I MYSTERI DELL’EROS 03: L’EROS ALL’OMBRA DEL COLOSSEO E DEL VESUVIO…

Pompei. 24 agosto dell’anno 79 d.C. Poco dopo mezzogiorno…

Una minacciosa, terribile nuvola nera di fumo “…il cui aspetto e forma nessun albero può rappresentare meglio di un pino…” – come ricordò Plinio il Giovane nel descrivere la tragica morte dell’omonimo zio – fu il segnale che mise definitivamente fine alla splendida città fondata nell’VIII secolo a.C. dalla “gens pompeiana”, dagli Oschi.

Qualche tragica anticipazione di quella tremenda e definitiva tragedia c’era stata qualche tempo prima, nell’anno 62, quando un terremoto aveva ridotto la città ad un cumulo di macerie, ma la tenacia e l’operosità degli abitanti degli abitanti di Pompei avevano avuto ragione delle “malefiche”… divinità ctonie che avevano scatenato il tremendo sisma.

Quel tragico 24 agosto – ma per i naturalisti tutto avvenne il 24 novembre… – miriadi di lapilli incandescenti e di cenere si riversarono sui tetti della città, sulle splendide costruzioni, sugli ignari abitanti: nel buio quasi assoluto, tra fulmini scatenatisi in seguito ad un improvviso e violentissimo temporale, respirando a fatica in un’aria densa di gas tossici i pochissimi superstiti cercarono scampo verso Stabia e Nocera.

Invano: dopo tre giorni ogni traccia di civiltà, ogni forma di vita era definitivamente scomparsa. E con esse anche ogni manifestazione della gioia di vivere di quegli antichi nostri progenitori.

E sì, perché tutti i piaceri dell’esistenza, la musica, la buona tavola e ciò che dà continuità alla vita e tra mille altre cose la rende degna di essere vissuta – l’amore – allietavano ogni giorno le ore di quegli antichi abitanti della romana Pompei.

Un po’ ovunque nella Roma all’ombra del Colosseo, ma soprattutto a Pompei, era esercitato il meretricio, illustrato in molti affreschi rimasti praticamente integri.

In area romana, le “lupe” – ovvero le meretrices o postribulae – tutto sommato svolgevano anche una loro specifica funzione sociale, dato che erano tutelate dallo Stato, partecipavano ad una processione sacra e avevano addirittura la loro “patrona” rappresentata da Venere Ericina, venerata fin dal II secolo a.C. in un tempio edificato per le adultere.

In alto, Nihil sub sole novum. A Pompei come a Roma l’arte del meretricio imponeva di ricorrere a sforzi di fantasia per soddisfare i clienti. Anche utilizzando i cosiddetti Spintria, gettoni di bronzo usati dai romani per il pagamento nei postriboli. Con esplicite raffigurazioni del… programma.

Altri Spintria che suggerivano all’acquirente alcune possibilità di svago…

A Roma, ad esempio, si potevano incontrare le ambulatrices – o passeggiatrici, poichè, ancora una volta, Nihil sub sole novum! – oppure, a notte fonda, le noctilucae – ai giorni nostri chiamate… lucciole – o ancora le bustuariae che svolgevano la loro “missione sociale” nei pressi dei cimiteri o, infine, le diobolariae che rappresentavano il più basso gradino della categoria.

Le due Veneri

Sarà bene ricordare però come la Venere “primigenia”, la Venere madre di Enea, la Venere “madre” di tutto il popolo romano, era una Venere ben lontana dall’aura “erotica” attribuitale in epoche successive.

Furono le Guerre Puniche a diffondere il suo culto in area romana, in particolare furono attribuite alla protezione di una Venere profana, venerata in Sicilia, a Erice – da qui l’attributo di Ericina – alcune vittorie contro i Cartaginesi.

Solo durante la Seconda Guerra Punica (212 – 202 a.C.) – quando le sorti volsero a svantaggio della città Caput Mundi – si decise di portare a Roma, per propiziarsela, la sua statua e il suo culto. Ma poiché in Sicilia il culto di Venere aveva assunto caratteristiche “orientali” legate alla prostituzione sacra, quest’aura di particolare “mercificazione” del sesso si trasferì a Roma insieme al culto dedicata alla dea stessa.

Per ristabilire, in un certo senso, l’equilibrio si pensò addirittura di contrapporle una Venere molto più casta, la Venus Verticordia, e una fanciulla romana, tal Sulpicia, vinse il referendum indetto per consacrare la statua dedicatale.

