I MISTERI DI ROCCASCALEGNA

Roccascalegna è un ridente paesino dell’Abruzzo. Adagiato lungo le pendici di un colle, ai piedi della “Grande Madre”, la Majella, tra i fiumi Sangro e Aventino, sorge il borgo medioevale di Roccascalegna. Spicca, dominando in tutta la sua maestosità, immerso tra boschi di macchia mediterranea, uliveti e querce, la ieratica sagoma di un magnifico castello costruito su uno sperone di roccia calcarea.

Tra le tante leggende che aleggiano intorno alla fondazione del borgo, la più famosa di queste racconta che i cittadini di Amnium, città romana fondata intorno al 300 a.C. vicino al fiume Sangro, per sottrarsi alle continue incursioni di pirati e banditi, si trasferirono verso l’interno dando vita a diversi villaggi, tra cui Roccascalegna. La tradizione popolare vuole che i “fantasmi” degli antichi abitanti di Aminium vaghino ancora nei territori bagnati dal fiume Sangro.

L’etimo di Roccascalegna, secondo alcune fonti, deriva dal nome proprio di un nobile longobardo, “Aschari”; secondo altri, dal termine “Scarenna”, ovvero fianco scosceso di una montagna. La trasmissione di memorie vuole invece che il nome derivi dal fatto che, per accedere alla torre del castello, vi fosse in passato una scala di legno, come riportato sullo stemma del paese. Roccascalegna era delimitata in passato da due porte d’accesso, “Porta del Forno” e “Porta della Terra”. Attraverso la prima, così chiamata perché posta nelle vicinanze di un forno, oggi si accede al borgo vero e proprio.

La parte antica di questo meraviglioso angolo d’Abruzzo si sviluppa ai piedi della roccia calcarea alla cui sommità svetta il maestoso castello a cui è legato “un misterioso fatto di sangue”. Sulle origini del maniero non vi sono elementi precisi, ma dalle fonti storiche si deduce che esistesse già nel XIV sec. Alcuni studiosi sostengono che, durante le lotte Bizantino-Longobarde, a cavallo del V e VI secolo d.C., i Longobardi, prediligendo le alture, si stanziarono sulla roccia dove oggi sorge il castello, fortificandola. Il luogo fu scelto poiché era al centro di un collegamento tra le varie postazioni longobarde, le cosiddette “Fare”.

Il Castello di Roccascalegna, durante la sua lunga e tormentata storia, è stato poco abitato e ha avuto nel tempo poche e limitate trasformazioni. Il primo proprietario fu un certo Annichino de Annichinis, soldato di ventura tedesco, giunto in Abruzzo al seguito del feudatario Giacomo Caldora, che gli regalò il feudo di Roccascalegna come riconoscenza per i servigi resigli. I suoi discendenti, Raimondo, Alfonso e Giovanni Maria, furono così abili e scaltri che nel tempo arrivarono a possedere ben quindici feudi. Malauguratamente, Giovanni Maria, nonostante la sua lunga esperienza politica e i suoi interventi di manutenzione e adeguamento del castello alla difesa dalle armi da fuoco, si macchiò, secondo le fonti storiche, di diverse colpe, tra cui l’assassinio di un nobile, con la complicità più o meno palese dei francesi, dettato dall’odio evidente nei confronti del re Carlo V, oltre alla sua stretta relazione con i feudatari Riccio di Lanciano che, nel 1528, gli fecero perdere sia il titolo nobiliare, sia il feudo, che passò nelle mani dei Carafa di Napoli. Questi, a loro volta, lo persero allorché un certo Orazio, sempre secondo le fonti storiche, in seguito all’applicazione di “leggi ingiuste e lesive”, fu trucidato dagli abitanti di Roccascalegna nel 1584. Così il feudo tornò nelle mani del Regio Demanio per essere poi acquistato, per alcune migliaia di scudi, dalla famiglia De Corvis di Sulmona. La “vox populi” vuole che un membro di questa famiglia fu coinvolto anch’esso in un fatto di sangue accaduto tra le mura del castello, segnando per sempre la vita di questa comunità.

