“Red Vinyle, non so perché, mi sta sui coglioni. Lo sai, caro e schifiltoso Red, quali sono i miei cantanti preferiti? Ricchi e Poveri, i Reitanos, i Vianella, i coniugi Al Bano, le sorelle Bertè, i Gibson Brothers, Franco IV e Franco I, la famiglia Partridge e potrei continuare all’infinito. Altro che Mars, Circle Jerks e Killing Joke (machissono?) […] Cheyne Stokes – Parma […] Che cazzo vuoi che me ne freghi di quali sono i tuoi cantanti preferiti? Sai dove puoi ficcarteli? Lo sai. Red Vinyle?”.
(“Frigidaire” n. 7, giugno 1981, pag. 578).
Nel 1983 venne pubblicato “Re/Search” #6/7, numero doppio del libro-rivista edito da Juno e Vale in cui si tentò un primo, sommario sguardo d’insieme del momento musicale posteriore ai movimenti rock, pop e punk degli anni ’60-’70. Gli artisti analizzati e intervistati furono: Throbbing Gristle, Mark Pauline, Cabaret Voltaire, Non, Monte Cazazza, Sordide Sentimental, SPK, Z’ev, Johanna Went e Rhythm & Noise; nomi che ai più, oggi, saranno sconosciuti per un motivo che ne decretò anche la scarsa commerciabilità: in formula un po’ forzata, il loro tentativo fu quello di tradurre in termini popolari le sonorità della musica classica contemporanea, tentativo che non si prestò a un successo neppure tardivo in termini di pubblico di massa. In fondo era facile prevederlo: da un lato a causa del fatto che ben pochi, anche fra i cultori della classica, ascoltano Webern o Berio, dall’altro perché – soprattutto a livello popolare – la capacità tecnica richiesta a un musicista fa tutt’uno con la sua abilità di riproduzione mimetica della vita come armonia o, nel rock più duro, disarmonia armonica, ma che riconosce pur sempre la legge inesorabile e catartica del refrain, dell’orecchiabilità – al limite distorta in chiave espressionistica alla maniera della Star Spangled Banner secondo Hendrix o di My Way interpretata da Sid Vicious (sull’intera questione, vale la pena di leggersi il breve e assai interessante saggio “Tonality and the Totality” di John Zerzan.
All’opposto sta invece il totale rifiuto d’ogni armonia della cosiddetta musica industriale di cui i gruppi citati sono alfieri, che genera forme tecnicamente incontrollabili per un fruitore medio, inconsciamente associabili al disfacimento, alla morte o quantomeno al raggiro (“Così so suonare anch’io!”) e quindi da rifiutare tanto in un caso quanto nell’altro. E tuttavia, il noise non è filosoficamente irrilevante poiché si pone il compito – in maniera più o meno consapevole – di eliminare a livello sonoro la principale dicotomia (bene/male, che qui diventa musica/rumore) sulla quale l’Occidente nei secoli precedenti costruì il proprio sistema di pensiero, sistema che oggi mostra la corda, anche se nessuno è pronto per trarne le conseguenze: questa incapacità appare chiara se si pensa che la completa abolizione della nozione di gusto proposta da Non e SPK (“per esempio, fare l’amore con una donna bellissima e farlo con una ritardata o una mongoloide”) va nella direzione esattamente opposta a quella odierna, tesa semmai ad accentuare la divaricazione cosmetica (non estetica) fra bello e brutto.
Nel 1998, la Shake pubblica una traduzione parziale dell’Industrial Culture Handbook (Manuale di cultura industriale, curato da Paolo Bandera e Luca Valtorta) con significativi aggiornamenti sotto il profilo degli artisti rappresentati e altrettanto significative esclusioni (dettate dalla volontà dei curatori americani); in sommario troviamo comunque: Throbbing Gristle, Psychic Tv, Cabaret Voltaire, Monte Cazazza, SPK, Z’ev, Clock Dva, Foetus, Test Department, Einsturzende Neubauten, Laibach, Coil, Current 93 e Nurse With Wound; non mancano infine note sulla scena italiana, giapponese e sull’hardcore techno. Un’esclusione inopportuna operata dalla Shake rispetto all’edizione originale è quella che riguarda le liste di libri e film importanti per gli artisti esaminati; proprio da essi, invece, è possibile comprendere per esempio l’influsso sotterraneo di un gruppo come i TG, e in particolare del suo leader Genesis P-Orridge: questi, come una sorta di uomo rinascimentale, propone una massa di testi – eterogenei, eppure non privi di una propria particolare organicità – nei quali può esser ritrovata l’origine di alcuni musicisti apparentabili in diversa misura ai TG, ma che a differenza dei Throbbing hanno esplorato una sola delle vie o delle tendenze indicate nelle fonti di P-Orridge: per l’occulto si può fare il nome dei Coil, per De Sade miscelato con serial killer e nazismo degli Whitehouse e dei Sutcliffe Jugend. Riferimenti come questi ultimi, fra l’altro, possono aver creato anche tutta una serie di ambiguità politiche lontane dalla volontà decisamente libertaria – anche se si tratta d’una libertà difficile e provocatoria – dei TG. Si potrebbe affermare che quello che hanno da dire risulti schiacciato da ciò per cui scandalizzano: e di ciò pagano le conseguenze nei termini di una – probabilmente voluta – impopolarità.