Come era prevedibile, la Venere dedicata ai piaceri terreni, alla voluttà, all’amore fisico prese il sopravvento e divenne ben presto simbolo di fecondità, di gioia, di vita.

Non mancarono però atteggiamenti che oggi definiremmo “bacchettoni”, dato che i lupanaria dovevano essere aperti solo di sera e collocatisub moenia – fuori le mura della città – per… ridurre lo scandalo!

Inoltre, le prostitute di professione non potevano conservare il nome di famiglia, cosa questa che agevolò – come ci riferisce Giovenale che di queste cose si intendeva… – le periodiche “distrazioni” di tal Lyscia, forse nome d’arte della ben più nota Messalina!

Per farsi riconoscere – ma ce n’era bisogno? – le prostitute indossavano inoltre una veste particolare e non potevano portare sui capelli le bende comunemente usate dalle matrone romane.

Naturalmente si pensò subito a tassarle e il tristemente noto Caio Cesare Germanico, detto Caligola ( 37 – 41 d.C.), dette subito il “buon” esempio! Forse ispirandosi a ciò che già aveva fatto Solone, nella Grecia del VI secolo a.C. mediante una legge che responsabilizzava le tenutarie dei postriboli e le incaricava di riscuotere le imposte statali da devolvere alla costruzione del tempio dedicato ad Afrodite Pandemos.

Afrodite Pandemos, la dea della piaceri sensuali, rappresentata spesso a cavallo di un ariete.

D’altra parte, la ierodulia – la prostituzione sacra – era da secoli pratica abituale in area mediorientale, in culture ove il re, almeno una volta all’anno, si univa alla sacerdotessa preposta ai riti di fertilità della terra.

Anche in aree geografiche a noi più vicine, a Corinto ad esempio, esisteva un santuario dedicato ad Afrodite, “frequentato” da circa mille prostitute sacre che fungevano da veri e propri ex voto viventi, dato che venivano offerte alla dea da parte dei fedeli!

Sarà un caso, ma anche se non a Roma – a Paestum – un lupanare è stato rinvenuto annesso ad un tempio dedicato alla dea dell’Amore…

Un baccanale dipinto da Pieter Paul Rubens (1577 – 1640) e conservato a Firenze presso la Galleria degli Uffizi.

Ben prima del tragico evento del 79 d.C., a Roma, si svolgevano comunque tre volte all’anno i “baccanali” in onore del dio greco Bacco, riti che ben presto sfociarono in vere e proprie orge da ripetersi cinque volte al mese fino alla loro proibizione avvenuta agli inizi del II secolo a.C.

Ma torniamo “all’ombra del Vesuvio”.

I “Lupanaria” di Pompei

A Pompei – a parte il vero e proprio lupanare nel quale… entreremo tra poco – vale la pena di ammirare, lungo la Via dell’Abbondanza, la cosiddetta Casa dei casti amanti. In essa si veniva accolti da un’iscrizione che ricordava come “…gli innamorati, al pari delle api, desiderano la vita dolce come il miele”.

“…gli innamorati, al pari delle api, desiderano la vita dolce come il miele”. Pompei, “Casa dei casti amanti”.

Di modeste proporzioni, rappresenta invece un piccolo gioiello architettonico, dotato di un doppio loggiato che racchiude uno splendido peristilio, mentre nell’atrio è possibile ammirare ancora riquadri e medaglioni affreschi realizzati con mirabile tecnica pittorica. Tra essi spicca proprio un bel dipinto che – insieme alla citata iscrizione – dà il nome alla casa.

E come mancare all’appuntamento con il Priapo del I secolo a.C., raffigurato proprio all’ingresso della Casa dei Vettii? Priapo che genera nei visitatori inevitabili… complessi d’inferiorità!

Per non riportare in questo articolo il Priapo più noto, di Pompei, raffigurato in un nostro precedente articolo, diamo qui ospitalità ad un altro Priapo di un affresco datato tra il 50 e il 70 d.C. e conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Ma, come promesso, entriamo ora nel vero tempio profano dell’amore fisico: in uno dei lupanaria.

Situato nella cosiddetta Regione VII, ad est del Foro e davanti al cosiddetto Albergo di Sittio, si presenta come un edificio di due piani, caratterizzato da una “sala d’attesa”, da una latrina e da una serie di cubicula – o cellae meretriciae – cioè stanzette alquanto lugubri, munite di poco confortevoli letti in pietra ove si consumavano le “specialità” raffigurate in affreschi riportati sulle pareti. Affreschi che nulla lasciano all’immaginazione!

