Luciano Parinetto, filosofo bresciano scomparso nell’ormai lontano 2001, si è occupato a più riprese di stregoneria e capitalismo, oltreché di una lettura eretica e originalissima di Marx. In un volume collettaneo del 2012 curato da Manuele Bellini – “Corpo e Rivoluzione, sulla filosofia di Luciano Parinetto”, Mimesis 2012, gli articoli di Marta Villa e Nicoletta Poidimani inquadrano bene l’argomento. La Villa sottolinea l’interesse poliedrico del pensiero di Parinetto, che spazia dalla filosofia all’antropologia. La Poidimani si concentra sull’attualità della caccia alle streghe, cui Parinetto ha dedicato buona parte delle sue ricerche. È proprio la Poidimani ad aggiornare la lettura di Parinetto all’oggi, legandola alla streghizzazione dei migranti, dei diversi, fino allo sfruttamento delle classi lavoratrici flessibili degli ultimi vent’anni, citando nella bibliografia il lavoro di Renato Curcio. Ci arriveremo…
Per ora diamo luce a Luciano…
In un altro volume del 2018, Manuele Bellini, in un capitolo del libro “Dialettica del diverso, marxismo e antropologia in Luciano Parinetto” (Mimesis, 2018), spiega chi è la strega per Parinetto: la strega è un concetto in cui figurano anche i bambini, gli omosessuali, gli eretici, insomma i diversi, costretti per definizione a vagabondare ai margini del mondo moderno, fantasmi nelle pieghe di un Capitale che comincia ad accumularsi sul basso prezzo del lavoro, inglobando quanti più disperati possibili ed eliminando gli schiavi che rifiutano a sottomettersi, che non possono o non vogliono integrarsi nel nuovo sistema socio economico. Le streghe insomma diventano l’originale paradigma di ogni ceto che non accetta il mercato del lavoro che passa dal lavoro di tipo medievale a quello proletario della rivoluzione industriale. Parallelamente in questo lavoro, Parinetto ricerca le tracce di una cultura alchemica anche nella prosa di Marx, costruendo un approccio critico e radicale che, dagli anni ’90, con la caduta del Muro di Berlino e la fine di una “cultura marxista”, sembra precipitato in una rimozione e in un disorientamento culturale. Eppure, in questo capitalismo globale e finanziario spietato, i concetti di Parinetto mi sembrano ancor più necessari e attuali… Come ha scritto di recente Donald Sasson (studioso britannico, autore di libri sul socialismo e su Marx), essere di sinistra nel XXI secolo “è un’attitudine che mi porta a stare da parte degli oppressi, non degli oppressori; dalla parte di chi è discriminato, non di chi discrimina”.
Il primo testo in cui si affacciano le tematiche stregonesche è quello d’esordio (sostanzialmente la sua tesi di laurea), ripubblicato, con altro titolo, da Colibrì nel 1998. “I lumi e le streghe, una polemica italiana intorno al 1750” è un saggio corposo e controllato, figlio di quelle nuove ricerche storiografiche inaugurate da Carlo Ginzburg alla fine degli anni ’60. L’intenzione di Parinetto è qui di rendere una storia completa del dibattito sulla magia e sulla stregoneria nella cultura italiana della metà del ‘700, quando ormai le affermazioni demonologiche degli inquisitori cominciano a sbriciolarsi e ad essere contestate da una serie di liberi pensatori che si rifanno alla cultura illuminista. Al centro di tutto è la pubblicazione del “Congresso notturno delle lamie” del roveretano Girolamo Tartarotti (1749), che costituisce una delle più erudite ricognizioni storiche sullo sviluppo delle superstizioni magiche.
