindi la sua formazione non può essere spiegata senza la presenza di un oceano subglaciale nel mantello di un pianeta nano.

Questo oceano, a sua volta, se l’acqua in esso ha una composizione simile, così come la “progenitrice” di macchie sulla superficie di Cerere, esisterà quasi eternamente a causa delle alte temperature e pressioni che prevalgono negli strati profondi del mantello del pianeta nano.

Gli scienziati sperano che le immagini e i dati raccolti dalla sonda Dawn negli ultimi mesi della sua vita, dopo un attento avvicinamento alla superficie di Cerere, li aiuteranno a provare questa ipotesi.

E dopo Goblin e Cerere passiamo a parlare di 2018 VG18, in gergo FarOut, uno degli oggetti più distanti dal Sole mai scoperti, un piccolo corpo celeste distante ben tre miliardi e mezzo di chilometri da Plutone e 18 dalla nostra posizione. La distanza che separa il Sole a questo mondo sperduto nello spazio è pari a cento volte lo spazio che c’è tra il nostro pianeta e la nostra stella. Scoperto da un team di esperti della Scott Shepard del Carnegie Institution for Science, 2018 VG18 è stato avvistato sempre dal telescopio giapponese Subaru alle Hawaii.

L’oggetto ha caratteristiche ancora del tutto ignote, oltre a tanti aspetti unici. L’orbita, ad esempio, è notevolmente allungata, al pari degli altri oggetti transnettuniani; una caratteristica che ha spinto numerosi esperti di tutto il mondo ad ipotizzare la presenza del fantomatico “Pianeta X” nell’area più esterna del Sistema Solare. Il diametro di FarOut è di circa 500 km, impiega un millennio a completare un’orbita intorno al Sole ed ha una caratteristica colorazione rosata provocata dalla reazione del gas metano ghiacciato ai raggi cosmici al quale è costantemente esposto, per la mancanza della protezione del Sole (anche Plutone e gli altri pianeti nani Sedna, Makemake e 2007 OR10 hanno caratteristiche tonalità rosate per lo stesso motivo). La scoperta conferma, ancora una volta, come l’area esterna del Sistema Solare rappresenti un angolo dello spazio ancora poco conosciuto e ricco di sorprese.

Analizzando successivamente i dati di vari telescopi che stanno dando la “caccia” al presunto “Pianeta X”, sempre l’astronomo Scott Sheppard della Carnegie Institution for Science ha scoperto un altro pianeta nano a 20 miliardi di chilometri da Sole, più lontano ancora di FarOut, individuato nel dicembre 2018. Questi oggetti celesti sono come “briciole di pane” che potrebbero portarci prossimamente alla scoperta del pianeta più lontano del Sistema solare. Questo nuovo pianeta nano è stato ribattezzato FarFarOut e, giusto per avere un’idea della sua posizione, si trova a una distanza ben 3,5 volte superiore rispetto a quella di Plutone. Al momento comunque non se ne conosce nemmeno l’orbita a causa della notevolissima distanza che ci separa da questo piccolo ma estremamente affascinante oggetto. Per calcolarle sarà necessario condurre numerose osservazioni con potenti telescopi, come il Subaru di 8 metri alle Hawaii e il Blanco di 4 metri in Cile.

La ricerca di “Planet X” dunque procede: questi pianeti nani sono come “briciole di pane”, che possono condurci alla sua scoperta. Le loro orbite, infatti, potrebbero essere perturbate gravitazionalmente dalla presenza del pianeta, già teorizzata a causa dei comportamenti orbitali anomali di alcuni oggetti distanti. Se davvero troveremo un pianeta a una distanza così ampia, dovremmo riscrivere molto di ciò che sappiamo sull’evoluzione del Sistema Solare. Nel frattempo, in attesa della conferma definitiva, anche la scoperta di FarFarOut è stata annunciata su Science.

A cura della redazione