FRANKENSTEIN DI MARY SHELLEY

Soltanto la sensibilità di una donna poteva inventare una creatura mostruosa, ma al contempo così tragica e dolorosamente umana.

Non mi voglio dunque soffermare troppo sulla trama – che citerò per sommi capi -, poiché, in questo mio commento su di un classico ante litteram dell’horror qual è appunto FRANKENSTEIN di Mary Shelley, ciò che intendo piuttosto evidenziare – al di là dell’assoluta originalità di una creatura così difforme e non catalogabile quale è in effetti il monstrum (nel senso latino di “straordinario”, “fuori dall’ordinario”), nato dalla fantasia della scrittrice inglese – è la presa di coscienza di quanta imprevedibile, inconcepibile umanità possa abitare in realtà in una forma così in apparenza orrida e repulsiva alla vista di chiunque.

Frankenstein si può comunque definire un romanzo epistolare: la storia è infatti narrata attraverso le lettere che il capitano Robert Walton inizia a scrivere alla sorella al fine di raccontarle di una sua missione al Polo Nord, dove si trova tra l’altro a incontrare il professor Victor Frankenstein.

Lo scienziato finirà con il raccontargli la sua drammatica vicenda di vita, derivata dalla passione, da sempre coltivata, per miracoli della scienza, e ossessionato inoltre dalla sua personale utopia di dare vita alla materia inanimata.

Dalle radici stesse del desiderio dell’essere umano di divenire immortale nasce infatti il progetto del professor Frankenstein di provare a ridare la vita ai cadaveri.

Affascinato dalle nuove teorie legate all’invenzione dell’elettricità, il professore, dopo aver assistito a un esperimento realizzato su di una rana morta che, sottoposta a delle scosse elettriche, pare riprendere vita, nella sua folle impresa, pur di portare avanti e provare poi a realizzare il suo morboso intento, non esita a ricorrere alle ritualità e agli esperimenti più macabri al fine di procurarsi dei cadaveri. Ricomponendone poi i vari pezzi ritenuti in miglior stato di conservazione, Frankenstein creerà un nuovo essere composito a cui, in seguito, propinandogli, con diverse frequenze, forti scariche elettriche, tenterà di restituire la vita.

Il procedimento, dopo alcuni tentativi falliti, avrà infine successo e la mostruosa creatura prenderà realmente vita, anche se sarà afflitta da deficit cognitivi ma, soprattutto, sarà terrorizzata “da” e “di” se stessa, poiché non sa chi è, né quale ruolo o posto, nella sua diversità, avrà mai nell’esistenza e che si trova dunque a essere destinata a priori a una desolante solitudine.

Pur infatti nella sua mostruosità, la creatura, come del resto tutte le creature viventi, ha necessità di sentirsi amata, compresa, ma, in un suo oscuro modo, comprende che ciò per lei non sarà mai possibile.

Come accade allora anche a tutti noi, quando non ci si sente amati e ci viene negata qualsiasi forma d’empatia, si finisce dapprima con l’isolarsi, con il richiudersi sempre di più in se stessi, sino, con il tempo, a divenire aggressivi, pieni di astio verso tutto e tutti… atteggiamenti che il più delle volte rischiano poi con lo sfociare in atti di vera violenza.

Tanto più ciò non può non accadere in una creatura già di per sé incompleta, difforme, assai poco attraente secondo i canoni comuni, reietta e rinnegata come sarà da tutto il consesso umano, compreso il suo stesso creatore.

La creatura mostruosa, allontanata e misconosciuta anche quando tenterà di rendersi utile e di fare del bene, finirà inevitabilmente con il trasformarsi in un essere sanguinario, pieno di odio e di livore. Non esiterà infatti a uccidere dapprima William, Il fratello di Frankenstein, e in seguito, avendogli il suo creatore negato la possibilità di avere una compagna simile a lui, con la quale poter almeno condividere la sorte, deciderà di uccidere anche Elisabeth, la donna amata dal professore, e porterà a termine il suo progetto, come d’altronde aveva promesso, proprio durante la notte di nozze.

Da lì l’inseguimento per fermare la creatura da parte dello stesso Frankenstein, sino ai confini de mondo… il Polo Nord appunto.

Stroncato dalla paura e dal dolore il cuore di Frankenstein cederà e toccherà proprio a Walton intravedere la mostruosa creatura, affranta e piangente accanto al cadavere del suo creatore, con sulla mostruosa bocca parole di rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato.

Nessuno poi lo vedrà più, né saprà più nulla di lui…

Eppure se si potesse prescindere dall’involucro – e ciò dovrebbe valere per ogni essere umano – sarebbe l’interiorità quella che emergerebbe e cioè la vera essenza che ci costituisce – malvagia o buona che sia –, il nostro più vero io.

E “l’interiorità” – se non vogliamo definirla anima – della patetica creatura, creata dall’orgoglio e dalla superbia smisurata dell’uomo – qui impersonati da Frankenstein – prometteva di essere di elevata materia… un essere che, se amato e compreso, al di là del suo aspetto orripilante, avrebbe saputo, a sua volta, dare amore e persino riuscire a vivere in empatia con gli altri esseri viventi, cosiddetti normali, ma assai più di lui incapaci di offrirgliela.

L’epilogo della vicenda, tra l’isolamento delle più impervie lande desolate e innevate, possiede una sua intrinseca maestosità dove è la natura stessa che, priva finalmente degli esseri umani, pare accogliere e tornare ad appropriarsi di una creatura che, in un modo o nell’altro, ormai comunque le appartiene.

Quale curiosità letteraria, mi piace sottolineare, tenuto conto dell’assoluta originalità della storia, nonché della sua prosa innovativa, asciutta ed elegante al contempo, quanto invece Mary Shelley, in qualità “di donna” e calata poi in un contesto storico (l’Ottocento), sessista e in gran parte misogino, abbia dovuto lottare per imporre la sua opera – considerata ora un classico ineludibile nel panorama letterario -, tanto da dover ricorrere, per vederla infine pubblicata, all’escamotage di attribuirne la paternità al marito, il famoso poeta Percy Shelley che, soltanto per rispondere a un obbligo morale, durante la presentazione ufficiale dell’opera al popolo dei lettori, ne svelò infine l’inganno.

Myriam Ambrosini