Dopo il volume d’esordio, nel corso della seconda metà degli anni ’70, Parinetto radicalizza la sua indagine con due volumi densissimi: “Né Dio né Capitale, Marx marxismo religione” (Moizzi Editore 1976) e “Corpo e rivoluzione in Marx, morte diavolo analità” (Moizzi Editore 1977). In quest’ultimo (si tratta di una serie di scritti elaborati in prima stesura per la rivista “Utopia”, del ’73 + gli appunti finali di “Analreligion”, pubblicati da “L’erba voglio” nel ’76) comincia una ricerca eretica che accosta il pensiero marxista con quello alchemico. Parinetto lavora sulla scia di Deleuze e Guattari e del loro “Anti-Oedipe”, rivendicando l’utopia del corpo e delle passioni di un individuo libero contrapposto alle castrazioni repressive della società borghese. In Marx (e in Parinetto) l’utopia del corpo è inscindibile con quella del comunismo; di contro impotenza, repressione del corpo, dei desideri, dei bisogni e delle passioni fanno parte della restaurazione della violenta società capitalistica. L’utopia del diavolo appare come la vita pulsionale inconscia e rimossa. Il diavolo è associato alle cose sporche, basse. Al corporeo della merda: eppure il denaro è da sempre in strettissimo rapporto con lo sterco. Ma il diavolo (e la congrega di streghe e stregoni), nella sensibilità gotica del filosofo bresciano, diventa il fomentatore di rivolte e rivoluzioni, l’incarnazione anale di qualsiasi contestazione di qualsiasi autorità, di qualsiasi fallo. E non è un caso che il potere del Capitale attribuisca al diavolo e alla sua congrega la merda, l’incesto, la sodomia, la pederastia, insomma tutta la gamma delle manifestazioni libidiche devianti ed emarginate, stigmatizzate dal potere in perversioni. E’ in pagine densissime e bellissime che Parinetto legge questo rovesciamento a favore degli esclusi e degli ultimi, dei completamente tagliati fuori, rovesciando la danza del sabba in un girotondo di epilessia collettiva, in una festa di culi e persone nude che hanno livellato tra loro le diseguaglianze alienate della maschera borghese, in una preparazione rivoluzionaria di “culi liberté, égalité, fraternité”. Ecco allora che il diavolo che Parinetto indaga e cerca è ben più umano dei padroni, rientra nell’umano e all’umano guarda. Così come non si nasconde l’autore, che in altre pagine densissime non ha paura di confrontarsi con l’attualità tumultuosa del suo decennio, precipitando a capofitto in un sabba che coinvolge lo sfracellarsi del Pinelli, l’urlo che si leva dalla strage di Brescia, legandoli ai rituali antichi del pianto indagati da De Martino. Nell’ultima parte del libro, Parinetto sonda l’inconscio del Capitale, iniziando a ricercare quelle metafore magiche disseminate da Marx nei suoi scritti. Sua guida è Freud, con l’inconscio onirico visto come una scrittura di geroglifici, e ancora l’idea di una rivoluzione radicale che il marxiano inconscio proletario non potrà fare che nel profondo…
“Alchimia e Utopia” (Antonio Pellicani Editore, 1990) è un’indagine originale sul linguaggio cifrato, per parabole, dell’alchimia: Dante li collocava all’inferno profondo tra i falsari, l’inquisitore Eymerich li considerava alla stregua degli invocatori di diavoli, tuttavia gli alchimisti li si ritrova anche alla corte di papi, imperatori e principi come Enrico IV, o sotto Carlo VII, fino a trovare persino un principe alchimista come Augusto di Sassonia. Parinetto ne decifra la storia, arrivando fino agli studi di Jung tra l’inconscio e i crogioli alchemici, o alle connessioni tra un certo vocabolario e gli scritti di Marx ed Hegel – in particolare si riferisce al verbo “alienare”, preso più che dalle lettere paoline, da un vocabolario alchemico/ermetico che si riferisce alla trasmutazione della materia, al suo divenire altro, problema centrale nelle permutazioni alchemiche. Tema di fondo delle pratiche dell’alchimia è la trasformazione dell’uomo, l’utopia di ottenere un uomo nuovo, libero, perseguita anche dalla psicanalisi, come dalle scienze sociali. L’alchimista trasmuta e condensa la materia per trasmutare e coagulare la natura e l’uomo, così come Freud coagula e trasmuta gli elementi del sogno, facendoli passare da un figurativo irrazionale a un discorso verbale. Dal crogiuolo di questi temi magici, religiosi e rivoluzionari, Parinetto rintraccia nella terminologia alchemica un’utopia radicale, una sorta di riforma universale auspicata e inseguita dalla teoria/prassi marxiana.