Negli affreschi pompeiani sembra sia raffigurato una sorta di kamasutra all’ombra del Vesuvio!

Meno note dei lupanaria, sono invece le “Terme suburbane di Pompei”, collocate appena fuori delle mura cittadine.

Scoperte a metà degli anni ’80 del secolo appena trascorso dall’archeologa Luciana Jacobelli mostrano al visitatore una serie di splendidi affreschi di carattere erotico che nulla hanno da invidiare a quelli già noti. Già nello “spogliatoio” appaiono otto scene erotiche in corrispondenza di altrettanti “cassetti” di legno in cui i clienti delle Terme ponevano i loro vestiti.

Ma allora è tutto chiaro. I clienti delle Terme Pompeiane – tra una sosta al Calidarium e una al Frigidarium – trovavano anche il tempo di rilassarsi trascorrendo qualche minuto in un lussuoso lupanare!

La presenza di scene erotiche riferentisi a particolari “prestazioni” – dal cunnilinctus all’amore saffico – farebbero proprio… pensar male, ma è la stessa archeologa che ha scavato il sito a farci tornare sulla “retta via”.

Pompei. Raffigurazioni erotiche molto più “castigate” delle precedenti, forse contrassegni degli “spogliatoi” di chi si recava alle Terme.

Innanzitutto, ci fa notare la Jacobelli, non ci sono i cubicula necessari all’esercizio delle “funzioni” delle “professioniste” che avrebbero potuto essere lì ingaggiate.

Poi, l’intera struttura fa pensare soprattutto ad una sorta di spogliatoio – nulla di più – in cui le scene erotiche potevano servire unicamente come contrassegno delle scatole di legno in cui venivano riposti gli abiti dei vari clienti delle Terme.

Nel comporre le scene, forse ci si ispirò ad una sorta di kamasutra locale suggerito da serie “professioniste”, come la ben nota – all’epoca! – Astyanassa e sue “discepole”, quali le cortigiane note come PhilenisElephantis.

Inoltre, ad avallare questa ragionevole ipotesi, è bene ricordare che in altri contesti archeologici di aree limitrofe sono state rinvenuti particolari “gettoni” metallici – denominati spintriae – presentanti su una faccia un numero e sull’altra delle figure erotiche molto simili a quelle raffigurate nelle Terme extraurbane di Pompei.

Forse, ipotizza ancora la Jacovelli, le spintriae non erano delle “tessere” d’ingresso ai vari postriboli di “bassa lega” ma appartenevano ad un gioco in cui il sesso – nella sua interpretazione più gioiosa – aveva sì un ruolo centrale ma rappresentava anche un mezzo con cui donne emancipate, appartenenti a quella che oggi definiremmo “media borghesia” – certamente non meretrici da lupanare! – partecipavano alla vita di una società abbastanza “licenziosa” e non rispondente ad una distorta visione che di essa ci è stata tramandata in alcuni libri di storia.

Insomma, non una società… “vittoriana” ma propensa a celebrare in modo più “solare” – nei luoghi adatti, e le Terme Pompeiane forse lo erano… –  le gioie dell’amore fisico.

Forse con la stessa ironia con cui Caio Giulio Cesare – il grande Cesare che aveva conquistato la Gallia – veniva definito “il marito di tutte le mogli e la “moglie” di tutti i mariti…”, o, per dirla con le più esplicite parole dei soldati che a Cesare ubbidivano, “Caesar Gallia subegit, Nicomedes Caesarem”.

La cui traduzione – “Cesare ha sottomesso la Gallia, Nicomede ha sottomesso Cesare” – rende bene l’idea delle preferenze amatorie di chi terminò tragicamente la propria esistenza terrena alle Idi di Marzo del 44.a.C.

Le “oscenità” del Gabinetto Segreto

Ma proseguiamo nella nostra ricerca delle tracce dell’eros… vesuviano.

Le settecentesche scoperte archeologiche nelle aree di Pompei ed Ercolano, in particolare il rinvenimento di affreschi e reperti a dir poco “osé” contribuirono in maniera rilevante ad osservare in una nuova ottica il mondo romano, il cui Impero era fino ad allora considerato come modello etico dei vari regni del tempo.