Nel 1599 il barone Vincenzo Corvi acquistò il maniero per diecimila ducati. A questi successero Annibale, quindi Giuseppe, e da questi si passò a Giovanni Battista; poi fu la volta di Annibale III; successivamente il feudo finì nelle mani di Pompeo, e alla fine Pompeo Filippo lo vendette a un aristocratico di Palena, don Nicolò Nanni, e così si chiuse la parentesi dei baroni De Corvis di Sulmona. I Nanni, imparentati con i Croce, la gloriosa famiglia che diede i natali al famoso filosofo e statista Benedetto, acquistarono il feudo nella prima metà del 1700, ma in breve tempo esso fu abbandonato e infine chiuso. I proprietari del castello si trasferirono quindi in un palazzo baronale al centro del paese, oggi adibito ad abitazione privata.

I Croce-Nanni, come d’altronde tutti i signori del castello, ebbero un atteggiamento autoritario nei confronti dei loro sudditi, arrivando, in alcuni casi, anche a macchiarsi di un crimine nei confronti di un uomo di chiesa. Infatti, durante la settimana Santa del 1720, come atto dimostrativo nei confronti dei riottosi abitanti del feudo, il fratello del barone legò lo sventurato parroco della chiesa di san Pietro a una colonna della stessa, causandone la morte, dopo lunghe sevizie iniziate il Giovedì Santo e durate fino al sabato. Durante il Brigantaggio il maniero, oramai decadente, fu sede della Guardia Nazionale e addirittura durante le due Guerre Mondiali diede “asilo” a ogni sorta di personaggi e malfattori. Rimase proprietà dei Croce-Nanni fino agli inizi degli anni ‘80 del Novecento, quando fu donato al comune che iniziò una poderosa ed esperta opera di restauro, culminata nell’apertura al pubblico nella seconda metà degli anni ’90.

Il maniero, che sovrasta maestosamente il borgo, si raggiunge alla fine di una lunga stradina di gradini scavati nella roccia, alla cui sommità vi sono i resti di un ponte levatoio che serviva come attraversamento del fossato antistante, oltre che come ulteriore difesa del castello. Varcato il portone d’ingresso ci si trova su di un grande cortile al cui lato si ammirano i resti della torre crollata. Di fronte, entrando, c’è la torre di sentinella, poi la torre quadrata, quindi la cappella dedicata al Santo Rosario, sede di una congrega femminile “molto influente” scioltasi tra le due guerre, la torre Angioina, il magazzino, la torre del Carcere e le segrete.

Molte sono le leggende, qualcuna già ricordata in precedenza, che aleggiano intorno a questa rocca.

La più famosa narra che nella prima metà del 1600 un certo barone de Corvis, per vessare ancor di più i suoi vassalli, impose loro di “venerare un corvo nero”. Chi rifiutava di genuflettersi al suo cospetto veniva arrestato e gettato nelle segrete, per essere poi “dilaniati dalle spade conficcate nel terreno”. Proprio per questa sua ossessione, il barone fu ribattezzato dal popolo come “Corvo de Corvis”.

Altra storia legata a questo personaggio è la legge dello “Ius Primae Noctis”, ovvero “il diritto della prima notte”. Chi si sposava doveva “ricomperare” la propria moglie in base al pagamento di una tassa stabilita dal signore del castello. Chi non poteva riscattare la propria sposa doveva cederla per una notte al barone. Questa legge determinò la scomunica del barone da parte del sacerdote della vicina chiesa di San Pietro. Lo stesso religioso incitò la folla a ribellarsi. Così il nobile reagì inviando i suoi “sgherri” a intimidire lo stesso, che fu sorpreso mentre cercava di mettersi in salvo e trucidato ai piedi del castello. Questo episodio fece sì che i sudditi ordissero una congiura contro il barone per ucciderlo. Un giorno si presentarono dal barone due giovani che volevano sposarsi, ma senza i denari per adempiere allo “Ius Primae Noctis”. Uno dei due fu pertanto costretto a cedere la donna al barone per una notte. La donna, all’imbrunire, dopo essersi sposata, si recò al castello dove fu condotta dalla servitù nella camera del barone. Ella vi si coricò, ma mentre il barone faceva lo stesso, con un colpo di stiletto… gli spaccò il cuore. Il de Corvis, morente, si appoggiò la mano sul cuore nel vano tentativo di fermare il sangue, poi la pose vicino al capezzale del letto, “maledicendo la stirpe della sua assassina”, mentre la folla inferocita assaltava il castello. La leggenda vuole che in epoche diverse si sia provato più volte a cancellare la “mano di sangue”, ma essa riaffiorava più vermiglia e nitida che mai, finché nel 1940, annata particolarmente piovosa, parte del castello crollò portandosi via anche la camera dove avvenne l’omicidio.