L’altro libro collegato ad “Alchimia e Utopia” è proprio “Faust e Marx” (1989, sempre per i tipi della Pellicani, poi ristampato, come il volume precedente, da Mimesis). Qui Parinetto riprende il filo iniziato coi volumi degli anni ’70 (in particolare quel “Corpo e rivoluzione”), alza la posta e usa il libro precedente (uscito dopo, ma scritto prima) come una base per condurre un’indagine vertiginosa, una rilettura eretica di Marx, alla ricerca di analogie terminologiche e metaforiche tra gli scritti del filosofo tedesco e l’alchimia. Parinetto spoglia i “Manoscritti parigini del ‘44”, i “Grundisse”, il “Manifesto”, collega e isola passaggi che rimandano più o meno velatamente all’officina cosmica e alla digestione universale dell’uomo nuovo. Nel “Corpus hermeticum” la connessione forte è con l’oro che ha, sia nel capitalismo che nell’alchimia, un ruolo eminente. Il denaro di Marx è una forma pervertita di alchimia occidentale, un’arte nera mediante la quale la magia della borghesia tiranneggia il lavoratore. Marx designa il capitale come un’alchimia deviata, pervertita, che trova la sua unica ragion d’essere nell’accumulazione delle merci, dell’oro, del denaro gassoso – nell’alambicco della circolazione, il denaro diviene una pervertita, demoniaca alienazione dell’oro alchemico – nella parte finale del saggio, ci si apre sulla scatofagia, la dialettica anale delle merci, nella capacità del capitale di tramutare qualunque merda in oro!
L’indagine sulla stregoneria prosegue con “Solilunio: erano donne le streghe?” (Pellicani, 1991) che comprende, rivisti e ampliati, anche i “Materiali sul sabba”, pubblicati in prima battura l’anno precedente. Qui il filosofo bresciano riprende i toni filologici della sua tesi di laurea (quel “Magia e religione”, poi rielaborato ne “I lumi e le streghe”) e compie un excursus fittissimo nei testi demonologici utilizzando gli strumenti dell’etnologia, del folklore e della storia delle religioni, in un girotondo di baccanali, tarantismi, macumbe brasiliane e oppressione delle masse popolari. Parinetto sfarina e indaga il sabba, le sue forme e la sua origine, cercando conferme in una mole diseguale di testi: dal “Canon episcopi”, alle connessioni del sabba stregonesco coi movimenti ereticali e i riti del Carnevale, dove emerge una forma rozza, inconscia di lotta di classe di contadini poveri, umiliati, frustrati e repressi. Ma il Carnevale, come nota Guénon, è una forma di caos permesso dalle autorità, un modo per mantenere l’equilibrio sociale, lasciando sfogare in forme e modi predefiniti le pulsioni profonde e rimosse, il potere negativo e ingovernabile delle pulsioni individuali. Parinetto fa poi sfilare, con le loro teorie, i vari manuali e testi inquisitori di almeno tre secoli, almanaccando di Girolamo Menghi, del terribile “Malleus”, le connessioni dell’orgia sabbatica con il dissolvimento individuale delle pratiche yogico-tantriche, e poi ancora Erasmo, Bernardo da Como, Andrea Alciato, il Savonarola (che pure lui coinvolge in un’unica accusa di magia astrologi e stregoni), fino a Bernardino da Siena, che di Siena avrebbe voluto far capanno per ardere molti sodomiti senesi, oltre che il libello “Ermafrodito”, dell’umanista Panormita, tranquillamente intitolato al buco del culo e alla defecazione, insomma incubatoio umanista in difesa della libertà di parola, e soprattutto della libertà erotica del corpo, contrapposta alle castranti misoginie dei vari frati inquisitori! Il nodo, o uno dei nodi, di “Solilunio” è proprio questa sovrapposizione tra sodomiti e streghe, in una ricerca delle analogie castratorie messe in atto dal Potere costituito contro chi si muove ai margini della società e si rifiuta di sottomettersi alle regole dominanti. È questa una costante nel pensiero di Parinetto che attraversa sia i libri dedicati alla stregoneria, quanto quelli intorno a una rilettura originale dell’opera di Marx. Anche Carlo Borromeo fu grande persecutore nella Milano della peste, da lui vista come una Sodoma incontinente e lasciva di cui il demonio “ha pigliato maggior possesso