LA FANTASCIENZA VISTA DA UN HOBBIT – PARTE 01

Grazie al nostro amico Giovanni Mongini, vi presentiamo una serie di articoli molto particolari: si tratta della testimonianza storica di una (allora) ragazzina di circa dieci anni sulla nascita dei primi club di fantascienza e di quello che diventerà poi il Premio Italia, scritti da Elisabetta Marchi (la ragazzina di cui sopra), oggi ultra 50enne e figlia di Eugenio Marchi, uno dei promotori di quelle meravigliose, coraggiose e intraprendenti iniziative.

Prima di darle la parola, per chi non la conoscesse, Elisabetta Marchi è nata e vive a Ferrara. Pedagogista, scrittrice e saggista, vice-presidente dell’Associazione Italiana Studi Tolkeniani, collabora con la rivista “Endóre” con cui ha pubblicato i saggi “Bilbo Baggins e la Contea: una carriera deviante”, “La cura e l’armonia in J.R.R. Tolkien” e “Ildegarda di Bingen”. Per le scuole invece ha dato alle stampe: “C’è un Hobbit a Pontelagoscuro” e “J.R.R. Tolkien, autore del secolo”.

Davide Longoni

La fantascienza vista da un hobbit

Gli anni ’70, se li guardi con gli occhi del presente, sembrano un universo parallelo in cui per entrare serve molta fantasia e molta ne serviva per viverci. Immaginate un mondo fondato sulla carta: enciclopedie di carta, lettere di carta, riviste di carta. Questo materiale richiede tempo e pazienza, sia che tu lo usi in forma attiva o passiva, ad esempio tempo per scrivere una lettera e pazienza nell’aspettare una risposta. Immaginate gli esseri umani scollegati da qualsiasi cosa non fosse a portata di mano, rinchiusi in viaggi solitari in cui le distanze si annullavano solo col telefono, avendo il tempo di sfogliare un immenso libro, di carta, per ricercare il numero, e la pazienza di aspettare che la rotella tornasse al punto di partenza. In questo universo in cui le categorie dello spazio e del tempo sono dilatate e ingombranti nasceva la fantascienza italiana. Per puro caso mi sono ritrovata a bordo di un’astronave spinta verso mondi lontani. Questi sono i viaggi di cui vorrei raccontarvi, visti con gli occhi di un hobbit, la creatura più improbabile a cui affidare il testimone della memoria: una bambina. Io sono Elisabetta Marchi, e mio padre era Eugenio.

Gli inizi

Ferrara era una città di provincia, più simile a un grande paese che a una metropoli tanto che era assolutamente impossibile passare dalla piazza principale senza salutare qualcuno. In questo pezzetto di mondo antico mio padre era conosciuto come una persona eccentrica, il che non andava a suo favore, devota alla fantasia più che alla ragione. Spiegare il suo lavoro ai compagni di scuola era già un’impresa: Responsabile Centro Meccanografico di una ditta ferrarese. A quei tempi la cosa più vicina al computer era una vasta sala zeppa di macchine grandi quanto quelle di Spazio 1999 che, rumorose quanto una fabbrica, lavoravano tante piccole schede di carta con buchi disposti ad arte, o almeno così mi sembrava. L’altra dubbia qualità che lo contraddistingueva era l’amore per la lettura. Se l’esercizio del leggere era di per sé una pratica discutibile, l’argomento di questa attività era del tutto inaccettabile. La fantascienza non era considerata letteratura, neanche come produzione legata all’infanzia. La reazione che ho sentito più spesso quando azzardava una conversazione era un rassegnato “Ah, sì. Mostri e donne svestite.” In questo clima freddo e limitato come Plutone un trio di pazzi visionari avrebbe dato vita al club “Altair 4” e allo “SFIR”, creando le prime convention italiane di fantascienza e portando scompiglio in quella che voleva rimanere una piccola, tranquilla città di provincia. Su quest’astronave, in plancia, in ordine rigorosamente alfabetico: Andrea Boicelli, Eugenio Marchi, Giovanni Mongini. Se del secondo si sa poco e del primo quasi nulla, il terzo nome è rimasto come un faro nel mare italiano. Ed è proprio da questa torre luminosa che, ricordo bene, tutto ebbe inizio.

