FABIO ZANELLO… OLTRE LE FRONTIERS, CON LA PARTECIPAZIONE STRAORDINARIA DI AURORA AUTERI, GIANLUCA CASTOLDI, RUDY SALVAGNINI, FRANCESCO SAVERIO MARZADURI E SHATTER EDIZIONI

SHATTER Edizioni nasce con l’intento di promuovere, in un mercato nel quale anche il cinema di genere è ormai diventato (e considerato) un mero prodotto a causa di un “revival” che ne ha snaturato ogni fine, titoli “originali”, che esulano dalle restrittive leggi del commercio e riesumano dalle più profonde tenebre autori e opere ingiustamente poco considerate dalla critica di massa. FRONTIERS rientra a pieno titolo di diritto nella nostra collana CINEMA. Il saggio a cura di Zanello è un’immersione nel profondo abisso umano. Se volete oltrepassare il confine della follia, quest’analisi del cinema horror franco-belga fa al caso vostro!

Ed è con questo spirito e con queste parole dell’editore, che abbiamo deciso di intervistare proprio Fabio Zanello e alcuni ospiti di questo saggio.

CIAO FABIO E BENTORNATO SULLA ZONA MORTA. STAVOLTA TI RITROVIAMO CON UN LIBRO DAVVERO “CATTIVO”: “FRONTIERS – IL CINEMA HORROR FRANCO-BELGA DEGLI ANNI ZERO” E’ DAVVERO UN VOLUME CHE TRATTA ARGOMENTI TOSTI… VUOI RACCONTARCI COME NASCE QUESTA IDEA E DA COSA DERIVA LA TUA PASSIONE PER QUESTO GENERE CONSIDERATO DA MOLTI DI NICCHIA, MA CHE INVECE HA UN BUON SEGUITO SIA DI PUBBLICO SIA DI CRITICA?

Ti ringrazio per aver usato l’aggettivo “cattivo” e mi sembra oltremodo necessario adottarlo. Infatti i cineasti della regione francese trattati in questo studio, oggi filmano la cattiveria e il pessimismo come pochi altri. Intendo sottolineare che questi tratti distintivi mancano purtroppo nelle produzioni americane di questi anni zero. Fatta eccezione per qualche autore con i fiocchi come Ari Aster, Bret Wood, Jordan Peele e Rob Zombie, l’horror d’oltreoceano è attualmente anestetizzato dalla pratica del remake, del reboot e dei filmetti riservati esclusivamente agli adolescenti. Quindi l’idea è nata anche da questa urgenza di scandagliare un movimento artistico che nella vecchia Europa ha realizzato dei film di genere nell’arco di un ventennio complessi e stratificati, quasi mai derivativi dai modelli statunitensi. Quando all’inizio del nuovo millennio furono distribuiti dei film come “Alta tensione” di Alexandre Aja, “Frontiers” di Xavier Gens, che dà il titolo al nostro collettaneo, “Martyrs” di Pascal Laugier, “À l’intérieur” di Bustillo e Maury e “Calvaire” di Fabrice du Welz nessuno poteva immaginare che sarebbe stata l’alba non solo di una nuova ondata di autori orrorifici, ma anche di quella che il critico canadese James Quandt ha definito la New French Extremity. Quandt ha tentato per primo una disanima critica del fenomeno in un articolo apparso sulla rivista “Artforum”, dove oltre ai registi affrontati nel libro si è occupato anche di autori come Leos Carax, Catherine Breillat, Gaspar Noé e François Ozon che pur non essendo del tutto ascrivibili all’horror, tuttavia spesso nei loro lavori tematizzano sempre lo scabroso e l’estremo. Tu parli di un buon seguito di pubblico e critica, il problema è che questo consenso si esplicita di più all’estero che nei luoghi d’origine di questi registi. E’ vero che parecchi dei film menzionati nel libro hanno goduto di un’anteprima mondiale a Cannes, ma nell’industria francese questi autori sono marginalizzati e se non esistessero i festival, le piattaforme digitali e i DVD il loro talento sarebbe circoscritto direttamente all’underground. In Francia solo la critica di riviste specializzate come “Starfix” e “L’Ecran Fantastique” concede loro lo spazio che meritano. Tu pensa che scandagliando la rete ho trovato un saggio di un nostro docente universitario su “Martyrs” di Laugier, per farti capire quanto è stata calorosa nel nostro paese la risposta verso questo cinema. La sorte di questi registi mi ricorda quella che la nostra critica riservò per decenni a Mario Bava e Lucio Fulci, considerati spesso dei fari dai registi trattati nel volume. Ritengo anche che tragedie storiche dell’area francofona come le 1375 persone fatte ghigliottinare da Robespierre durante la Rivoluzione, le perversioni del Marchese De Sade e la sanguinosa lotta fra Valloni e Fiamminghi abbiano suggestionato del tutto l’immaginario dei membri della New French Extremity, poichè in alcuni di questi racconti filmici è rintracciabile senza dubbio un afflato politico, come accadeva nel new horror americano dei Settanta/Ottanta .

