7: GLI ENIGMI CHE NON ESISTONO – PARTE 01
“Anck-es-en-Amon, il mio amore ha resistito più a lungo dei templi degli dèi”.
La Mummia di Karl Freund – 1932
Esistono, sul nostro pianeta, e anche al di fuori di esso, dei luoghi, dei reperti, degli eventi che celano la loro origine, lo scopo per il quale esistono o per il quale sono stati costruiti. Attraverso aridi deserti, giungle misteriose, mondi di gelo o di fuoco, fino agli estremi limiti dell’universo conosciuto, collocati nel tempo e nello spazio, questi eventi sono arrivati a noi come un enigma, forse come un messaggio di antiche civiltà o di razze aliene. Se ciò è vero, sulla Terra, esseri provenienti dagli spazi astrali, hanno lasciato una traccia, un messaggio che ancora oggi noi stiamo cercando d’interpretare e che già fin d’ora ci dicono che Noi non siamo soli.
Le linee di Nazca
Nel lontano Perù, nella valle del Dio Nazca, esiste uno strano pianoro che prende il nome dall’omonimo fiume. Esso si trova in una zona compresa tra le Ande peruviane e l’Oceano Pacifico e che è chiamata Valle di Palpa o El Ingenio. Sopra questo altopiano coperto da una brulla roccia e privo di vegetazione, si notano, al livello del suolo, delle strane strisce dovute a mani umane che hanno “grattato” la crosta dell’altipiano mettendo a nudo la roccia di colore più chiaro.
Nel 1939 una squadriglia di aerei osservò degli strani segni che attraversavano l’altipiano incrociandosi e spargendosi in tutte le direzioni, non vi era nessun significato apparente in queste strisce distanti tra loro anche centinaia di metri, esse solcavano il terreno come arcaici segni di confini per coltivare il nulla, perché nulla cresce su quella roccia desolata.
Ma questi segni, visti dall’alto, assumono un significato ben diverso e molto più sconcertante: le linee si associano per formare perfette figure di animali. Ecco quindi dall’alto nascere, come per incanto, un pesce, una scimmia, una lucertola o un uccello, tutti perfettamente eseguiti e tutti osservabili solo da grande altezza. All’epoca in cui questi disegni furono realizzati, e cioè migliaia di anni fa, era pensabile parlare di volo umano? Sì, forse, una delle ipotesi cosiddette razionali, parla di indigeni che si levano in aria attraverso mongolfiere ottenute cucendo fra loro delle pelli e riempite d’aria calda o anche potevano lanciarsi dagli altipiani con l’antenato di quello che noi oggi chiamiamo deltaplano.
Ora, pensiamoci bene, a che scopo tutto questo lavoro? Se anche fosse vera questa ipotesi era per permettere solo a pochi audaci di osservare questi disegni dall’alto? O era forse il volo planare un’attività alla quale tutti si dedicavano? Francamente la cosa non sembra credibile, così come sembra molto macchinoso il tracciare dei segni, andarseli a controllare a grande altezza e poi tornare giù per continuarli.
L’antropologo americano William H. Isbel dell’Università di New York, ha cercato di troncare quelle che lui stesso definiva fantasiose ipotesi su Nazca e di porre una possibile ipotesi in linea con la scienza tradizionale. Egli, infatti, asserisce che la creazione di questi disegni serviva, in pratica, per mantenere la popolazione impegnata nella costruzione di grandi opere di significato religioso richiedenti molta manodopera. Quindi, in parole povere, tenere impegnate queste persone per impedire loro di procreare rendendo quindi possibile e stabile un equilibrio demografico che potesse permettere a tutti di nutrirsi. Sarebbe come se ci ordinassero di fare castelli di sabbia o scavare buche e che, alla fine della giornata, il lavoro fatto ci rendesse così stanchi da farci cadere stremati sul letto in un sonno ristoratore sotto gli occhi in parte preoccupati e in parte inferociti di nostra moglie. Il fatto che poi questi disegni fossero visibili solo da grande altezza è, per lo studioso, di secondaria importanza… E allora?
