Si narra che quando gli Irin, termine ebraico che significa Guardiani o Vigilanti, vennero o caddero sulla Terra, per la precisione sul monte Hermon in Palestina, erano guidati da Semeyaza, ed erano duecento. Tra i collaboratori più vicini a Semeyaza c’era Azazel, uno dei più potenti guardiani.
Questi angeli, cui era affidato il compito di sorvegliare l’umanità, decisero di concupire le donne terresti e di tramandare le conoscenze e le tecnologie ai nostri antenati, come fece Prometeo. Questi quindi furono puniti in quanto avevano disobbedito a Dio. Dalla loro unione con le donne terrestre nacque una stirpe di giganti chiamati i Nephilim (o Gibborim). Questi esseri mastodontici cominciarono a devastare la Terra determinando, così, l’ira divina. Gli angeli fedeli a Dio portarono la guerra contro i fratelli che si erano mischiati con i mortali. L’arcangelo Raffaele affrontò Azazel e lo scaraventò nella oscurità del deserto di Dudael, Michele sconfisse Semeyaza e gli altri Angeli Caduti imprigionandoli sotto le colline della Terra, fino al giorno del giudizio. Gabriele, invece, venne inviato a combattere i Nephilim. Il Signore estremamente irritato per il comportamento di questi giganti inviò il Diluvio per ripulire il mondo dalle turpitudini.
I miti di tali avvenimenti si ritrovano nell’apocrifo Libro dei giubilei, nei Rotoli del Mar Morto e perfino nella Genesi (6;2,4), mentre i Vigilanti sono citati in Daniele (4;10,14,20). Una leggenda simile si ritrova nel Libro di Enoch in cui si parla di “Guardiani” che sono angeli mandati, apparentemente, sulla Terra solo per vigilare sul Creato. Questi, però, iniziarono, da subito, a provare sentimenti lussuriosi nei confronti delle donne terrestri, anche perché incoraggiati dal loro capo Samyaza. Essi tradirono la loro missione e lasciarono il Paradiso in massa per sposarsi e vivere fra gli uomini. I Vigilanti o Grigori erano circa 200 tra cui ricordiamo: Samyaza, il capo, Urakabaramil, Akibeel, Tamiel, Ramuel, Dânêl, Chazaqiel (Ezekiel), Saraknyal, Asael, Armers, Batraal, Anane, Zavebe, Samsavil, Ertael, Turel, Yomyael, Azazyel (noto anche come Azazel).
“Questi sono i prefetti dei duecento angeli, e i restanti erano tutti con costoro” (Enoch 7:9).
La progenie nata da queste relazioni sono chiamati Nephilim (nĕfîlîm), giganti selvaggi che portarono a un totale sconvolgimento della Terra, opprimendo e tiranneggiando l’umanità. Samyaza, Azazel e compagni diventarono corrotti insegnando agli umani a fabbricare armi metalliche, la cosmesi e altre tecnologie che essi avevano sviluppato. A causa di questa dilagante corruzione, violenza e oppressione degli Angeli infedeli, la gente cominciò a morire e a invocare aiuto dal Cielo. Così Dio, commosso dal grido d’aiuto degli uomini, mandò il Diluvio Universale per salvare la Terra dai Nefilim, inviando Uriel ad avvertire Noè per non distruggere l’intera razza umana. I Grigori, quindi, furono confinati nelle “valli della Terra” fino al giorno del Giudizio Universale.
La storia dei Guardiani in Enoch è stata collegata con Gen. 6:1-4 in cui si descrive la “origine dei Nephilim” e si ricordano i “figli di Dio” che li generarono:
Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla Terra e nacquero loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora il Signore disse: «Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni». C’erano sulla Terra i giganti (Nephilim) a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi (Gen. 6:1-4).