Per fare qualche esempio, il logo della Industrial Records, etichetta da loro fondata, è il forno crematorio di Auschwitz – cosa della quale nessuno si era accorto fino a quando Genesis non lo disse, mutando la percezione del consumatore, o meglio costringendolo a far caso con orrore a un elemento quasi invisibile (l’orrore serviva a fare in modo che il pubblico ricordasse subliminalmente per sempre l’importanza del subliminale). Come evoluzione dei TG nacquero gli Psychic TV, che, producendo un numero eccessivo di album, frustrarono con piena coscienza ogni inclinazione al collezionismo e dileggiarono insieme le lunghe attese per i nuovi pezzi centellinati dalle star. Qui, insomma, non ci troviamo tanto nel campo della musica, quanto semmai in quello di un’arte concettuale intesa come satira: d’altra parte, fin dalla fine degli anni ’60 Genesis fu performer e poi mail-artist assai pugnace e i TG ebbero sempre più interesse per la ricezione del messaggio che non per la sua produzione: la cosa spiega anche il voluto eclettismo del gruppo, il cui preciso scopo era quello di sorprendere costantemente l’ascoltatore.
Il tratto più caratteristico di Non (Boyd Rice) è una difesa oltranzistica della percezione ingenua e ignorante, se vogliamo anche naif, percezione utilizzata in positivo contro tutti i tipi di schemi mentali precostituiti; questi ultimi, infatti, proprio perché raffinati e basati su di un’acritica adesione a una idea razionalistica di intelligenza, non permettono di avere né una reale percezione dell’esperienza, spesso caoticamente opaca e priva di senso, né una reale constatazione di cosa davvero ci piace; da tali schemi, che non conoscono il semplice abbandonarsi alle cose, nasce anche l’incapacità di vivere senza speranza e senza disperazione, ma sempre e costantemente avendo l’assoluta necessità di una qualche fede, di un punto fermo (sia Dio o Satana). Ciò vale tanto in campo musicale (devo sapere cosa ascolto in un certo senso ancor prima di udirlo: il noise, invece, secondo un’idea già burroughsiana, suggerisce strutture laddove non ve ne è nessuna, sfruttando per così dire il riflesso condizionato alla produzione di senso dell’ascoltatore) quanto cinematografico (dove esistono film “brutti”, o piuttosto non catalogabili in modo tradizionale, ma Incredibly Strange che diventeranno l’oggetto di un celebre numero di “Re/Search” e quindi, oggi, moneta corrente come trash-movie).
L’arte di Mark Pauline è fatta di macchine che si distruggono e si autodistruggono, riproducendo a un livello di più intensa e canalizzata aggressività quel che faceva da ragazzo per puro divertimento, con la passione per la meccanica e soprattutto con quella per la devastazione di ciò che gli capitava a tiro; la lettura e soprattutto la riflessione hanno prodotto un artista a partire da un deviante, sia pure con la medesima “pessima attitudine”: per lui possiamo citare Gustav Metzger, fautore dell’arte distruttiva (1959) e più semplicemente i fuochi artificiali, per i quali ciò che Pauline dice del suo lavoro calza a pennello: “Impiego mesi e mesi a costruire questo armamentario e faccio uno show che dura solo 10 minuti” – il che, a ben vedere, è metafora assoluta di ogni vita umana – tutta un’esistenza per niente. Per morire. (In consonanza con questa riflessione è interessante notare che gli SPK dichiararono che avrebbero voluto inserire capsule di sperma nel loro primo album, ma di esser stati dissuasi dal farlo perché nel giro di qualche ora si sarebbe dissolto). Nel selvaggio teatro di Pauline – in cui, come si sarà compreso, la sonorità è solo uno dei tanti elementi – si possono osservare anche riferimenti, per quanto impliciti e sui generis, alla teoria della supermarionetta di Gordon Craig, evidente nell’uso esclusivo di macchine suicide piuttosto che di performer, e i suoi rapporti con il collage alla Heartfield, come nel sorridente manifesto “Feel the Velvet, baby” che, distorto nella figura e nel messaggio, diventa: “Feel the Pain, baby”.
