Nato nel 1935 e morto nel 1977, il texano Tom Reamy è una figura oggi quasi dimenticata nell’ambito della letteratura fantastica e fantascientifica, eppure la sua limitata produzione lasciò il segno nel panorama americano degli anni Settanta. Attivissimo nel fandom e fondatore di diverse fanzine lui stesso, vide il suo racconto d’esordio, TWILLA, arrivare in finale al Premio Nebula nel 1974, mentre il successivo SAN DIEGO LIGHTFOOT SUE vinse il Nebula nel 1975.
Il suo unico romanzo uscì dopo la sua morte, nel 1978: BLIND VOICES (edizione italiana: LE VOCI CIECHE, Armenia, 1981). E lasciatemi dire che si tratta di un autentico capolavoro.
Ambientato nel 1930 nel paesino rurale di Hawley, Kansas, ha un folgorante inizio, in cui, dopo aver descritto in termini realistici e intensi la sonnolenta vita quotidiana del villaggio, si concentra su un gruppo di ragazzini che vedono arrivare contemporaneamente il camion che porta le pizze dei film destinati al locale cinema e la carovana del circo viaggiante Havestock; i ragazzini sono davanti a una difficile scelta: visitare il circo o andare al cinema per vedere il film in arrivo, ovvero il primo film sonoro, Il cantante di jazz?
Da qui in poi il romanzo intreccia un caleidoscopio di vicende e personaggi, incentrandosi su tre amiche adolescenti, Rose, Evelyn e Francine, e sulle meraviglie del circo, ovvero esseri simili a personaggi mitologici, dotati di fattezze e poteri straordinari, che sconvolgeranno la vita di Hawley ma ancor più quella delle tre amiche, facendo vivere loro esperienze ora drammatiche e dolorose, ora estatiche e meravigliose, in una specie di percorso formativo traumatico ma indelebile.
Reamy costruisce il romanzo con una sapienza sorprendente. Non solo miscela con cura certosina gli aspetti più tipici della letteratura popolare (colpi di scena, suspense, sensazionalismo), ma vi aggiunge una cura stilistica e una profondità psicologica degne della grande letteratura. I personaggi, “quotidiani” e fantastici, sono schizzati sempre con un’umanità intensa e coinvolgente, persino con affetto, e l’autore tiene sempre sotto controllo le molte sottotrame che si intersecano all’ombra del circo Havestock. Ma ciò che resta impresso di LE VOCI CIECHE è il suo stile poetico e coinvolgente, ma allo stesso tempo sobrio e misurato, capace di infondere pathos alla vicenda insieme a un suo peculiare sense of wonder, e di trovare la magia e lo stupore sia nella quotidianità di Hawley (a suo modo una terra mitica, ancestrale) che nelle vicende e nei personaggi del circo. Reamy sa ricreare con intensità anche lo sguardo stupito dell’infanzia e dell’adolescenza, mantenendo questo ammirevole “equilibrio stupito” di fronte alla gamma degli episodi, persino di fronte a quelli più spaventosi ed efferati (nemmeno l’orrore manca nel romanzo). Il momento più alto di LE VOCI CIECHE, a mio avviso, è quella del volo di Evelyn, su cui non mi dilungo per evitare spoiler, ma che è veramente uno degli episodi più emozionanti, coinvolgenti e toccanti che abbia mai letto in un romanzo, non solo fantastico.
A mio avviso LE VOCI CIECHE è un vero e proprio capolavoro dimenticato, che non mi risulta abbia avuto ristampe in Italia. Fu finalista al Premio Nebula 1978 e al Premio Hugo 1979.