Nell’articolo “Lo specchio del pensiero – I Nephilim nella mitologia: erano giganti, i figli di Dio o qualcosa di completamente diverso?” si legge: «I Nephilim sono stati associati a volte con gli “antichi umani”, ossia i possibili sopravvissuti di Atlantide che avrebbero contribuito alla ricostruzione del mondo post-diluviano, altre volte sono stati associati a quelli che vengono definiti “antichi astronauti”, cioè un gruppo di alieni che in passato avrebbe visitato il nostro pianeta, venendo riconosciuti come divinità. Il significato corretto è “gli splendenti”, individui molto superiori agli uomini, ma non spirituali. Quindi non dèi. Questo è un termine che non apparteneva alla cultura di chi scrisse, ma che è subentrato in un secondo momento, in un processo durato secoli. Adamo ed Eva sono i progenitori dell’homo sapiens. E non sono stati creati dal nulla, ma su di loro gli Elohim sono intervenuti con l’ingegneria genetica, dando come un colpo di acceleratore all’evoluzione umana. Adamo, come nome, significa “quello della Terra”, insomma nato su questo pianeta. Letteralmente è più corretto tradurlo “il terrestre”, per distinguerlo evidentemente da chi terrestre non era. Eva invece è Hawà, ovvero “la madre dei viventi”, la progenitrice di tutta la specie umana. Quello che scrivo oggi, e che ripeto nelle mie conferenze per l’Italia, deriva da una lunga esperienza di traduzioni letterali. E quello che racconto nel libro è ciò che per primo ha stupito me. Sono convinto che la religione nella quale siamo stati educati sia nata, in realtà, da un contatto tra l’umanità ed esseri tecnologicamente superiori. La Bibbia è una storia vera, racconta episodi concreti, ma poi con il passare del tempo si è perso il contatto con questa “fisicità” ed è subentrata l’elaborazione teologica» (1).
Secondo alcune leggende quando questi Vigilanti arrivarono, o caddero sulla Terra, vi fu un forte lampo di luce seguito da una potente esplosione come di una bomba. Se si presta fede a tale leggenda, quindi, di questo evento traumatico se ne potrebbe trovare traccia anche nei toponimi come ad esempio nel nome di un piccolo borgo abruzzese chiamato appunto Bomba. Ai piedi del Monte Pallano, monte consacrato a Maja, spicca il profilo di Bomba, borgo custode dell’omonimo lago e terra natale di Silvio e Bertrando Spaventa. Il paese fatto di case arroccate interrompe d’improvviso la lussureggiante vegetazione che avvolge questo monte, popolato da tantissime specie vegetali, dai lecci alle querce, passando per i faggi e i cerri, fino al sambuco. Secondo alcune fonti, il curioso nome deriva al paese da “Bombus”, cioè rombo o ronzio, il rumore provocato da numerose cascate di fossi e ruscelli che circondavano questo paese in passato e che servivano ad alimentare i mulini che si trovavano all’interno del castello; altre fonti sostengono che derivi invece da “Bomos”, che significa gradino o rialzo, in quanto il borgo antico era costruito su un’altura. Una delle tante ipotesi sul toponimo “Bomba” dice che esso nasca dal rumore assordante provocato dall’impatto di un meteorite caduto sul Monte Pallano oppure dalla caduta degli Angeli Ribelli quando Dio li cacciò dal Paradiso, tesi assai suggestiva anche se priva di riscontri scientifici, ma che potrebbe avere qualche riferimento nelle tradizioni antiche che parlano di un lago stagionale di origine naturale, ormai scomparso da secoli. Era chiamato “Lago Nero” per i colori scuri delle acque, sulle quali si svolgevano i rituali arcaici magico-misterici delle Primavere Sacre, dedicati alla Grande Madre Maja; si dice che il suo invaso fosse stato originato proprio dalla caduta di una meteora. Monte Pallano, con i suoi mille e più metri di altezza, rappresenta l’ultima vera montagna scendendo dalla Majella verso il mare. In una leggenda si narra che Maja, la più bella delle sette sorelle Pleiadi, dal nome della madre Pleione, fosse arrivata a cavallo fin qui dal golfo di Ortona per cercare, inutilmente, il fiore con cui curare suo figlio malato che, di lì a poco, sarebbe morto. Maja era perseguitata dal dio Orione detto anche il “bello”, il quale, invaghitosi dell’avvenente amazzone le dedicò una corte spietata; vedendosi respinto, rivolse le sue attenzioni morbose nei confronti delle altre donne della famiglia della sua amata. Esse furono trasformate in stelle, per l’appunto le Pleiadi, da Giove e ancora oggi si possono ammirare questi astri solcare il cielo, inseguite dal violento Orione.