La preoccupazione pressoché costante di ogni artista compreso in Industrial Culture Handbook resta comunque l’aspetto subliminale della comunicazione sia per la produzione musicale canonica, dove i Sordide Sentimental e i Current 93 si propongono di non utilizzare mezzi logici, bensì in gran parte subcoscienti, che per quanto riguarda la colonna sonora, intesa da Z’ev come reticolo allargato a tutti gli effetti e al dialogo di un qualunque film. Su questo aspetto i Rhythm & Noise propongono le riflessioni più raffinate, che appaiono anche un programma di lotta: “Devi capire che la TV commerciale non è pubblicità 6 minuti in un’ora, è pubblicità 24 ore al giorno. È pubblicità di stili di vita, è pubblicità di atteggiamenti sociali, è pubblicità di modelli comportamentali; è il rinforzo di determinate maniere di comportarsi che diventano per lo spettatore la maniera giusta di essere. E così essa crea quei modelli di comportamento e li rinforza su base quotidiana […] Questa è la programmazione subliminale, ma penetrare realmente dentro la tua stessa mente è compito molto più difficile, specialmente se la maggior parte del tuo tempo è occupato a reagire a questa condizionante e superficiale programmazione – idee superficiali da cui sei bombardato su una base quotidiana”.
Esempio (un po’ lungo, ma è necessario): prendiamo Non aprite quell’armadio, un innocuo film più comico che horror-fantascientifico di Bob Dahlin. A San Francisco diverse persone vengono trovate uccise nei propri armadi, a cominciare da un cieco alla ricerca del proprio cane che fa di tutto per non farsi trovare. Una giornalista e il suo amico scienziato decidono di unire i loro sforzi per svelare il mistero degli omicidi; la donna è palesemente attratta dello scienziato, cosa evidente ogni volta in cui lui si toglie gli occhiali: in quei momenti, infatti, lei cade in una sorta di deliquio amoroso. Il mistero delle morti viene presto svelato: l’assassino è un mostro extraterrestre che si nasconde negli armadi delle sue vittime. I crimini però non cessano e il panico s’impadronisce della città; viene fatto intervenire l’esercito, che tuttavia non riesce a sconfiggere l’alieno con le armi tradizionali. I due protagonisti stanno per essere uccisi da lui quando involontariamente il giornalista si toglie gli occhiali e scopre che anch’esso subisce il suo fascino. Dopo lo scampato pericolo, la reporter e lo scienziato riescono a seguirlo e a rendersi conto del suo punto debole: per vivere e consumare i propri delitti ha la necessità di nascondersi negli armadi. La ricetta per liberarsene, quindi, è trovata: basterà distruggere tutti i guardaroba del mondo e anche il mostro morirà poiché non saprà più dove rifugiarsi. L’ordine di distruggerli viene dato su scala planetaria (persino un samurai fa a pezzi con la katana il proprio ripostiglio) ed egli puntualmente soccombe.