addosso”. Verso la conclusione, Parinetto, in una serie di appunti in cui indaga altri testi stregonici post “Malleus”, tutti tra la fine del ‘500 e il ‘600, spuntano numerosi casi di un contagio diabolico, un’epidemia contagiosa di suggestioni che riguardano i bambini (in numerosi villaggi della Spagna), i quali accusano vari adulti subito torturati e costretti a confessare cose inumane. Qui si intravede, per mezzo di sogni o mere cattiverie infantili, una logica mass-mediale del contagio diabolico che subito, senza riscontri e verifiche, coinvolge interi villaggi, stravolgendone l’equilibrio. Casi simili spuntano anche in Germania e Svezia, per non parlare di Salem, anche lì cominciato per mezzo di alcune bambine e alcuni schiavi caribe… Poi il massacro comincia a spegnersi, a tramutarsi in altro. Charcot, nelle lezioni alla Salpêtrière, parlerà di isteria. Nelle conclusioni Parinetto si smarca (senza nominarlo) da Ginzburg e si allontana dall’idea del sabba come luogo di un culto della fertilità. Preferisce leggervi, attraverso l’iconografia e i rimandi insistiti all’analità, alla componente transessuale dell’orgia sabbatica, alla sodomia, l’incesto, eccetera, un’interpretazione contro la sacra famiglia, contro le istituzioni, la religione organizzata, contro qualunque istituzionalizzazione del sesso e delle gerarchie. Per Parinetto è ancora l’occasione di sottolineare quella che è secondo lui la vera utopia del diavolo e della stregoneria: rivendicare nelle conclusioni mutile e citazionistiche, un modo di andare al di là della griglia fallocratica e inquisitoriale della società costituita, un modo marxiano e tantrista di proiettarsi oltre il tempo, in una rinascita e fusione dell’uomo e della donna, un sole-e-luna unite dal “rebis” alchimistico, dal fuoco della rivoluzione, un salto in avanti oltre la lotta di classe e il capitalismo “nel momento in cui la lotta di classe finisce, allora non ci sarà più storia. Se la storia è concepita come storia della lotta di classe, allora la prospettiva, la speranza dei comunisti implica, postula un momento di astoricità. Al di là del profondo, del futuro, c’è un momento in cui la storia cessa e quindi c’è un momento di metastoricità, di astoricità anche nel pensiero marxista”. Fuori dai binari di una storia fatta da chi ha vinto, scritta da chi ha sterminato e ricondotto alle norme dell’obbedienza i sottomessi, gli emarginati, le streghe, oggi i lavoratori, i nuovi proletari, che di fronte al disastro dell’ecosistema umano, piuttosto che ribellarsi preferiscono imbellettarsi con l’automobile, la televisione, i social…
Non sempre seguire il lavoro di Parinetto è facile, l’autore sbriciola e frammenta in modo carsico i suoi interventi anche in una serie di volumi oggi di difficile reperibilità. In particolare in prefazioni a volumi che trattano argomenti sulla magia e la stregoneria. Penso al bellissimo “I sessi del diavolo” di Laura Rangoni (Terziaria, 1995), studio completissimo sull’iconografia e la simbologia legata al genocidio delle streghe nel mondo moderno. Parinetto appone una prefazione in cui riprende i concetti esposti ne “La traversata delle streghe” e ne “Il ritorno del diavolo”, testo composto per il convegno di Triora del ’94 sulla caccia alle streghe: nella prefazione il filosofo ne approfitta per sottolineare ancora come i testi illustrati fra ‘500 e ‘600 sulla caccia alle streghe siano sovrapponibili (per intercambiabilità, analogie figurative) alle scene cannibaliche americane. Per Parinetto è l’anello di congiunzione, la prova semiologica di come le scene del sabba europeo (e la letteratura sulle streghe, Jean Bodin in testa) si colleghino con le stragi dei colonizzatori del Nuovo Mondo, concetto che riempie il pensiero dell’ultimo Parinetto. Nel corso degli anni ’90 Parinetto scrive, e cura, numerosi volumi per i tipi di Stampa Alternativa, in particolare ricordo un’edizione dei “Frammenti” di Eraclito, una bella introduzione a un volume di François Villon, a uno di De Sade, e una bellissima curatela fatta per un volume di poesie di Emily Dickinson.