Tre passi nell’ignoto

Una sera d’inverno mio padre, mia madre ed io (triade questa che si ripeterà per tutta la mia infanzia e adolescenza) uscimmo di casa per andare a un club. In un mondo che non aveva ancora importato i fast-food e le birrerie, i ritrovi serali si limitavano a bar fumosi in cui si giocava a carte e a cinema fumosi in cui gli spaghetti western facevano a pugni con gli Aristogatti. La foschia era una costante di quell’universo parallelo in cui anche i mostri fumavano. Ricordo con affetto il figlio di Godzilla che nella nebbia della sala lanciava cerchi di fumo e chiamava il padre, anche se della trama non saprei dire altro. Quella sera niente cinema, a cui mi portavano spesso, quella sera si andava a un club di fantascienza! Di questo luogo ignoto ricordo una stanza piccola con in bellavista il modellino di Godzilla e un meraviglioso plastico lunare. In un mondo in cui i bambini non erano ancora un target o una categoria da difendere, la presenza di uno di loro nell’universo degli adulti era spesso vista con sospetto o insofferenza. Giovanni Mongini all’anagrafe, Vanni per il resto del mondo, mi accolse semplicemente, senza fare né l’uno né l’altro, e mi lasciò giocare col plastico. Così, mentre gli adulti parlavano (e fumavano) per ore e ore, io passai il tempo a muovere quel piccolo veicolo lunare avanti e indietro sulle dune. Lo feci così tante volte che tutt’ora i parcheggi difficili in auto sono il mio punto di forza. Quello che non sapevo, persa nel gioco, è che si stavano lanciando le basi per la creazione del club “Altair 4”, la realtà che avrebbe accolto al suo interno i più grandi nomi degli scrittori e degli editori della fantascienza.