Alcune tradizioni vogliono che i nostri avi, guardando le stelle presenti su Monte Pallano in primavera, fossero in grado di sapere se sarebbe stata un’annata piovosa o meno. Sul monte Pallano si trovano le mura megalitiche di origine italica che proteggevano un antico insediamento di queste genti. Secondo la tradizione locale il nome nascerebbe dalla leggenda secondo la quale la fortezza era abitata da giganti chiamati “Palladini”. Le mura megalitiche, che si possono ammirare ancora oggi con una suggestiva visita al parco archeologico, sono intervallate da porte di accesso; secondo alcuni rappresenterebbero dei punti di osservazione orientati verso Orione e le Pleiadi. Il monte fu dedicato alla dea Maja, la Grande Madre, e qui si consumavano i riti della “Ver Sacra” o “Primavere Sacre”, in cui si donava la primogenitura di tutti gli esseri viventi alla Grande Madre. Alcuni storici sono propensi a sostenere la tesi, suffragata da alcune fonti antiche, che su Monte Pallano vi fosse un maniero chiamato “Castello di Pallano”, che l’incuria degli uomini e della natura abbia distrutto dalle fondamenta lasciando solo il suo ricordo tramandatosi attraverso i toponimi; questo mastio, secondo la leggenda, era proprietà di un certo Pallonio, dispotico e tirannico signore di origini moresche, tra le cui mura teneva prigionieri i cristiani che non abiuravano il loro credo. Secondo altre fonti meno legate alla tradizione si dice che questo castello intorno all’anno Mille fu donato ai monaci di Santo Stefano Riva Maris, i cui ruderi si trovano a Casalbordino, da Ulberto principe longobardo; già allora questo mastio doveva non essere più molto fiorente, visto che i suoi abitanti si trasferirono più a valle fondando così Bomba. La tesi sarebbe supportata dal fatto che in una frazione di Bomba vi è una chiesa dedicata a Santa Maria del Sambuco, pianta sacra alla Grande Madre e coltivata per vari usi anche religiosi dagli antichi abitanti della città di Pallanum. Si legge nella “Dispensa erbe magiche e afrodisiache”: «Una delle tradizioni contadine legate al sambuco e alle sue proprietà medicinali era quella di inginocchiarsi sette volte di fronte alla pianta, perché sette sono le parti del sambuco utilissime per la cura dell’uomo: i germogli, le foglie, i fiori, le bacche, la corteccia, le radici e il midollo. I germogli sono utili per calmare la nevralgia, preparati in decotto consumato caldo. Le foglie curano le malattie della pelle, se applicate come impacchi, ma possono anche calmare il dolore e l’infiammazione di scottature e ferite. Insieme ai fiori curano le emorroidi e gli ascessi. I fiori, invece, sono un ottimo depurativo e diuretico, possono essere adoperati per contrastare il raffreddore e le malattie invernali quali influenze e febbri lievi (sono febbrifughi, rilassanti e stimolano la sudorazione), e sono un buon rimedio contro i geloni e la bronchite. Inoltre sono disintossicanti, curano gli occhi (irritazioni e orzaiolo) e, se usati in lozione, rendono la pelle morbida. Le bacche curano le infiammazioni di bronchi e polmoni, se consumate in sciroppo; sono ricche di vitamine e quindi utili per prevenire raffreddamenti invernali, rinforzano il sistema immunitario e, sempre consumate in sciroppo, curano le infezioni. Inoltre sono lievemente lassative, e quindi ottime contro la stitichezza. La corteccia, similmente alle bacche, è lassativa, ma può essere anche emetica (favorisce il vomito), a seconda della quantità ingerita. Posta fresca sugli occhi cura le irritazioni. La radice bollita e pestata cura la gotta e, infine, il midollo, ridotto in pappa e unito a farina e miele, lenisce il dolore provocato dalle lussazioni.