Nel 1997 Parinetto giunge all’apice della sua indagine sulla stregoneria con “La traversata delle streghe nei nomi e nei luoghi”, un volume collettaneo edito da Colibrì Edizioni (la prima edizione, accorciata, esce nel ’93 sempre per Pellicani; nell’edizione del ’97 vengono aggiunti anche “Il ritorno del diavolo” e “Axolotl”). Si tratta di una raccolta di saggi che riprendono e continuano la riflessione iniziata nel 1974 con “Magia e ragione: una polemica sulle streghe in Italia intorno al 1750”, e continuata con “Streghe e potere” (1983) e “Solilunio” del 1991. Nella sua impostazione generale, “La traversata delle streghe” inizia sui malefici e i sortilegi dei mendicanti e vagabondi medievali, fino a tracciare un cosmico vagabondaggio di emarginati presto schiacciato dalla logica del denaro. Questi chierici vaganti, ciarlatani, pìcari da taverna senza soldi né lavoro sprecano il loro tempo nelle navate delle chiese, sottratti dal tempo di accumulazione del Capitale. Per questo sono visti con sospetto, ministri di Satana come gli zingari, gli ebrei e gli omosessuali, tutti stigmatizzati e perseguitati lungo le vie del mondo moderno. Si tratta dopotutto di tematiche già trattate; il vero cuore del libro è quando Parinetto si sposta nel Nuovo Mondo e indaga la persecuzione degli indios perpetrata dai Conquistadores. La scusa, manifesta in numerosi ecclesiastici scrittori di cose del Nuovo Mondo, è quella della sodomia e di presunte pratiche stregoniche degli indios. Il colonialismo di Pizarro e Cortes fa piazza pulita dei rituali e dei sacrifici degli indios, perpetrando una carneficina senza precedenti nella storia dell’uomo. Ciò che interessa a Parinetto è sottolineare come il genocidio militare vada a braccetto con lo sfruttamento capitalistico del lavoro: i missionari gettano in prigione gli indios scampati al massacro accusandoli di stregoneria, poi, una volta in prigione, li obbligano a lavorare per loro. Lo sfruttato, il diverso, se scampato alla morte, ecco che viene sterminato mediante lavoro forzato. E lo sfruttamento degli indios superstiti non aveva limiti o tutele sindacali: chi li sfruttava non doveva nemmeno occuparsi adeguatamente del loro sostentamento, o della loro morte. In questi passi Parinetto sottolinea l’accostamento dello sterminio allo sfruttamento dei poveri, e da qui l’occasione di costruire anche in Europa delle case lavoro, riformatori, luoghi di cura attraverso i quali l’ethos pauroso del lavoro educa (o stritola) l’inoperosità dei poveri e dei vagabondi. L’educazione al lavoro ha sempre qualcosa di concentrazionario: pare che l’idea di sfruttare la manodopera dei detenuti nei lager sia venuta prima di tutti ai dirigenti dell’industria Heinkel, produttrice di aeroplani. In Parinetto, insomma, gli stregoni indios si sovrappongono ai vagabondi europei, istituendo così un rapporto tra la fabbricazione di streghe a scopo di sfruttamento lavorativo e incremento del capitale, che sostituisce al rogo il lavoro forzato. La soluzione finale contro questi stregoni, streghe, gente del sabba (in generale qualunque proiezione demonologica nei confronti di chi è diverso, portatore di valori alternativi a quelli della pura accumulazione finanziaria) è oggi più che mai proterva e pericolosa (basterebbe vedere lo sfruttamento e le mancate tutele a cui sono sottoposti i “rider”, ultima categoria di ceti emarginati eguali e intercambiabili).