Altair 4

La memoria, che per dono e dannazione è parte fondante della mia identità, lavora a modo suo, regalandomi piccole perle antiche, dettagliate e vivide, racchiuse in vaste e ombrose conchiglie imperscrutabili. Non è mai lineare il tempo, neanche quello ricordato. Riesce a compiere salti nell’iperspazio mnemonico ed è solo nel momento in cui torni alla realtà che ti accorgi di quanti pianeti hai tralasciato, di quanti avresti dovuto fare menzione. A questo punto dovrei raccontarvi delle rassegne cinematografiche, che arrivarono per prime, ma continuerò a parlarvi del club. Della creazione di “Altair 4” ricordo i discorsi di mio padre sulle esigenze di uno spazio più grande per accogliere gente da tutta Italia. In un mondo che disprezzava la fantascienza come letteratura di genere, e in una città che non vedeva di buon occhio la letteratura in generale, si voleva creare un buco nero capace di attrarre i singoli viaggiatori che stavano sparsi e silenziosi per lo Stivale. Sulla ragione prevalse la fantasia e la speranza nata con la rassegna dei film di fantascienza. Non piccole stanze per appassionati competenti, ma ampie sale per fare proseliti, per avvicinare curiosi e convertirli in neofiti devoti. La ricerca di un ambiente idoneo agli obiettivi che doveva sostenere non fu breve, ma alla fine ricordo di essere entrata in questo grande magazzino polveroso, chiuso da una grande porta a vetri e una saracinesca cigolante, con la meraviglia e la determinazione del primo esploratore che deve terraformare un pianeta inospitale. Dalla soglia lo sguardo arrivava fino all’alto soffitto e si perdeva all’inizio di camere buie sparse sui lati e sul fondo, mentre lo stretto ballatoio abbracciava tutto lo spazio, interrotto solo da un’ampia e lunga scala centrale di ferro. Ricordo di averla percorsa a balzi, spinta verso l’ignoto che mi chiamava dagli anfratti, unica a non dover abbassare la testa sotto quei vani comunicanti odorosi di vecchio. Il locale si trovava in centro, vicino alla piazza principale, addossato a un vecchio cinema, il Rivoli, quando ancora le sale da proiezione erano sparse per tutta la città. “E’ un po’ da sistemare” gli avevano detto, in realtà servì la volontà di molti e il tempo di tutti per renderlo accogliente, ma freddo. La temperatura non sarebbe mai cambiata, visto che non aveva il riscaldamento, e solo la passione dei cuori e una piccola stufetta portata al limite delle sue possibilità avrebbe consentito a tanta gente di entrarvi felice, a guardare un film o a leggere un libro. Squadre di persone lo tinteggiarono di bianco e dipinsero le colonne che reggevano il ballatoio e la scala di un terribile colore aragosta, lo stesso delle fila di poltroncine che sparse sulla galleria accoglievano i visitatori per le prime proiezioni. La macchina da presa fu messa nella stanza dal soffitto più basso, creando una finestrella che dava sull’ambiente più grande. Al proprietario non fu mai chiesto alcun parere sulla modifica, si preferì seguire uno dei motti di mio padre: “Se possono risponderti di no, non chiedere”. Chiunque di voi abbia partecipato ad una proiezione privata non può non ricordarsi quel rumore profondo che accompagnava tutto il film, quel suono che all’inizio, ancora prima delle immagini, ti faceva presagire la grande avventura che avresti condiviso. E tra quelle mura di avvenimenti fantastici se ne videro davvero molti. Al piano terra, dietro la grande scala, su tutta la parete, file e file di libri, disponibili per ogni socio che avesse voluto confrontare le razze di Tschai con i Fremen di Herbert. Urania, Galaxy, Robot, Nord, Libra, Fanucci e tanti altri stavano in bella vista, pronti ad essere presi per una lettura veloce sulle poltroncine lì accanto o per essere portati a casa. Su tutti quei piccoli mondi di carta svettava il plastico in gomma di una città volante, appesa con fili invisibili al ballatoio. Sempre nella sala centrale, sulla sinistra, i muri si allargavano dando la possibilità di esistere ad un piccolo bancone bar sorvegliato a vista da una lampada arancione. Questa era, in effetti, un tubo di vetro con all’interno del liquido che scaldandosi generava continue bolle tremolanti: entità fluttuanti che lente s’impegnavano nell’eterno viaggio dal basso all’alto, come a richiamare la tensione e lo sforzo di pensare al nostro mondo come parte della galassia abitata. Sul muro accanto giganteggiava un dipinto di due metri per due, realizzato da mio padre, che riportava la famosa immagine di Frazetta dell’incontro tra il Nazgul ed Eowyn. A fianco, poco più in là, si apriva una porta, sovrastata da un poster gigante di una cabina telefonica inglese (forse a memoria di Doctor Who? Non saprei dirlo) che dall’antibagno portava alla toilette, da tutti affettuosamente chiamata “la ghiacciaia”. Di fronte al grande quadro, sull’altro lato della sala, a ricordare la Terra di Mezzo, un tavolo molto basso, due metri per due, con la riproduzione della mappa di Tolkien (sempre opera di mio padre) il cui significato, in un momento in cui i giochi si limitavano a Monopoli, riguardava il futuro utilizzo di schiere di miniature per grandiose guerre tra Orchi ed Elfi. Una piccola stanza, sul ballatoio in alto a sinistra, divenne un salottino, con l’unica finestra affacciata sulla piazzetta medievale trasformata in bifora dalle sapienti mani di chi riusciva a lavorare il polistirolo come fosse creta. E alla fine eccolo, questo seme venuto dallo spazio, pronto ad aprirsi come una porta verso altri universi, offerto come dono agli appassionati e agli sbigottiti ferraresi. Ora serviva un nome, un nome che andasse oltre i tre passi nell’ignoto compiuti dal primo pioniere, un nome che li unisse tutti. Così nacque “Altair 4: Science Fiction Hobbit Club”. A quel tempo erano tutti giovani, e quasi tutti affascinanti. Immaginatevi una sera qualunque al Club. Danno un film e agli habitué si aggiungono gli sporadici e i curiosi. Entrate in questo locale ampio e non troppo fumoso (cosa di cui ringrazierò sempre l’alto soffitto) accolti dal brusio di conversazioni diverse. Appoggiato al bar, con l’immancabile bicchiere di whisky in mano, Marchi ascolta Boicelli decantare Asimov mentre fuma distrattamente, la giacca aperta, incurante del freddo. Andrea sembra accalorarsi nel discorso e il borsello di pelle ondeggia al ritmo delle mani che mimano la partenza di un’astronave. Sotto la città volante un gruppetto di persone sceglie i libri, spostandoli, confrontando le copertine, sotto lo sguardo tra l’attento e il noncurante di Junio, responsabile della biblioteca. In mezzo a loro una bambina timida di neanche 10 anni prende con dedizione ogni singolo Urania per leggere le vignette in fondo, facendo molta attenzione a riposizionarli nello stesso identico modo in cui li ha trovati. Vicino alla grande mappa di Tolkien Vocifero (mi perdonerà se ricordo solo il soprannome) parla con voce acuta ad un gruppetto eterogeneo rendendo chiaro a tutti il motivo del nomignolo. Alzate lo sguardo e vedete che alcuni sono già seduti nelle prime due file del ballatoio, timorosi di perdere i posti migliori. Scomodi come tutti gli altri, s’intende, le sedie sono di legno, ma se non altro sono centrali rispetto alla piccionaia più in alto. Così si chiamava quella sorta di anticamera rialzata dal soffitto proteso verso il pavimento, separata dal ballatoio da una ringhiera di mattoni forati, che accedeva direttamente alla sala della macchina da presa. Nella stanza c’è Mongini, lo sguardo tenebroso, non ancora addolcito dall’età, la barba folta e curata sfiora il collo della camicia bianca, le cui punte sembrano ali. Accanto a lui una donna dallo sguardo altero, bella quasi quanto la stranezza del suo nome: Giovenzia. Nel salottino le signore sedute sui divanetti ridono insieme ad una ragazza dai capelli cortissimi che in doppiopetto fuma il sigaro mentre tentano di tirare giù le minigonne salite prepotentemente all’anca. E tra tutti quei visi, quelli famosi e quelli che non conoscete, la mia infanzia passò con noncuranza, non percependo se non a tratti quanto fosse strana e diversa.