L’ipotesi che ancora oggi gli studiosi di quella che viene definita ironicamente come “Archeologia Spaziale” ci viene tramandata è quella di piste d’atterraggio per mezzi alieni create dagli indigeni per permettere loro di riconoscere la piana di Nazca da grande altezza, tanto è vero che fin dagli Shuttle in orbita sono osservabili questi segni, e di scendere senza ulteriori difficoltà in un posto ben definito.
Sebbene le linee siano state avvistate con maggiore chiarezza e frequenza con l’avvento dei voli di linea sull’area, esse sono visibili anche dalle colline circostanti, tanto che dall’alto di una collina nel 1927 Toribio Meija Xespe le identificò con dei sentieri cerimoniali (“seques”).
Nel 1939 furono studiate da Paul Kosok, un archeologo statunitense, che ipotizzò che l’intera piana fosse un centro di culto.
Hans Horkheimer nel 1947 suppose invece che questi tracciati fossero una forma di culto degli antenati: per lui erano sentieri tracciati utilizzati appunto come tracce dove camminare durante le cerimonie religiose.
Chi diede però un contributo decisivo allo studio delle linee di Nazca fu l’archeologa tedesca Maria Reiche. Ella si dedicò con passione allo studio e al restauro dei geroglifici e a lei si deve la scoperta di alcuni di essi che non erano stati documentati in precedenza, né da Mejia, né da Kosok. La Reiche suppose che le linee avessero un significato astronomico, identificando la figura della Scimmia con l’Orsa Maggiore, il Delfino e il Ragno con la Costellazione di Orione, ecc. La Reiche affermava anche che le figure erano state create da veri e propri tecnici e ingegneri dell’epoca. Sulla stessa linea era anche Phyllis Pitluga, una ricercatrice dell’Alder Planetarium di Chicago che, studiando il rapporto tra le linee e le stelle nel cielo, giunse alla conclusione che il ragno gigante rappresentava la costellazione di Orione, mentre tre linee rette che passano sopra al ragno erano dirette verso le tre stelle della cintura di Orione, se osservate da un certo punto della pampa.
Nel 1967 Gerald Hawkins, astronomo inglese noto per i suoi studi nel campo dell’archeoastronomia, non trovò invece alcuna correlazione tra i disegni di Nazca e i movimenti dei corpi celesti.
Lo zoologo Tony Morrison studiò le linee con Gerald Hawkins; nel suo libro del 1978, “Pathways to the Gods”, Morrison citava un brano scritto dal magistrato spagnolo Luis de Monzon nel 1586, riguardo alle pietre e alle antiche strade vicino Nazca:
«I vecchi indiani dicono [...] di possedere la conoscenza dei loro antenati e che, molto anticamente, cioè prima del regno degli Incas, giunse un altro popolo chiamato Viracocha; non furono numerosi, furono seguiti dagli indios che vennero su loro consiglio e adesso gli indios raccontarono che essi dovevano essere dei santi. Costruiranno per loro i sentieri che vediamo oggi».
Morrison riteneva di aver individuato la chiave per spiegare il mistero delle linee di Nazca, individuando il leggendario eroe-maestro Viracocha, noto anche come Quetzalcoatl e Kontiki, il cui ritorno era ancora atteso al momento dello sbarco di Cortés. Gli “antichi indios” disegnarono figure poiché pensavano che Viracocha sarebbe tornato, questa volta scendendo dal cielo, e i disegni rappresentavano dunque dei segnali.
Anche la storica peruviana Maria Rostworowski de Diez Canseco studiò le linee interpretandole come luogo di segnalazione al dio Viracocha. Secondo la Rostworowski a ogni figura corrisponderebbe un clan (“ayllu”) degli adoratori di Viracocha, che avrebbero disegnato le linee per segnalare al proprio dio il luogo dove essi si trovavano quando egli sarebbe ritornato.