COME HAI OPERATO LE SCELTE DEI REGISTI E DEI FILM DA INSERIRE IN QUESTO SAGGIO?

Con la pignoleria che mi contraddistingue, ho cercato di non dimenticare nessuno degli esponenti di punta del movimento, perlomeno quelli che hanno mostrato nel tempo più di altri un’indiscussa autorialità e mi sono prodigato soprattutto nell’appendice del volume di non tralasciare neppure autori più sofisticati come Francois Ozon, Bertrand Bonello e Claire Denis, che pur dedicandosi sporadicamente al genere hanno realizzato dei progetti decisamente degni di nota. Voglio precisare che un’alta percentuale di questi film, li ho scoperti grazie anche a un festival come il “Tohorror” e a riviste come “Nocturno”, che hanno contribuito a sdoganare questa filmografia nel nostro paese.

COME HAI DECISO DI PROCEDERE NELLA RACCOLTA DEL MATERIALE? QUAL È STATA LA PARTE PIÙ DIFFICILE NELLA STESURA DI QUEST’OPERA?

Durante le visioni che mi avevano particolarmente colpito come spettatore, prendevo spesso appunti, che ho poi sistemato meglio nella stesura dei miei capitoli. Ammetto anche di aver elaborato annotazioni su registi di cui non mi sono occupato personalmente nel libro, forse perchè ho l’abitudine di scribacchiare sempre qualcosa sui film che mi seducono in generale. Come succede spesso, la fase della ricerca bibliografica è stata quella più ardua, anche perchè il numero di articoli e saggi anche stranieri sull’argomento al momento è piuttosto esiguo.

IN QUESTO PROGETTO TI SEI FATTO AIUTARE ANCHE DA MOLTI NOMI NOTI CHE HANNO DATO UN IMPORTANTE CONTRIBUTO A QUESTO VOLUME. CE NE VUOI PARLARE?

Per realizzare un progetto come questo sarebbe stato presuntuoso e stupido da parte mia non coinvolgere degli espertoni del cinema horror come Rudy Salvagnini, Gian Luca Castoldi e Danilo Arona che hanno formato molti critici della mia generazione nell’approfondimento di questo genere con le loro precedenti pubblicazioni.

E COME E’ STATA DECISA LA RIPARTIZIONE DEI LAVORI?

Ti racconto un aneddoto, giusto per farti comprendere una delle mie metodologie di lavoro. Partendo dal presupposto che una delle peculiarità nell’horror franco-belga è quello della rappresentazione della donna in tutte le sue declinazioni in contrapposizione alla final girl, la ragazza scampata ad un massacro che l’horror americano ci ha propinato tante volte, mi sono così impuntato sulla tematica della caratterizzazione della femminilità in questo cinema. E se è vero che l’horror franco-belga è femmineo e non fallocratico e lo dimostra anche la presenza di donne dietro la cinecamera come Coralie Fargeat e Julia Ducornau che hanno realizzato rispettivamente opere davvero potenti come “Revenge” e “Raw”, mi sembrava opportuno per esempio affidare ad una critica come Aurora Auteri il saggio su queste cineaste. Così per traslazione lo sguardo femminile si è trasferito da chi filma la finzione cinematografica a chi ne scrive.

E ADESSO LASCIAMO LA PAROLA PROPRIO A LORO…

COME NASCE LA TUA PASSIONE PER QUESTO GENERE?

Aurora Auteri: Nasce sotto mentite spoglie, direi, da un brevissimo passaggio di “Capitani coraggiosi” di Kipling, quando Dan, uno dei protagonisti, “pesca” inaspettatamente un cadavere che emerge con prepotenza non solo dalle acque ma anche da quelle pagine fin lì apparentemente calme. Ero una bambina e quella paura improvvisa mi aveva scossa e allo stesso tempo entusiasmata, ero stata presa all’amo e da lì non mi sono più staccata, seguendo la scia, naturalmente, di Stephen King e di quello che la cinematografia horror mondiale aveva da offrire (e in questo è sempre stata molto generosa). “L’occhio che uccide” ha fatto parte, tra gli altri, della mia tesi di laurea specialistica, ho collaborato con webzine dedicate all’horror e approfondito questo genere nel cinema giapponese e coreano. Nella lingua giapponese, il termine “shiki shin funi” esprime sia il significato di “mente” sia quello di “corpo”: la forza dell’horror penso sia soprattutto racchiusa nell’innesco di questa identificazione, per cui nello spettatore la paura si fa sussulto del corpo e il sussulto del proprio corpo genera in lui paura.

Gianluca Castoldi: Ho sempre amato il cinema di fantascienza e horror sin da quando i miei genitori mi portavano al cinema da bambino. Alla telvisione (c’era solo la Rai all’epoca) trasmettevano poche cose di genere horror e le videocassette erano ancora nella mente di Dio.