L’esplosione

Quando Giovanni Mongini ed Eugenio Marchi si incontrarono e cominciarono a parlare, in quella fredda sera d’inverno, al club “Tre Passi nell’Ignoto”, le due lune del mondo della fantascienza, il cinema e la letteratura, collisero tra loro generando un pianeta nuovo che ribolliva di idee e iniziative. A questo folle binomio si aggiunse Andrea Boicelli, per tutti Boicelli, la cui pacatezza riecheggiava sempre nelle parole di mia madre. Una delle qualità allora più sfruttate fu la sua perfetta conoscenza dell’inglese, cosa, vi assicuro, piuttosto rara in quel periodo. Lavorava forse in banca, lettore instancabile e colto, di lui ricordo bene il lieve sorriso tra la barba e la pipa. Aveva una moglie di nome Anna che ai miei occhi di bambina sembrava la copia sputata di Dalida. Mostre, rassegne di film, premi letterari, convention, fu tutto frutto della loro intraprendenza, del loro ingegno, della loro volontà. Cercherò di farvi parte di tutto quello di cui fui testimone silenziosa e involontaria come fosse un dono al tempo, una piccola scatola che ho tenuta al riparo nella terra e dalla cui apertura straripano immagini vivide e subitanee, splendidi pop up di un mondo perduto. Essendo io solo testimone e non storico, lascio a voi il compito di giudicare se inserirli all’interno della narrazione formale di ciò che fu la fantascienza in Italia negli anni ’70.

(1 – continua)

Elisabetta Marchi