Un’altra leggenda su di lui narra che nelle notti di tempesta quando il vento sferza le merlature del mastio e le nubi basse e nere accarezzano la torre, un volo radente di corvi preannuncia il ritorno del barone, che passeggia inquieto per le stanze del suo antico maniero, cercando la pace eterna” (1).

Tra le tante leggende legate a quest’anglo d’Abruzzo ve ne sono anche alcune legate alle fate. Si narra che una donna di Roccascalegna, vissuta a cavallo del tra l’800 e il ‘900, andava sempre a ritemprarsi delle fatiche della giornata sotto una grande quercia, che come si ricorda, è l’albero sacro ai druidi, sacerdoti celti pagani, che si trovava proprio di fronte alla Grande Madre Majella e pare che da lì si vedesse addirittura l’imbocco della Grotta del Cavallone. Un giorno di fine estate, mentre una contadina si riposava all’ombra di una quercia vide, all’improvviso, delle figure evanescenti danzare a pochi passi da lei: meravigliata, le andò vicino e queste le chiesero di seguirla ma… ella rispose di no. Allora, irritate dal rifiuto, la colpirono con un violento schiaffo, dopodiché le dissero che qualsiasi cosa avrebbe desiderato le sarebbe accaduto e da quel giorno la donna iniziò a vagare nel cuore della notte in cerca di spiriti malvagi da sconfiggere e con la forza del pensiero trasportò per diversi chilometri una macina di pietra per la molitura dell’olio, la quale è stata in uso fino alla fine del 1950. Una sera, però, la donna si allontanò per una ennesima battuta di caccia all’interno di un bosco e… da allora di lei non si seppe più nulla.

Sempre a Roccascalegna, all’interno di un bosco, c’è una fontana meta e proprietà del piccolo popolo e di una serie di entità soprannaturali come una vecchietta che attinge l’acqua da un orcio inesistente, accompagnata a volte dal fantasma di un brigante, a volte da quello di un garibaldino; essi sono custodi di un forziere di monete d’oro di cui non se ne conosce, però, la collocazione.

Inoltre, in una collinetta non lontano da questa fontana, coperta da arbusti di biancospino, pianta magica che rivela la presenza delle fate, in quanto nasce in prossimità di varchi spazio–temporali che conducono nel mondo fatato di queste entità sovrannaturali, sono state viste delle donne bellissime vestite di bianco apparire e scomparire con la rapidità di un fulmine senza lasciare tracce di sé, alcune di loro erano annunciate da una luce accecante e indossavano delle lunghe vesti candide, altre coprivano il loro volto con cappucci opalescenti: queste creature ultraterrene sono custodi di tesori introvabili a patto che un essere magico ve ne indichi la precisa ubicazione.

Sempre nel territorio di Roccascalegna si trova poi la cosiddetta “Casa delle fate”, chiamata così per le sue continue frequentazioni da parte del piccolo popolo. Essa fu costruita nel 1700 ed è facile incontrarvi tre figure muliebri che danzano lievi e leggiadre sull’aia adiacente la casa nel periodo della mietitura e queste apparizioni sono frequenti verso mezzogiorno quando il sole è allo zenit. Secondo un’interpretazione simbolica, queste tre figure femminili potrebbero essere la personificazione del grano e dell’opulenza, e sono tre perché rappresenterebbero le tre facce della luna come dea madre.

Anche in altre leggende diffuse nell’entroterra chietino si dice che in alcuni granai si vedano delle figure etere divise in due parti, che potrebbero rappresentare lo “spirito” del grano appena reciso e della spiga caduta sotto la falce del contadino.

Sempre in tema di leggende vi sono molte di queste legate a tesori maledetti che si troverebbero nel territorio di Roccascalegna. Molte leggende affermano che, l’oro sotterrato dai briganti, sia maledetto, poiché frutto di rapine, estorsioni e violenze varie. Si racconta che i briganti tagliassero le dita o addirittura le mani alle donne per impossessarsi dei loro gioielli. I loro tesori erano vegliati da spiriti guardiani, che li preservavano da qualsiasi cupidigia altrui, dato che, dopo averli seppelliti, vi ammazzavano una persona sopra. In casi estremi, i briganti, arrivavano persino a fare un patto con il diavolo in persona, che gli garantiva l’assoluta tutela del loro patrimonio, difendendolo e preservandolo meglio di un moderno istituto di credito.

