L’ABBAZIA DI STAFFARDA – IL MENHIR E L’ANGELO NERO
Per alcuni giorni rimasi nel mondo incantato di Sanahis. Avevo bisogno di metabolizzare la storia del mio passato e cercare di entrare in comunicazione con quella parte di me che in realtà non faceva parte di me. Mi documentai sugli angeli neri di cui sapevo solo pochi aneddoti. In epoca remota non si schierarono nella lotta tra il bene ed il male e per questo non trovarono un loro posto nel mondo. Scoprirono la loro via di espressione occupando il corpo di un suicida pentito. Ci misi giorni interi a capacitarmi del fatto di essere una Rinata oltre che una Purificatrice. Questo spiegava molte cose. Spiegava il vuoto mnemonico relativo alla mia infanzia e spiegava la mia particolare inclinazione per tutto ciò che non era terreno e comprensibile. Ma soprattutto spiegava i motivi per cui non ero io a cercare il soprannaturale, ma lui a cercare me. L’unica via che mi si delineava, per riuscire a vivere una vita quanto più normale possibile era accettare l’anima ospite dell’angelo nero. Soprattutto però, questa, era l’unica via d’uscita per riuscire davvero e fino in fondo ad usare i miei poteri giunti a quelli dell’angelo nero. Solo in questo modo avrei potuto sopravvivere e avere la meglio nelle battaglie con le creature provenienti dai mondi paralleli su cui la terra apriva svariate porte di contatto.
Sanahis mi aiutò molto in questo mio ripido percorso e Matteo mi illustrò la strada da percorrere per giungere alla fusione delle due anime ed il luogo in cui avrebbe dovuto avvenire. Matteo aveva conoscenze strabilianti e spesso io e Sanahis ci scoprivamo sedute dinnanzi a lui con la bocca aperta per lo stupore e per il modo intrigante di raccontare anche la cosa più banale. Feci lunghe passeggiate in quella terra piena di sorprese e ricca di colori intensi. Tutto sembrava più nitido rispetto ai paesaggi terrestri; forse perché l’aria era pulita ed incontaminata. In realtà, non era nemmeno aria quella che permeava quel mondo, ma acqua. Acqua talmente limpida e leggera da risultare quasi inconsistente. La si sentiva sulla pelle solo come un vago massaggio quando le correnti serali invertivano la rotta. Matteo aveva trovato lì la sua eterna giovinezza e l’amore che non aveva mai conosciuto sulla terra. Sanahis lo guardava sempre con gli occhi brillanti dell’amore.
La vegetazione lussureggiante era talmente bella da mozzare il fiato. L’erba era composta di filamenti tubolari e morbidi di un verde sgargiante e proprio come le alghe dei mari tropicali, si piegava seguendo i moti delle correnti quasi come stesse eseguendo una danza. Camminavano sulla terra sia animali prettamente marini che terrestri. Vedere una tigre scrollarsi pigramente accanto ad un banco di Betta Splendens dava una sensazione inspiegabile. In quei giorni scoprii anche che quelli che avevo creduto essere stormi di uccelli colorati, erano in realtà pesci delle più disparate tipologie. Dai Simphisodon Discus dall’allegro colore arancione e bianco, ai Melanochromis Auratus. Di volatili intesi come uccelli non ce n’era traccia. Sanahis mi raccontò una leggenda per spiegare la loro assenza. La leggenda narrava di una principessa molto giovane che aveva come unici amici i pesci che volteggiavano nel cielo acqueo sopra la sua stanza. Diede un nome ad ognuno di loro e quando questi sentivano di essere chiamati accorrevano da lei. Un giorno però, il re degli uccelli, stanco di non essere più al centro dell’attenzione del popolo di ninfe s’infuriò e fece divorare i pesci. Da quel giorno gli uccelli furono banditi dal mondo di Lymphae. Mi sdraiai sull’erba morbida e vellutata e rimasi a guardare l’immenso sole che si avviava al tramonto. Dovevo solo decidere quando fossi stata pronta per intraprendere il mio viaggio verso la fusione delle due anime, ma continuavo a rimandare quel momento per i mille timori che questa scelta mi suscitava. M’incamminai verso la piazza centrale di Lymphae e vi trovai, come al solito, giovani ninfe occupate a suonare i più svariati strumenti o ad enunciare con lascivia le poesie del loro popolo. Il profumo intenso dei cibi giunse fino a me dalle reali cucine che fornivano banchetti ogni giorno su quella stessa piazza che tra poco sarebbe stata invasa da lunghe tavolate colme di ogni bene.
“Non ti abbiamo vista per tutto il giorno.” Matteo si avvicinò a me con il suo solito sorriso rassicurante.
“Sto cercando di farmi coraggio.”
“E’ tempo che tu vada.”
“Lo so.” Non me n’ero ancora andata e già avevo nostalgia di quella terra perfetta e armoniosa.
“Questa sera andrò.”