Il tema della stregoneria si affaccia anche negli ultimi lavori del filosofo bresciano: “La rivolta del diavolo” (Rusconi, 1999) è un interessante saggio storico sulle figure di Muntzer, Lutero e le rivolte contadine in Germania al tempo della Riforma. Nel capitolo intitolato “Transe e dépense” (peraltro si tratta del rifacimento inedito di una relazione tenuta dall’autore a Mantova nel giugno del 1998 al convegno “Nuovi culti, vecchie streghe”) Parinetto torna a sottolineare come la cultura del capitale si instauri in Europa tra il ‘500 e il ‘600 e che la conquista dell’America (con il conseguente sterminio delle popolazioni americane) si sovrapponga alla caccia alle streghe sul vecchio continente. Teorie del denaro e diversità alimentano nell’immaginario castratorio del Concilio di Trento un’idea del sabba incentrata sullo sperpero delle energie, una fenomenologia di un eros rovesciato e fondato sullo sperpero, quindi una sorta di rivolta dal basso, opposta alla cultura “accumulatrice” del capitalista. La repressione della sessualità oscena del sabba coincide con una repressione e un controllo della sessualità operato dalla società borghese. Il sabba, insomma, nega il tempo dell’accumulo e approda a un tempo al di là del tempo, un’orgia improduttiva di sfrenamento onnilaterale del corpo e della libido, un paradiso mistico che vede nel seme un’equivalenza col denaro e denega la proprietà (intesa come volontà di accumulare per sé beni condivisibili con gli altri); gli uomini dell’accumulo sono quelli del capitale, gli europei apparsi dal mare e visti dagli amerindi come degli alieni, indiavolati e stregoni che li avrebbero spazzati via dalle loro terre. E su questa doppia lettura, questo rovesciamento, Parinetto continua a insistere in un’altra pagina densissima di suggestioni. Riprendendo la lettura di Marx, rintraccia una collezione di metafore che stigmatizzano la società del capitale come se fosse il vero sabba di stregoni. Il capitale è un mondo magico, una stregoneria per apprendisti di incanti il cui unico fine è alienare l’uomo e ridurlo a una cosa, a un’appendice della merce; il “mundus fascinatus” e stregato è proprio quello del progresso, della nuova scienza finanziaria che ci condanna a nuove (e invisibili come nelle tecnologie digitali) forme di sfruttamento. Diavoli e streghe non sono altro che le proiezioni che il Potere ha di se stesso, una oggettivazione dei propri incubi e dei propri incantesimi: il vero diavolo è chi fa dell’uomo una cosa e del mondo (alienato) una casa di streghe.
Ecco allora che il lavoro di Parinetto, con un’ellisse cinematografica fortissima, si salda, oggi, con la socioanalisi narrativa di Renato Curcio e della casa editrice Sensibili alle Foglie. Curcio riprende il discorso proprio quando Parinetto lo interrompe. Le streghe, gli stregoni, i diversi, gli erranti, i vagabondi delle indagini etnografiche di de Martino, Ginzburg, Parinetto, si codificano, dopo il boom economico, in modi diversi. Oggi la cultura subalterna e contadina sembra cancellata e sparita dai nostri orizzonti; non è sparita la marginalità di molte categorie sociali, marginalizzate e schiacciate da nuove forme di persecuzioni psicologiche. Ecco allora che la diversità tende a scomparire, il diverso non può più permettersi di essere tale, pena un’esclusione non solo sociale, ma economica da un mondo sempre più complesso e artificiale; ciò che ci differenzia è la soglia di resistenza a ritmi e configurazioni nuove del potere economico che inventa o reinventa professioni spersonalizzanti, in cui la resistenza e l’adattamento supino del lavoratore apre nuove “apocalissi personali” non più curabili all’interno di una ritualità collettiva e paesana, ma per mezzo di farmaci e coscienza addomesticata. Il lavoratore è il nuovo escluso, il paria senza voce e diritti, un soggetto debole (streghizzato dal Capitale, avrebbe detto Parinetto) a cui non rimane altro che lasciarsi cullare dalle proprietà magiche e arcane della merce, del feticcio marxiano, reliquia della nuova religione digitale da adorare per mezzo di una app…