Ma che c’entra questo film con le riflessioni dei Rhythm and Noise? Se i nostri mostri personali – i nostri scheletri – sono rinchiusi negli armadi, eliminando questi ultimi verranno distrutti anche i primi. In effetti, la creatura, non trovando più un luogo in cui nascondersi morirà per strada. “Avere uno scheletro nell’armadio” è un modo di dire in cui ciascuno di noi può agevolmente ritrovare le proprie paure, i propri rimorsi, i propri peccati inconfessati ecc. Il significato, in questo caso, sarebbe dunque: liberandovi di essi, vi libererete anche da ciò che contengono. Letteralmente (assunto magico) e simbolicamente (assunto psicanalitico). Altro significato, più inquietante del primo e più difficile da scovare perché avvolto da una banana umoristica sulla quale la nostra perspicacia può facilmente scivolare: sia la reporter che il mostro cadono in deliquio amoroso ogni volta che lo scienziato si toglie gli occhiali; se donna e alieno subiscono la stessa fascinazione nei confronti del protagonista, questo significa certo che l’alieno è femmina (o in seconda battuta omosessuale), ma – per la proprietà transitiva – anche che sotto certi aspetti la donna è mostruosa. Interpretata così, la storia sarebbe un esempio di misoginia (od omofobia) subliminale. Seguendo questa strada e tornando agli acuti ragionamenti dei Rhythm & Noise, potremo concludere che la lotta contro la colonizzazione della nostra mente da parte di suggestioni di cui non siamo consapevoli, in certi casi consisterebbe nel destrutturare per due volte quanto i messaggi estetici, pubblicitari, politici, ecc. insinuano surrettiziamente dentro di noi: la prima volta a livello di cultura superficiale più o meno raffinata, utile per lusingare la nostra intelligenza e indurla a fermarsi pigramente al livello più basso – in questo caso i richiami metaforici ai nodi psicanalitico-esistenziali grazie ai quali ciascuno può perdersi nei propri “abissi” biografici dimenticandosi del resto, tutto preso com’è a meditare quanto il mancato superamento del rimosso uccida; la seconda – ben più importante – a livello di schemi logici fondamentali in base ai quali funziona la nostra mente (la proprietà transitiva, per esempio) utilizzati per produrre ideologia (in questo caso la misoginia o l’omofobia subliminale), non importa se in maniera consapevole o meno, da operatori esterni.
Eppure… eppure, con perfetta incoerenza rispetto a quanto elucubrato finora, eccomi ascoltare Che sarà interpretata da Josè Feliciano a Sanremo nel 1970, quando avevo tredici anni: la verità è che mi piaceva allora, e mi piace anche di più adesso, dopo una vita in mezzo. “Gli amici miei son quasi tutti via / e gli altri partiranno dopo me. / Peccato perché stavo bene in loro compagnia, / ma tutto passa, tutto se ne va”: i ragazzi che conoscevo, me incluso, se ne sono andati dalla loro cittadina alla lettera, per lavoro, o metaforicamente – sono morti. La metafora più letterale. “Amore mio, ti bacio sulla bocca / che fu la fonte del mio primo amore / Ti do l’appuntamento dove e quando non lo so, / ma so soltanto che ritornerò”: e via con l’amore aurorale che non si scorda mai… un altro dei più triti luoghi comuni. Ma niente è potente quanto la biografia nascosta in essi: come diceva Proust, “il pessimo ritornello che qualsiasi orecchio fine ed educato rifiuterebbe di ascoltare, ha ricevuto il tesoro di migliaia d’anime di cui fu l’ispirazione, la consolazione sempre pronta”; una pessima canzone usata “per aver troppo servito, deve commuoverci come un cimitero o come un villaggio. Che importa se le case non hanno stile, se le tombe scompaiono sotto le iscrizioni e gli ornamenti di pessimo gusto. Da quella polvere può alzarsi, per un’immaginazione abbastanza rispettosa da lasciar tacere un momento i suoi disdegni estetici, la nuvola delle anime con ancora in bocca il verde sogno che faceva loro intuire l’altro mondo e godere o piangere di questo.” A tali anime, se vogliamo, almeno per un momento possiamo sentirci religiosamente uniti nel solo modo consentitoci, regredendo a un livello che non ci appartiene: le loro semplicistiche armonie hanno tutti i torti dell’antropocentrismo, ma quanto vorremmo invece che avessero ragione, che i buoni venissero premiati e i malvagi puniti, se non in questa vita almeno nell’altra! Quanto vorremmo scomparire inghiottiti dai nostri simili! Essere a loro omogenei. “Mangiate merda, dieci milioni di mosche non possono sbagliare”. Brusco risveglio, è soltanto un sogno al quale non riusciamo a credere, non possiamo far torto alla nostra esperienza e alla nostra intelligenza. Talvolta, tuttavia, si arriva alla fragile perfezione in cui biografia e intelletto incredibilmente combaciano: per esempio, a me accade ascoltando quel frammento noto come “Parlami” tratto dal Manfredi di Byron recitato-cantato da Carmelo Bene (https://www.youtube.com/watch?v=E6vTjA_D4vo), in cui a una sorella morta che non ho mai avuto si sostituisce, evocato dagli spiriti, il fantasma di mia madre. Ma è un caso. O una passione privata.