Il primo studio serio su questi disegni è dovuto all’equipe di archeologi Markus Reindel (della “Commissione per le culture non-europee” dell’Istituto Archeologico Tedesco) e Johnny Isla (dell’Istituto Andino di Ricerche Archeologiche). Essi hanno documentato e scavato più di 650 giacimenti e sono riusciti a tracciare la storia della cultura che impresse questi disegni, oltre a dargli un senso, e giunsero alla conclusione che le linee hanno a che vedere molto più probabilmente con rituali collegati all’acqua, piuttosto che con concetti astronomici. L’approvvigionamento idrico, infatti, giocò un ruolo importante in tutta la regione. Gli scavi hanno inoltre portato alla luce piccole cavità presso i geoglifi nelle quali furono trovate offerte religiose di prodotti agricoli e animali, soprattutto marini. I disegni formavano un paesaggio rituale il cui fine era quello di procurare l’acqua. Inoltre furono trovati paletti, corde e studi di figure. Di questi elementi tanto semplici si servirono gli antichi Nazca per tracciare i loro disegni.
Sono molte le ipotesi su come i Nazca abbiano disegnato le linee, spaziando da quelle più plausibili a quelle più fantasiose.
Tecnicamente le linee di Nazca sono perfette. Le rette chilometriche sono tracciate con piccolissimi angoli di deviazione. I disegni sono ben proporzionati, soprattutto se pensiamo alle loro dimensioni. Queste linee sono la testimonianza di una grande conoscenza della geometria da parte degli antichi abitanti di questa zona.
L’ipotesi più accreditata e realistica circa la loro costruzione induce a pensare che gli antichi peruviani abbiano dapprima realizzato disegni in scala ridotta che sarebbero stati successivamente riportati (ingranditi) sul terreno con l’aiuto di un opportuno reticolato di corde (in maniera simile a come fece Gutzon Borglum, l’artista che scolpì i volti dei Presidenti statunitensi sul monte Rushmore). Quest’ipotesi sarebbe avvalorata anche dai reperti archeologici rinvenuti da Reindel e Isla durante i loro studi.
Inoltre, come abbiamo già rilevato, non è del tutto esatto il fatto che le linee non si possano osservare da terra: infatti ci sono molte colline e montagne nell’area di Nazca che avrebbero permesso agli artisti di osservare il proprio lavoro in prospettiva. C’è da tener presente anche che, sicuramente, appena disegnate, le linee dovevano essere ben visibili, di colore giallo brillante, come le impronte recenti di pneumatici che passano nella zona.
Va anche ricordato che le linee si sono conservate perfettamente fino ai nostri giorni perché la zona è una delle più aride del mondo e quasi del tutto priva di vento e pioggia.
Ancora oggi il mistero permane, nulla è assoluto, nulla è sicuro, almeno secondo gli irriducibili fautori della archeologia spaziale o della scienza alternativa, i quali ritengono che le ipotesi e le dimostrazioni fornite dalla Scienza Ufficiale, non siano sufficienti a spiegare quelle linee perfette che sono ancora lassù e che forse aspettano di poter riprendere il compito per il quale sono state create.
Ma le Piste di Nazca non sono le uniche esistenti, potremmo infatti parlare del Candeliere delle Ande, un disegno alto 240 metri che è stato scavato su una scogliera a Paracas, in Perù, nella baia di Pisco. La gigantesca immagine era dotata di una enorme fune la quale era attaccata alla parte centrale della figura e si notavano i segni di altre corde che erano originariamente attaccate agli altri due bracci del gigantesco candeliere e poi vi era anche uno strano congegno il cui uso è rimasto ancora ignoto a tutt’oggi ma che fece suggerire a Robert Charroux nel suo libro “Storia Sconosciuta degli Uomini” che possa trattarsi di un sistema per calcolare le maree oppure un enorme sismografo, ma, naturalmente, c’è stato il nostro solito ufologo fantasioso che ha parlato di un segnale indicante dall’alto lo spazioporto di Nazca.
Nel deserto di Atacana, a Cerro Unitas, una specie di robot gigante alto 120 metri sembra indicare la strada per il Perù, sentinelle inquietanti di un passato avvolto sì nel mistero, ma che non sembra presentare tracce di entità aliene.
Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo (Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull) di Steven Spielberg del 2008 inizia nel Deserto del Nevada, nel 1957. Un commando di militari sovietici espugna una base segreta americana, l’Hangar 51, conducendovi Indiana Jones e la sua spalla George “Mac” McHale. Il comandante dei sovietici Irina Spalko intende servirsi del dottor Jones per trovare una particolare cassa contenuta tra migliaia di altre in un deposito, poiché dieci anni prima l’uomo aveva avuto occasione di esaminarne il contenuto, dei resti di un essere apparentemente extraterrestre. Mentre l’attenzione di tutti è catalizzata sul contenuto della cassa, Jones tenta di rovesciare la situazione a suo favore, ma Mac lo ostacola, rivelando di essere al soldo dei Russi. L’eroe riesce comunque a scappare, e si ritrova al centro di un test atomico, al quale miracolosamente sopravvive, per poi essere recuperato dai militari Usa. Decontaminato dalle radiazioni, a causa della sua amicizia con Mac viene sospettato dagli agenti dell’FBI di essere una spia comunista (siamo in tempo di maccartismo), tanto che al ritorno al Marshall College il suo ufficio viene sottoposto a una ispezione, mentre Charles Stanforth, amico e preside del college, arriva anche a dimettersi pur di difenderlo. Jones, messo in aspettativa dal College, decide di lasciare gli Stati Uniti, per stabilirsi a Londra. Poco prima di partire però, il giovane Mutt Williams gli chiede aiuto: sua madre è stata rapita mentre si interessava della scomparsa del professor Oxley, il quale le aveva lasciato una lettera indecifrabile, che la donna aveva giudicato comprensibile soltanto da Jones. L’uomo intravede una pista che porta a Nazca, in Perù, verso il Teschio di Cristallo di Akator, un manufatto leggendario oggetto di venerazione e paura. Sulle sue tracce vi sono anche agenti del KGB, che interrompono i due e li costringono a una rocambolesca fuga in moto per il campus universitario. Giunti in Perù, scoprono che Oxley era impazzito, e visitando la cella di un sanatorio in cui era stato rinchiuso, trovano la mappa del cimitero in cui è stato sepolto il conquistador spagnolo Francisco de Orellana, che aveva visitato la mitica El Dorado, e portato via da essa il Teschio. Recuperato l’oggetto, ed evitato gli indios custodi delle tombe, i due vengono rapiti dai sovietici. La Spalko è convinta che il possesso del Teschio fornisca a chi lo possiede poteri mentali e conoscenza, e decide di servirsi di Jones per scoprire sia come usare il Teschio, sia la strada per la mitica Città d’Oro. Per ottenerne la collaborazione, Jones viene ricattato minacciando la morte di Mutt e la madre, che si rivela essere Marion Ravenwood, sua vecchia fiamma. Interrogando il professor Oxley, ormai apparentemente delirante, Jones riesce a trovare la strada da percorrere. Tentando di fuggire dai russi, Marion e Jones finiscono nelle sabbie mobili, e in previsione di morte certa, la donna rivela all’ex fidanzato che Mutt è suo figlio, e che il suo vero nome è Henry Jones III. Vengono poi salvati proprio dal giovane, ma vengono fatti nuovamente prigionieri. Durante la ricerca, si ripresenta l’occasione per fuggire, e Mac li accompagna, poiché rivela di essere un agente della CIA, e di fare quindi il doppio gioco. Uno scontro con formiche giganti divide i russi dai cinque, e dopo cascate e catacombe, giungono all’ingresso della Città d’Oro. Sfuggiti alla tribù di indios, riescono ad attivare un congegno ed entrano nel tempio. All’interno vi trovano opere antiche di tutte le civiltà, ori e preziosi, ma soprattutto una sala contenente tredici scheletri di cristallo, di cui uno mancante del teschio. Ma ricompaiono i russi, poiché Mac aveva lasciato loro una scia di segnalatori per farsi raggiungere, essendo sempre stato loro alleato. La Spalko colloca il Teschio al suo posto, il quale, parlando in antica lingua Maya per bocca del professor Oxley, manifesta la sua gratitudine. Le antiche entità extraterrestri si fondono in una sola creatura, che apre un varco dimensionale che risucchia Mac e tutti i russi, mentre la donna si disintegra, come bruciata dall’incredibile quantità di sapere che l’essere le dona come “ricompensa”. L’intera città era posta su un disco volante che si alza e scompare nel cielo. Indiana Jones torna a insegnare all’università, e finalmente lui e Marion convolano a nozze.
(1 – continua)