“L’azienda totale”, Edizioni Sensibili alle Foglie, 2002: da qui parte un’indagine sul lavoro che non ha eguali nel nostro paese. Renato Curcio, sociologo, ricercatore sugli stati modificati di coscienza, utilizza l’approccio della socioanalisi narrativa (seminari autogestiti che coinvolgono lavoratori di varie categorie che raccontano le loro esperienze all’interno delle grandi aziende della distribuzione). Siamo nel 2002, prima della crisi economica, prima dei social; l’ipotesi che muove il lavoro è la parentela tra le aziende di oggi e le istituzioni totali del ‘900. Una tesi forte, fortissima, che Curcio indaga lasciando la parola a vari lavoratori. Curcio annoda i racconti e costruisce una grande azienda immaginaria, un’istituzione commerciale dei nostri tempi, in cui il lavoratore, fin dai primi giorni è sottoposto a una sorta di rito d’iniziazione, per saggiare la sua disponibilità al lavoro e alla sottomissione (nelle interviste si ritrova la pulizia dei cessi, spostare i cassonetti sul retro del supermercato al primo giorno, un modo per tastare subito l’arrendevolezza del nuovo soggetto). Dalle varie voci del seminario, emergono una sorta di regole non scritte, ma fondamentali per entrare dentro l’ideologia dell’azienda: non fare comunella con altri lavoratori, non seguire politiche sindacali, avere cura della propria uniforme, non fare comunella coi clienti, mostrarsi sempre disponibili a modificare l’orario di lavoro, saltare le pause pranzo, ecc. L’azienda è una grande famiglia, si deve fare squadra, passare la palla. Vige un’organizzazione impersonale, burocratizzata fatta di codici e regole in cui ogni collega riferisce e sorveglia un altro collega. L’obbedienza è obbligatoria per poter fare carriera, salire di livello, entrare nella fiducia dei vari kapos di turno. L’illusione della carriera è una leva fondamentale: straordinari, lavoro notturno, lavoro domenicale, anche dodici ore al giorno continuate, in turnover da cavalli. Si deve sgomitare, essere rampanti fino allo spasimo, devi vigilare, riferire, sedare. Tutto ha lo scopo di indurre un trattamento spersonalizzante, che ha lo scopo di decostruire l’identità soggettiva del lavoratore. Ogni lavoratore è accompagnato da una pagella di rendimento sulla sua produttività, flessibilità, disponibilità. A tutto questo si aggiunge la maleducazione del cliente, il suo implicito potere disciplinare, le sue richieste, le pretese e le proteste contro l’orario contrattuale, il bisogno di un’economia sempre presente, aperta, 24/7.
L’analisi e le interviste di Curcio hanno il merito di focalizzarsi sulla cassa, luogo da molti addetti definito di tortura. Sei, sette ore continue, senza stacchi, con una sola pausa di 15 minuti, senza cambi, sempre seduti, sotto gli occhi del capo o di una telecamera, gli stessi movimenti meccanici che portano a uno stress psicologico fortissimo che può capire solo chi l’ha provato. La cassa, nelle aziende della grande distribuzione è un modo per punire, sfiancare, umiliare il lavoratore, col bisogno di domandare la pausa per motivi fisiologici, come si usa nel carcere. Tutto questo porta a una sofferenza e a un isolamento del lavoratore che vede nel collega una possibile spia, qualcuno come lui in corsa per un avanzamento o la mera sopravvivenza, il rinnovo, la conferma del contratto. Ecco allora che per sopravvivere ci si dimentica degli altri, si diventa indifferenti alla propria e all’altrui sofferenza. Da certe voci emerge una tendenza a minimizzare i comportamenti gravi dell’azienda, a contestualizzarli all’interno dei bisogni e delle esigenze dell’azienda, vista come una famiglia, anzi la vera famiglia di appartenenza, a cui votarsi e immolarsi.