Matteo mi abbracciò forte.
“Saprai cosa fare. Vedrai.”
Tornammo insieme verso il palazzo reale e mangiammo con Sanahis e le sue sorelle in un silenzio pesante di tristezza.
Quando giunse il momento, sembrava che nessuno volesse ammetterlo e accettarlo. Mio malgrado mi ero affezionata a quel modo di vivere, a Sanahis, a Matteo e non desideravo affatto conoscere l’angelo nero che con l’inganno si era insinuato dentro di me.
Abbracciai i miei due nuovi amici e focalizzai il luogo di potere chiudendo gli occhi ed inspirando profondamente. Dinnanzi a me comparve l’Abbazia di Staffarda con il suo piccolo menhir all’ingresso. Esattamente in quel punto si intrecciavano fluidi campi di energia e potere, già riconosciuti dai Celti e sul cui antico sito fu edificata l’Abbazia. Le aggraziate colonne binate di marmo bianco caratterizzavano le ali di quella costruzione che segnava il passaggio architettonico dal romanico al gotico. Mi sentii galleggiare, come sospesa tra il sonno e la veglia, quel particolare momento in cui la coscienza sembra evaporare per lasciare il posto alla pace di silenti pensieri.
Poteva essere passato un solo secondo o forse ore intere. Mi risvegliai accanto al blocco di pietra monolitico eretto per sottolineare la sacralità di quel luogo già in tempi remoti. Di fronte a me, l’Abbazia sonnecchiava rischiarata dalla luna piena. Mi alzai reggendomi a malapena in piedi. Le gambe erano intorpidite e la schiena doleva come se fossi rimasta in quella posizione scomoda per giorni interi. Rabbrividii e mi sfregai le braccia per riscaldami un poco. La stoffa della maglia aveva un ché di strano sotto i polpastrelli. Mi guardai le mani e ne compresi il motivo. La pelle era bianca e grinzosa come se fossi stata in acqua per molto tempo e in effetti era proprio ciò che avevo fatto senza neppure rendermene conto. Camminai in direzione dell’Abbazia e mi fermai ad ammirarne il portone principale da cui proveniva una debole luce incerta, come di candele. Non doveva essere certo aperta a quell’ora!
Mi avvicinai quasi in punta di piedi, temendo persino di fare rumore; respirando in quel silenzio quasi palpabile. Appoggiai il palmo della mano e spinsi piano il solido legno incorniciato dalle colonne arricchite da capitelli scolpiti. Rimasi senza fiato per lo spettacolo che mi si materializzò davanti. Non ero mai stata in quell’Abbazia, ma ne avevo sentito parlare. Costruita su rovine romane, a loro volta edificate su le più antiche celtiche e fondata dall’ordine dei monaci Cistercensi, era rinomata per la ricchezza di decorazioni e simboli esoterici come il loto ed il sole. Il primo di derivazione orientale mentre il secondo riportava alla mente il culto pagano del Sol Invictus.
Su ogni inginocchiatoio erano disposti tre moccoli consumati, ma ancora ghermiti dalle fiammelle giallo vivo. Mi guardai intorno, meravigliata dalla navata centrale che si ergeva su pilastri e terminava con splendide volte a crociera. La luce calda e un po’ tenebrosa delle candele danzava pigramente creando ombre inquietanti.
Segui l’ombra.
Trasalii nel sentire la voce di Sanahis che mi si insinuava tra i pensieri. Aveva ragione; non potevo starmene lì a fare la turista notturna. Dovevo cercare la scala!
Mi spostai verso la navata di sinistra con il suo susseguirsi di colonne sormontate da capitelli in granito di stile corinzio. Ecco l’ombra. In quel punto la luminosità delle candele era tenuta lontana da un gioco di ostacoli ed angoli e l’oscurità disegnava un perfetto arco sulla parete.
Posai le mani sul muro ed inspirai profondamente socchiudendo gli occhi.
Devi solo immaginare che non ci sia.
Di nuovo la voce di Sanahis che mi seguiva passo dopo passo in quella ricerca a suo modo terrificante. Seguii il suo consiglio. Immaginai che le mie mani non si poggiassero su nessuna superficie, ma che proseguissero oltre il vecchio muro. Sentii la fredda umidità di un luogo dimentico della luce del sole, lambirmi i polsi. Feci un passo avanti. Un altro. Un altro ancora. I piedi trovarono il vuoto e allora seppi di aver trovato la scala. Sempre con gli occhi socchiusi, guidata solo dall’immagine creata dalla mia mente, scesi i gradini scricchiolanti della scala a chiocciola mantenendo sempre le mani di fronte a me e cercando con esse di evitare gli ostacoli.
Scesi e scesi e toccai finalmente il suolo del sotterraneo. L’odore di polvere umida impregnava l’aria stantia e povera di ossigeno. Aprii gli occhi e rimasi senza fiato nel vedere gli antichi scaffali in legno scuro su cui si ammassavano centinaia di testi alchemici e magici, rischiarati da una fonte luminosa invisibile.