Il nome greco del sambuco “Actè” significava “nutrimento di Demetra”, evidentemente per l’utilizzo che veniva fatto delle sue bacche (nere per il Sambucus nigra, rosse per il Sambucus racemosa). Il significato latino del nome di questa pianta ha invece un’altra origine: da sambucus, che richiama la sambuca, una macchina da guerra triangolare (una sorta di ponte levatoio che veniva utilizzato durante gli assedi) – ancora in uso nel Medioevo. La parola “sambuco” indicava anche un piccolo flauto, ancora oggi facilmente realizzabile con un ramoscello di questa pianta priva del midollo interno. In Bretagna, Danimarca, Russia e altri paesi, questa pianta veniva utilizzata per proteggere le case dai malefici. D’altra parte il sambuco poteva anche attirare i poteri maligni, per esempio se veniva bruciato dall’uomo. Il sambuco è un albero molto amato dalle fate e dalle luminose entità che abitano il magico mondo al di là del velo del visibile. In molti paesi e culture, soprattutto celtiche e nordiche, esso era considerato una delle maggiori rappresentazioni della Grande Madre perché si diceva che il suo divino potere femminile scorresse nelle dure vene legnose della pianta, e la rendesse quasi un essere animato che incuteva non poco timore. I suoi colori mostravano soprattutto la Dea nel suo triplice volto, in cui i fiorellini delicati, profumati e bianchi rappresentavano la Fanciulla Vergine, il verde dei rametti e delle foglie la Madre rigogliosa e le bacche nero violacee la Strega oscura.
Ma nonostante questo, secondo le tradizioni, era l’aspetto più potente e incontrollato della Strega a prevalere nel sambuco, a tal punto che si credeva che l’albero non fosse realmente un albero, ma una strega trasformata in albero, o un qualche simile essere inquietante e pericoloso.
Per questo il sambuco era associato all’oscurità, alla magia, alla divinazione, ma anche al viaggio verso le profondità della terra bruna e, in particolar modo, alla morte. Il profumo dei fiori si diceva che portasse nell’Altromondo, e dormire sotto le sue fronde poteva voler dire non svegliarsi mai più: l’anima sarebbe stata rapita dalle creature fatate e non sarebbe più tornata ad abitare il corpo, abbandonato al sonno eterno. Il sambuco era considerato, quindi, una Porta di Morte, ma anche di rigenerazione e nutrimento, dato che ogni sua parte recava aiuto all’uomo contro malesseri e malattie, e le sue bacche erano fonte di cibo per gli antichi. Nel calendario arboricolo celtico, il sambuco è l’albero del tredicesimo mese, l’ultimo del ciclo, il cui apice corrispondeva al Solstizio d’Inverno e quindi al buio peggiore, alla sterilità e al freddo, portati dall’orrenda Megera dal volto mortifero. Lo stesso numero tredici simboleggia la fine di un ciclo, la morte, ma anche l’Iniziazione e la rigenerazione. Tutti poteri insiti nello spirito del sambuco e connessi alla sua natura oscura. I nomi con cui veniva chiamato rispecchiano tutti l’amore e il rispetto reverenziale che si provava nei confronti di questo splendido essere vegetale. “Nostra Signora” o “Madre Sambuco”, tra i Celti, e “Albero di Holle” (holun tar) tra i Germani. Quest’ultimo richiamava la leggenda nordica secondo cui una magnifica fanciulla dai capelli color dell’oro abitasse l’albero di sambuco. Ella amava questo albero soprattutto se cresceva vicino a sorgenti e fiumi, cascatelle e ruscelletti, in cui poteva bagnarsi come una ninfa dei boschi. Ella, infatti, era sì la splendente e luminosa Madre, ma era anche Signora del regno sotterraneo ed infero, ed era quindi legata al potere ctonio e alla Morte. Nell’aspetto di una bizzarra donnina con lunghe e pericolose zanne, Holle appare nella dolcissima fiaba “Frau Holle” (“Signora Holle”), trascritta dai fratelli Grimm, in cui ella (chiaramente più simile a una strega che a una fata) rappresenta la madrina nutrice e la Maestra che aiuta le fanciulle meritevoli nel loro cammino iniziatico verso la conoscenza dei mondi sottili.