Si narra che in una notte d’estate una donna sognò che una figura femminile vestita con abiti seicenteschi le indicasse l’ubicazione di un tesoro che giaceva all’ombra di una frondosa quercia, però doveva essere dissotterrato a mezzanotte e da lei sola. Ella non diede peso al sogno e così il giorno dopo di buon mattino si recò nei campi come faceva di solito. Lo strano sogno si ripeté per molte notti finché esasperata, ne parlò al marito, che decise di andare a scavare sotto la quercia del sogno, però a mezzogiorno e insieme. Così, muniti di un grosso badile i due si avviarono lungo il sentiero di campagna che conduceva nel luogo del sogno. Iniziarono a scavare e dopo poco gli apparve un orcio pieno di… carboni. Appena dissotterratolo una nuvola grigiastra si addensò all’orizzonte e la dama del sogno venne incontro ad essi. La donna imprecò contro i due coniugi perché erano venuti meno alle sue indicazioni e invece di liberarla dalla maledizione che gravava sul suo capo avevano attirato su di loro un anatema peggiore di quello suo. La donna, infatti, era la figlia di un personaggio di rilievo del paese che si era innamorata del capo dei briganti. Nessuno era al corrente della loro relazione; poiché, il padre di lei aveva firmato la condanna a morte di molti briganti, e la donna suo malgrado si era innamorata del peggior nemico di suo padre. Mentre la donna si era perdutamente invaghita del brigante, egli voleva semplicemente vendicarsi del suo odiato nemico. Così, una notte di fine estate, l’uomo portò la donna ignara di tutto, ai piedi della quercia, e dopo aver sotterrato un orcio pieno di monete d’oro, le sparò un colpo di pistola dritto al cuore, uccidendola; quindi, la sotterrò e la ricoprì con un cumulo di pietre andandosene via. Prima di fuggire l’uomo disse che l’anima della morta doveva custodire l’oro, che sarebbe stato trovato da una donna bisognosa che avesse avuto il coraggio di dissotterrarlo a mezzanotte in punto, dopo aver dato degna sepoltura ai miseri resti del suo spirito guardiano. Il brigante fu catturato e giustiziato di lì a poco proprio dal padre della ragazza barbaramente assassinata il quale, però, ignorava l’efferato delitto di cui si era macchiato. Non si può affermare con certezza che i due malcapitati furono vittima della maledizione del brigante andando a dissotterrare l’oro, sta di fatto che la donna impazzì e l’uomo si impiccò sui rami della quercia sotto cui giaceva la sventurata ragazza. Molti asseriscono di aver veduto il fantasma di una donna che scava nei pressi di una frondosa quercia, altri affermano di vedere il cadavere dell’uomo sospeso tra i suoi rami, altri ancora, mormorano di aver visto un uomo con la camicia bianca che cerca i suoi 40 denari, sempre nei pressi della quercia maledetta e infine vi è chi sostiene di vedere all’imbrunire una dama seicentesca piangere calde lacrime ai piedi della quercia dove, forse, riposano ancora i suoi resti.

Si dice poi che la chiesa di San Pietro a Roccascalegna custodisca, nei suoi sotterranei, un forziere pieno di monete d’oro, ma nessuno ha il coraggio di prenderle perché bisogna accedervi tramite una piccola porta dietro la quale vi è uno spirito guardiano munito di una grossa spada. Nessuno ha mai visto questo forziere ma pare che molti ne abbiano sognato la precisa ubicazione.

L’Abbazia di San Pancrazio invece custodisce un immenso tesoro, il problema è sapere dove cercarlo! Si dice inoltre che a mezzogiorno del solstizio d’inverno l’ombra del campanile della Chiesa di San Pancrazio sulla collinetta alle sue spalle indichi l’ubicazione di un altro immenso tesoro.

Sempre in tema di misteri infine pare che le fate della Majella nascosero il loro favoloso tesoro dentro un tronco cavo di una quercia secolare nel territorio di Roccascalegna, ma un contadino la tagliò e la mise al fuoco come ciocco di Natale. L’oro si squagliò e le fate maledissero il contadino e la sua famiglia che si distrusse di lì a poco.

Nicoletta Travaglini

(1)https://www.tesoridabruzzo.com/il-castello-di-roccasacalegna/#sthash.6ElfT0RU.dpbs