E’ quello più in alto alla tua destra.
Mi voltai e non potei non notarlo subito. Tra tutti, era il più grande e colorato. Mi arrampicai su di uno sgabello di legno intarsiato che generò mille lamentosi scricchiolii non appena vi posai un piede. Deglutendo a fatica, mi allungai e tirai verso di me il grande volume rilegato e pesante. Scesi tenendomi agli scaffali e lo riposi sul tavolaccio al centro della stanza.
Ora sai solo tu cosa devi cercare.
La voce di Sanahis scemò in un vago sussurro.
“Grazie.” Sospirai a bassa voce senza sperare che mi avesse sentita.
Aprii il libro e sfogliai le pagine ingiallite e spesse. Le sentivo ruvide e rigide sotto le dita ancora poco sensibili, ma questo non mi impedì di sentire la leggera scarica elettrica che rivelava la pagina giusta.
Era tempo di conoscere una parte di me e forse per la prima volta mi sentivo pronta a farlo. Lasciai il testo sul tavolo e feci qualche passo indietro, ipnotizzata dai bagliori luminosi che percorrevano le lettere stampate sulle pagine, come fossero luci al neon.
Presi fiato, chiusi gli occhi, allargai le braccia e le portai all’altezza dello stomaco. Inspirai e soffiai via l’aria. Di nuovo inspirai e soffiai via l’aria. Una sottile vibrazione attraversò il pavimento in terra battuta. Sentivo chiaramente le voci basse dei druidi che un tempo avevano trovato e riconosciuto quel luogo sacro. Le braccia formicolavano come tutto il resto del corpo. Mi lasciai ghermire da quelle dita invisibili cercando di concentrarmi sulla respirazione, lenta e profonda.
Ebbi la sensazione di cadere nel vuoto e frenai a stento l’istinto di portare avanti le braccia per proteggermi dalla caduta. Era come precipitare in una voragine senza fondo, sentivo persino l’aria sibilare attorno a me. Volevo solo gridare e tentare di fermare quella caduta, ma non potevo. Dovevo resistere. Ancora un solo momento e poi…
“Sono contento che tu mi abbia finalmente accettato.” Il tono era basso e vellutato.
Aprii gli occhi e sbattei più volte le palpebre per mettere a fuoco la figura che stava di fronte a me.
Vestito di un vetusto ed elegante abito nero che poteva essere adatto per un ballo importante nel medioevo, sostava appoggiato al tavolo e noncurante del mio stato d’ansia e dell’affaticamento che mi provocava forti giramenti di testa. Lo squadrai con i sentimenti che andavano dal furioso al curioso. Mi avvicinai e gli poggiai una mano sul petto, constatando che aveva la stessa consistenza di un corpo vivo e reale.
“Perché io?” gli chiesi.
“Fu il tuo avo a chiedermelo.” La sua risposta mi lasciò allibita. Il mio bisnonno aveva chiesto ad un angelo nero di portarmi a desiderare la morte per poi poter invadere il mio corpo?
“E perché avrebbe dovuto farmi una cosa del genere?”
“Per proteggerti.”
“In questo modo sono in pericolo, non protetta!” gridai iraconda.
“Sbagli. Sei una potente Purificatrice. Ti avrebbero cercata lo stesso. E ti avrebbero sconfitta. Loro sono uniti contro di te e tu eri sola. Saresti stata un grosso pericolo per loro se solo le forze oscure non si fossero alleate per porre fine alla tua vita. Io sono il tuo salvacondotto per la vita.”
Non volevo credere a quello che mi stava dicendo, ma una parte di me aveva già smesso di protestare.
“Che cosa succederà adesso?” domandai rassegnata.
“Che tornerò al calduccio, insieme alla tua anima e ti aiuterò a fare ciò che devi. Ora che mi hai risvegliato e che ho il tuo permesso, non accadrà più che una qualsiasi Fata Nera sopravviva ai nostri poteri. Non sai quanto avrei voluto poter intervenire e distruggere Nicnivin!”
Sospirai. Forse non sarebbe stato così male avere un alleato così potente e magari qualcuno con cui condividere certe esperienze.
“Starai sempre nascosto?”
“Solo se tu lo vorrai. Quando avrai desiderio di rivedermi non dovrai fare altro che pronunciare il mio nome. Devi solo ricordare che il mio nome non dovrai mai pronunciarlo davanti al popolo oscuro e soprattutto se si sta svolgendo un combattimento. Ti verrà istintivo chiamarmi, ma dovrai frenarti e ricordare che io sono te, vedo e sento tutto quello che fai. Non ho bisogno che mi chiami per essere presente.”
“Qual è il tuo nome?”
“Il mio nome è Willelm, l’angelo nero della Valle Maira”.
10/04/2008, Simona Gervasone