Uno degli aspetti più importanti dell’esistenza umana – l’amore fisico – vi veniva esibito, come abbiamo fin qui visto, senza alcun pudore, cosa questa che sconcertò inizialmente l’intellighenzia del tempo, con la lodevole eccezione di quella sua parte dotata di mentalità più aperta, mentre la corte borbonica provvedeva ad una sorta di repentina censura anche a causa dell’immagine “negativa” che i viaggiatori del tempo fornivano – dopo la inevitabile visita agli affreschi pompeiani – degli usi e costumi non della società di una Roma repubblicana o imperiale ma del… Regno di Napoli!

Si arrivò addirittura a rinchiudere nell’armadio del restauratore Canart l’opera intitolata Pan e la capra e per visitare la sala XVIII del Museo Reale di Portici, in cui venivano conservati vari reperti “priapici”, era necessario un permesso speciale.

Ne scaturì – ovviamente! – un’immagine distorta dell’antica Pompei ritenuta “…dedita alla più sordida impudicizia, per cui da Dio meritò, come Sodoma, il castigo del fuoco…”.

Nel 1819, il futuro re Francesco I visitò il Reale Museo Borbonico – malauguratamente insieme alla moglie Maria Isabella e alla figlia Luisa Carlotta – uscendo… sconvolto dalla stanza dedicata al priapismo e suggerì  che “…sarebbe stata cosa ben fatta il chiudere tutti gli oggetti osceni, di qualunque materia essi fossero, in una stanza alla quale avessero poi unicamente ingresso le persone di matura età e di conosciuta morale…”.

Pan e la capra, forse il pezzo più ammirato del Gabinetto segreto del Museo Archeologico di Napoli.

Nel 1821 fu addirittura istituito ufficialmente il Gabinetto degli oggetti osceni riservato agli “…infami monumenti della gentilesca licenza…”.

La rivoluzione del 1848 e ancor più la spedizione garibaldina del 1860 ebbero tra infiniti altri obiettivi “libertari” anche quello di dare a chiunque la possibilità di ammirare senza particolari permessi i vari aspetti della sessualità antica conservati nel Gabinetto degli oggetti osceni, giudicato – così com’era concepito – come simbolo dell’arretratezza culturale del Regno borbonico.

Ma cosa mai conteneva – e contiene – tale… esecrando Gabinetto?

Non c’è che l’imbarazzo della scelta!

Si va da un’anfora prodotta a Capua, a figure nere, rappresentante un’unione omosessuale ad un piatto attico a figure rosse con un uomo che penetra a tergo una donna. Poi, si possono ammirare vari splendidi cammei con scene erotiche, realizzati in agata sardonica e si può successivamente passare al meraviglioso gruppo marmoreo di Pan e Dafni (Sala 62), per finire – si fa per dire, perché di reperti interessantissimi ce ne sono in abbondanza! – con un curioso rilievo in travertino, proveniente dal panificio nell’insula della Casa di Pansa, raffigurante un fallo in rilievo e la significativa scritta “Hic habitat felicitas” che, ne siamo certi, non ha bisogno di traduzione!

Insomma, un significativo, istruttivo viaggio che ai lettori de La Zona Morta suggerirei di fare se – ovviamente per caso! – dovessero trovarsi a passare dalle parti del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Roberto Volterri


In questo libro di Roberto Volterri, pubblicato dalle Edizioni Eremon, che l’Autore ha voluto intitolare “Biologia dell’Impossibile” – quasi una sorta di spin-off del fortunatissimo “Archeologia dell’Impossibile” – l’aspetto della Biologia che più interessa, oltre ad alcuni strani temi legati alla dimensione del sacro, è la Teratologia, ovvero lo studio delle molteplici anomalie morfologiche che riguardano, in particolare, l’ostetricia, l’anatomia patologica e alcuni campi della zoologia e della botanica. Scoprirete, inoltre, creature assassine, forse affette da Licantropia; leggerete di alcuni sventurati individui colpiti da impensabili e mostruose patologie, di incredibili anatre vegetali e di agnelli che nascono sugli alberi… In conclusione, non è certamente intenzione dell’Autore di questo libro sostenere il pensiero di Francisco Goya, ovvero che “il sonno della ragione genera mostri”, in quanto, ciò che anima le pagine che leggerete non è il sonno ma il desiderio di dar vita all’innata curiosità umana verso la ragione, verso gli infiniti, e a volte stranissimi, aspetti della Conoscenza.