L’autore, con Il cadavere alla sua prima prova romanzesca al centro della quale sta la coppia di tecnici della polizia scientifica Ulf Holtz e Pia Levin, sfrutta abilmente le competenze lavorative acquisite presso l’ufficio stampa della polizia svedese per offrirci un robusto giallo sia nella costruzione del protagonista maschile che nello sviluppo della trama. Holtz appare un poliziotto assai verosimile sotto tutti i punti di vista, abile, tenace e intuitivo al lavoro quanto umano in tutti i ricordi e le debolezze della sua vita quotidiana di piccolo borghese, scrutata anche nei dettagli più prosaici (dalla masturbazione fino all’ipocondria). Pia Levin ne è una sorta di fedele e fredda comprimaria, purtroppo caratterizzata in maniera più timida e reticente da Gyllander.
Il romanzo scorre fino in fondo con fluidità e logica muovendosi agilmente tra tecnologie forensi estremamente avanzate, poliziotti informatici prontissimi a ricostruire files cancellati, writers e cacciatori di writers; il tutto con piena soddisfazione da parte del lettore, che non viene mai oberato da informazioni incomprensibili o troppo cervellotiche. Semmai, virtù dell’autore è quella di essere in grado di costruire e rendere percepibile al suo pubblico un’indagine in tutta la complessa ed eroica prosaicità che la determina, fatta di attese interminabili, false piste e montagne di possibili indizi. Questi ultimi, in particolare, appaiono in qualche misura impressionanti: una sola scena del crimine, per quanto ridotta, ospita infatti un numero di reperti e di relative minuziose analisi (perlopiù inutili, quando non addirittura depistanti) decisamente elevato, quasi impensabile per un profano. Gyllander non scarta nulla, così come non scarta nulla dell’esistenza di Holtz, neanche una maldestra minzione nei pressi del luogo di un delitto che si trasforma in intuizione investigativa sulle tracce dell’ipotetica orina dell’assassino.
Ma la peculiarità del testo sta altrove: come pochi altri romanzi polizieschi che collocano la propria storia ai giorni nostri, Il cadavere appartiene a un tipo particolare di narrazione, che definirei l’ultimo stadio del decadentismo della società odierna. Mi spiego: se fosse stato scritto solo qualche decennio prima, sarebbe stato catalogato senza troppi sforzi nell’ambito della fantascienza sociologica: intorno al 1980, tanto per scegliere un decennio a caso ma relativamente vicino alla data di pubblicazione de Il cadavere (2009), quasi solo in tale sottogenere erano pensabili dei riferimenti all’informatica e al DNA, ma soprattutto – e qui veniamo allo sconcertante decadentismo al quale mi riferisco – il tipo di reato che fa da corona agli assassinii sarebbe stato a fatica definito tale. La polizia comunale avrebbe certo perseguito come atti di vandalismo gli autori dei graffiti sui muri, ma mai e poi mai le forze dell’ordine statali si sarebbero sognate di celebrarne e formalizzarne le azioni come accade nel Cadavere, con tanto di partiti politici pro e contro, trasmissioni televisive sul tema, istituti di vigilanza specializzati nella caccia ai writers, che venivano “trattati come criminali, come spacciatori di droghe pesanti […] Tra le ultime leve, molti si vedevano come criminali e ne andavano anche fieri. Alcuni pensavano addirittura che la caccia da parte delle autorità rendesse il tutto ancora più eccitante”. Infine, si arriva addirittura alla compilazione di un elenco di graffitari archiviati per “nome, cognome, tag, codice fiscale e situazione giudiziaria”! Proprio da un simile database, certamente sproporzionato rispetto al “crimine”, trae spunto il rimedio peggiore del male, ovvero l’assassinio di alcuni degli artisti/vandali; e a questo punto torniamo all’informatica, alla nostra età dell’informazione e – forse – alla implicita critica sociale di Gyllander. Questo aspetto del romanzo, infatti, autorizza il lettore a formulare delle riflessioni proprio sulla relatività dei reati a seconda delle epoche (attenzione: non sto parlando di pilastri morali o Tavole della Legge, ma di semplice codice civile o penale) e, in rapporto al secolo attuale, a riflettere sulla progressiva sublimazione/ smaterializzazione dei reati stessi, a tratti spaventosa e apocalittica, soprattutto se mai arrivasse ad affermare cristianamente/dickianamente (il P. K. Dick di “Rapporto di minoranza”): è il pensiero quello che conta. Una bonifica totale della mente della quale faremmo volentieri a meno.
Ecco, in un primo momento l’articolo si concludeva così, con un pistolotto sulla libertà di scegliere d’essere, almeno in pectore… anche i più efferati criminali reali. Ma, come diceva Sade, dall’animale grande morto (la bellicosa civiltà occidentale come la conosciamo) nascono gli animali piccoli, nuovi: e questa bonifica di cui parlavo non potrebbe essere semplicemente una tensione verso l’utopia (fatto sempre religioso, anche quando non lo è, come in Marx), una strategia inconsapevole (e quindi senza alcun burattinaio nascosto, ma semmai movimento collettivo per molti aspetti spontaneo) volta a migliorare il grado del nostro livello di civiltà, come lo fu l’eliminazione delle esecuzioni capitali nella Toscana di fine ‘700? Quegli stessi critici del contemporaneo “che di solito pongono censure moralistiche […] neppure sembrano rendersi conto che in esse è contenuta un’intelligenza segreta di cui loro sono soltanto degli strumenti, necessari per rendere appetibile la trasgressione per l’appunto vietando, ma situando il loro divieto a un livello ben diversamente mediato rispetto a quello delle epoche precedenti; non più: ‘Non guardare le esecuzioni in piazza’, bensì: ‘Non guardare i film troppo violenti’. È proprio così, d’altra parte, che avvengono i mutamenti antropologici – con passo di lumaca zoppa” (immodesta citazione tratta da “Antonio Climati scompare a 84 anni”) (1). Aspettiamoci quindi future generazioni di delicati, alle quali non mancheranno certo aspetti di una nuova, oggi impensabile, barbarie.
Gianfranco Galliano
Si ringrazia per il lavoro di revisione Chiara E. Ferrario
(1) https://www.nocturno.it/antonio-climati-scompare-a-84-anni/