Rudy Salvagnini: Da bambino mi portavano regolarmente al cinema ogni settimana nello stesso cinema, qualunque cosa dessero. Così ho visto ogni genere di film, tra quelli vedibili dai ragazzini: era un cinema parrocchiale e lo spettacolo era quello pomeridiano. Mi sono accorto in questo modo di essere attratto dagli aspetti orrorifici e fantastici che di tanto in tanto spuntavano nei film più disparati, soprattutto nei peplum: ricordo in particolare che mi piacque molto “Ercole al centro della Terra” di Bava con Christopher Lee. In quel cinema però vidi anche “Fluido mortale” e quello fu il film che mi attrasse all’horror: una creatura micidiale e silenziosa, quanto di più spaventoso era possibile. Ma mi colpirono molto anche “L’invasione dei mostri verdi” e “Il pianeta dove l’inferno è verde”. L’imprinting horror si era realizzato.

Francesco Saverio Marzaduri: Sinceramente, nel mio caso, non si può parlare di passione. A dispetto di altri colleghi, reali cultori del genere, la proposta fattami da Fabio Zanello di far parte, anch’io, di quest’opera collettiva, si potrebbe definire una scommessa. Non sapendo granché sull’horror franco-belga, né quanta produzione il genere in questione e i suoi autori avrebbero raccolto negli anni, mi ha poi impressionato scoprire l’assortita varietà dei loro lavori. Credo che il piacere della ricerca sul campo tragga origine dall’effetto-sorpresa che scaturisce dall’occuparsi di cineasti considerati di nicchia, con un proprio specifico pubblico, sui quali spesso non c’è molto materiale bibliografico, perlomeno in Italia. Sicché, ritengo che la scommessa di “Frontiers” nasca prevalentemente in virtù di tale considerazione.

CONCLUDIAMO CON L’ULTIMA DOMANDA. IN BASE A QUALE PRINCIPIO HAI SCELTO IL TUO ARGOMENTO?

Aurora Auteri: Entrambi i film (“Raw” e “Revenge”, ndr) hanno un punto di non ritorno: la “trasformazione” delle loro protagoniste che ti esplode in faccia, senza avvisarti, senza timore, senza misura. Una potenza, un crescendo per cui tutto quello che vediamo è una presa di coscienza da parte delle protagoniste, seguita da una reazione, una trasformazione nella mente e nel corpo, una spinta propulsiva: le due donne toccano il fondo per poi scattare verso l’alto, uscendo dal tunnel in cui erano state lanciate. Sono Decournau e Fargeat ad azionare mirabilmente e senza censura il detonatore. Chi meglio di due registe avrebbe potuto rappresentare il corpo lesionato e autoaffermato, in tutto il suo soffrire e in tutta la sua volontà di riscatto? Cambia il punto di vista, la coccarda del più forte è appuntata a un diverso petto da due registe che, come le loro protagoniste, non hanno paura né di osare né di mostrare la cruda realtà per quel che è. Poter collaborare a questo testo è stata una fantastica occasione, di cui ringrazio Fabio Zanello, che mi ha permesso di muovermi all’interno di un genere troppo spesso associato solo a determinate (altre) nazioni e approfondire e presentare Decournau e Fargeat, la frontiera del “nuovo” esplosivo e per nulla scontato che tutti dovrebbero oltrepassare senza pregiudizi.

Gianluca Castoldi: Ho scelto Alexander Aja percè ero rimasto folgorato da “Alta Tensione” che ritengo ancora uno dei migliori horror del suo decennio. Il resto è arrivato a traino.

Rudy Salvagnini: Ho scelto Laugier perché è un autore interessante, che ha sviluppato una filmografia composita, coerente e qualitativamente consistente. Era quello che mi attirava di più, ai fini di un esame critico.

Francesco Saverio Marzaduri: La scelta di analizzare Gaspar Noé è stata anch’essa una proposta di Fabio. Benché il pubblico lo ricordi soprattutto per “Irréversible”, la mia analisi si fonda su un principio ragionato: l’orrore preconcettuale che l’autore insinua sin dalle opere degli esordi, secondo un procedimento ipnotico che sprigiona di lì a poco. Nel mare magno di prodotti da lui firmati – che annovera corti e videoclip, spot e lungometraggi corali – l’intento è illustrare tale concezione dell’orrore attraverso due lavori tra i più conosciuti dell’autore argentino, il cui sguardo a seguire si dipana con esiti altalenanti, e talvolta discutibili, prima d’incontrare l’esatto punto di fusione nella delirante bolgia di “Climax”, sua ultima fatica. Eppure, anche in una filmografia che dell’eccesso fa il proprio vessillo, ribrezzo e raccapriccio assumono contorni insospettati e più intimi: il segmento “SIDA”, incluso nel collettivo “8”, ostenta l’agonia dell’attore sieropositivo Dieudonné Ilboudo nei suoi denudanti effetti. La morte in diretta, “quid” intoccabile stando alle teorie baziniane, ha avuto vari tentativi di esibizione, dall’omonimo film di Tavernier al “Nick’s Movie” di Wenders, ma qui è più forte (e insostituibile) di qualsiasi macabra messinscena.

Davide Longoni