Ma non solo la bellissima Regina delle Fate abitava il sambuco… Miriadi di elfi e coboldi si nascondevano al suo interno, e mentre i primi prediligevano i suoi cespugli, i secondi preferivano di gran lunga accoccolarsi nel tenero midollo dei suoi ramoscelli. Nella bella festa di Mezz’Estate, tra gli abitanti degli antichi paeselli pagani, si usava andare alla ricerca dello spirito del sambuco, danzando intorno alla pianta con coroncine fatte con i suoi fiori tra i capelli, e si può presumere che le fate stesse si divertissero a danzare insieme alle donne e agli uomini, in una splendida gioia condivisa. In Svezia si diceva addirittura che, durante questa magica festa, se ci si fosse nascosti sotto a un sambuco, si sarebbe potuto assistere alla processione fatata del Re degli Elfi e della sua corte. Inoltre si credeva che il succo verde interno alla corteccia di questa magica pianta, se usato esternamente, avrebbe donato la Vista (o seconda vista), potere ottenibile anche soltanto cingendosi la fronte con le sue foglie e la sua corteccia. I contadini tedeschi, che nutrivano infinito rispetto per il sambuco, quando avevano bisogno di tagliarne un pezzetto si inginocchiavano davanti al suo fusto con le mani giunte in preghiera e invocavano: “Signora Sambuco, dammi un po’ del tuo legno e io te ne darò un po’ del mio, quando crescerà nella foresta”. Essi credevano anche che lo Spirito materno dell’albero avrebbe lenito i loro dolori, e quando avevano un fastidioso ascesso, si recavano al sambuco per invocare l’aiuto della Signora e per prelevare una scheggia dalla corteccia dell’albero. Tornati a casa, si incidevano le gengive con questa e la sporcavano di sangue. Poi tornavano al sambuco, camminando all’indietro, e riponevano la scheggia laddove l’avevano presa. In questo modo la Fata li avrebbe guariti. Proprie del sambuco erano anche alcune proprietà divinatorie. Se in estate i suoi fiori fossero stati di un bel colore giallo, o meglio ancora, ruggine, sarebbe arrivato un bimbo; se avesse mostrato, invece, fiori piccoli e sottili, il raccolto sarebbe stato povero, ma se i fiori erano corposi e forti il raccolto sarebbe stato ottimo.
Nelle leggende germaniche il flauto magico era un ramoscello di sambuco svuotato del midollo, che si doveva tagliare in un luogo dove non si potesse udire il canto del gallo che lo avrebbe reso roco: i suoni che se ne traevano proteggevano dai sortilegi, come testimonia l’opera di Mozart “Il Flauto Magico”; probabilmente richiamava l’attenzione degli spiriti silvestri, tutte le malie sarebbero scomparse, insieme alla sfortuna, alle negatività e alla tristezza.
La devozione nei confronti del sambuco era dimostrata anche dai molti doni che venivano posti ai suoi piedi. In Scozia si portavano dolci e latte all’ombra del sambuco e anche in altri paesi nordici si usava portare il latte, ma anche pane e birra. Tra i Celti il sambuco veniva piantato vicino a case, stalle e castelli, perché avrebbe protetto la famiglia da malefici e serpenti velenosi. Le fate che lo abitavano avrebbero mostrato benevolenza se fossero state coccolate con amore e cure costanti, ma se fosse capitato il contrario avrebbero portato sfortuna e incidenti. La cura inoltre doveva procedere di generazione in generazione, come una tradizione tramandata di madre in figlia, di padre in figlio, a cui tutti dovevano partecipare attivamente. Naturalmente era vietato sradicare o tagliare la pianta, e bruciare la stessa avrebbe recato una grave offesa alla Dea, che tra tutti gli alberi desiderava che questo fosse preservato dal fuoco. Un’altra precauzione nei confronti del sambuco consisteva nell’evitare che i bimbi piccoli dormissero in culle fatte con il suo legno. Avrebbero, infatti, patito i dispetti delle fate, che potevano prenderli a morsetti e pizzicotti fino a far loro uscire il sangue. Molte tradizioni e leggende furono rivisitate dai primi cristiani che, non riuscendo ad estirparle, non potevano far altro che volgerle a proprio vantaggio. Così, se prima il succo del sambuco aiutava ad acquisire la Vista dei popoli fatati, ora si diceva che spalmandolo sugli occhi (o usandolo come collirio) si sarebbero potute vedere le streghe, per scovarle e ucciderle; se prima bruciarne il legno avrebbe offeso la Dea, ora bruciarlo avrebbe portato il Diavolo in casa.
Nel XIII secolo, in Francia, un monaco lamentava il perdurare, nonostante i divieti, dell’usanza secondo cui le donne portavano i loro bambini ai piedi del magico sambuco per recarvi doni e offerte, mentre le fanciulle incinte continuavano a baciarne la corteccia per ottenere un parto facile. E nonostante tutti i tentativi, ciò che si voleva eliminare continuò a vivere, giungendo fino a noi.
Interessantissima, infine, è la leggenda russa legata al sambuco, secondo la quale tutte le malattie mortali si credeva fossero personificate dalle Dodici Vergini (ma a volte erano Nove). La misteriosa fanciulla che le guidava non era altri che Holle (Holda/Holla), la Regina delle Fate e Dea nordica, la quale poteva apparire in queste vesti affascinanti, ma poteva anche mostrarsi nella guisa di una strega terribile, con lunghe e pericolose zanne e lineamenti alquanto selvatici. Queste giungevano dall’oceano come spiriti e salivano la montagna sacra fino a giungere dai Tre Sambuchi Anziani, dai quali ottenevano la conferma che ogni essere vivente che appartenesse alla terra era soggetto alla morte. Questa storia veniva raccontata dalle donne quando i loro villaggi erano minacciati da epidemie e malattie mortali, e mentre raccontavano tracciavano con l’aratro un profondo solco intorno al loro abitato, perché così, dicevano, sarebbe stato il più possibile protetto dalla sciagura e dagli spiriti del male.
Esiste una credenza contadina secondo la quale Giuda si sarebbe impiccato a un albero di sambuco: da allora le sue bacche diventarono così amare da non poter essere mangiate. L’essenza del sambuco è mutevole, inafferrabile. È un’essenza in cui il volto della Strega oscura e quello della Fata luminosa si uniscono in un unico essere dalla magia ambivalente, pericolosa da un lato e estremamente benevola dall’altro. La Strega che lo abita ricorda i rapaci notturni, la cui vista è in grado di penetrare il buio più nero, e l’albero stesso forniva, con la sua linfa, una magica sostanza che avrebbe mostrato la verità oltre il visibile. Il sambuco cela tra le sue venature e i solchi della sua ruvida corteccia gli Occhi Nascosti, quelli in grado di vedere oltre il velo della materia. Il suo Dono è la Visione Divina, la magia che fa scostare i veli della nebbia e fa intravedere il Mondo al di là di essi e le eteree creature che lo abitano.» (2)
Bomba, che oggi si raccoglie intorno ai ruderi del proprio castello, fu dapprima un tenimento dei benedettini; nel 1500 passò nelle mani di Giovanni Maria Annechino che ebbe però la sfortuna, durante la guerra franco-spagnola, di parteggiare per la fazione perdente, ossia la Francia. Questo gli costò castello e titolo, e dopo breve trovò la morte in circostanze misteriose. Il castello, dopo la parentesi degli Annechino, fu donato al capitano spagnolo don Diego de Sarmiento, e dopo diverse vendite e numerosi proprietari, come Giovanni Battista Marino e poi di suo figlio Vincenzo, arrivò infine nelle mani degli ultimi possessori in ordine di tempo: i marchesi Admari. Dopo l’estinzione di questo casato la struttura fortificata tornò al Regio Demanio verso la fine del 1600. Tra i suoi “figli” più illustri Bomba annovera Silvio e Beltrando Spaventa, statista di grande rilievo il primo, grande filosofo (è tra i più rinomati studiosi hegeliani in Italia) il secondo, entrambi ferventi patrioti, furono anche visitati da Garibaldi quando passò per l’Abruzzo; tra i tanti meriti ebbero quello di essere ideatori e promotori, nella seconda metà del 1800, della strada Sangritana, l’attuale statale 154. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Bomba ha conosciuto un notevole sviluppo grazie anche alla vicina strada a scorrimento veloce Fondo Valle Sangro, al Consorzio per la valorizzazione industriale e turistica della Valle del Sangro e alla cantina sociale che porta il nome del santo protettore, San Mauro, e che produce pregiati oli e ottimi vini, conosciuti e apprezzati in Italia e all’estero.
Nicoletta Travaglini
(1) A.A.V.V., “Lo specchio del pensiero – I Nephilim nella mitologia: erano giganti, i figli di Dio o qualcosa di completamente diverso?” aprile 6, 2013 di lospecchiodelpensiero in Mistero.
(2) A.A.V.V., “Dispensa erbe magiche e afrodisiache”, pagine 7,8,9.