Nel 2003, sempre per Sensibili alle Foglie, esce “Il dominio flessibile” secondo capitolo dell’indagine. Qui Curcio organizza un seminario di incontri a Milano con lavoratori della grande distribuzione (Auchan, Autogrill, Bennet, Esselunga, SMA, Standa, GS), indagando la mutazione dal dominio rigido e burocratico dell’azienda fordista-taylorista, a un’azienda nuova, fluida, priva di centralità. Si comincia a disegnare, con grande lucidità, il mondo nel quale viviamo: tutto si fluidifica, il lavoratore deve flettersi, piegarsi, adattarsi alle continue richieste che gli vengono indirizzate. Il lavoro fluido condiziona nuove forme contrattuali che ognuno di noi ha conosciuto ed esperito sulla propria pelle (se chi legge, alza le sopracciglia o minimizza, è perché non ha mai lavorato, o gli fa comodo mentire sapendo di farlo): ecco allora i vari contratti a termine, il caporalato del lavoro interinale (che si candidava negli anni Zero a sostituire, privatizzandolo, il collocamento pubblico) dove il lavoratore è a completa disposizione dell’azienda, il lavoro a squillo o “job on call”, dove si possono ricevere chiamate di lavoro rapide e intermittenti, il part-time (che riduce retribuzioni e costi), il lavoro nero nelle cooperative (avete presente quei disperati con la fame negli occhi che raccolgono frutta e verdura nel sud?), dove puoi fare straordinari su straordinari, in cui il monte ore di lavoro è una fandonia. Tutto questo porta a una flessibilità del tempo di lavoro, in cui si è sempre reperibili a scapito della propria vita privata, del proprio tempo libero e di riposo. Il consumista di merci non può attendere! Il filo comune è quello di creare una sistematica apprensione, un filo d’ansia continuo per la paura di non riuscire a stare ai ritmi, di perdere il lavoro, il salario, di trovarsi in solitudine. A suo tempo tutto questo ci è stato venduto come un viatico per far crescere il tasso di occupazione, lasciandoci più liberi. Ci hanno venduto la flessibilità come una libertà, in realtà la sofferenza psicologica dei lavoratori è aumentata proprio a causa della prolungata precarietà delle condizioni lavorative. Traumi, ansie, angosce e paure sono cresciute esponenzialmente col “downsizing”, ossia la riduzione di posti di lavoro per le ristrutturazioni dell’azienda flessibile. La paura di perdere il lavoro porta a una riemersione del pensiero magico: si affida la propria sicurezza alla ripetizione di pratiche rituali che si ritiene abbiano funzionato in situazioni precedenti. La paura di perdere il lavoro, soprattutto dopo i 40 anni, è la paura più grande della nostra epoca, la paura di invecchiare e di non stare al passo in un mondo del lavoro sempre più spietato e discriminante che ti spreme e ti butta via. Ecco allora che il bisogno primario è ancora quello della sopravvivenza ad ogni costo, educandosi ad un’indifferenza morale verso gli altri, visti tutti come avversari e concorrenti. In queste identità frantumate, per reggere ai ritmi della produzione del nuovo capitalismo liquido, ecco allora il bisogno di ricorrere ad ansiolitici e droghe varie.
Ne “Il consumatore lavorato” (Sensibili alle Foglie, 2005), Renato Curcio si concentra su chi sta dall’altra parte della barricata, ossia il consumatore, l’altra faccia della medaglia, ciò che tutti noi siamo non appena ci togliamo la divisa di lavoro e passiamo appunto dall’altra parte. Nei cantieri di socioanalisi narrativa, le voci dei lavoratori disegnano la figura, le abitudini del nuovo consumatore potenziale, blandito dal marketing, dai marchi, dalla grande narrazione della merce. Il marchio è la bandiera, l’insegna, il segnale a cui immolarsi. Come Parinetto, Curcio utilizza metafore e immagini del mondo magico per disegnare l’oltretomba dei consumi, luogo di ninfe, sirene, esche e civette; la caccia di promozioni, di regali, sconti, regali, articoli sottocosto, tutte parole magiche che attirano, ammaliano il cliente. Carte fedeltà, carte punti premio, carte di credito e di sopravvivenza ci spingono sempre più a comprare, a muovere il denaro, a indebitarci pur di stare al passo con gli altri. Pur di rimanere nel mondo degli inclusi, di chi può spendere, ci serve uno stipendio a qualunque condizione, a qualunque forma contrattuale. Ecco allora il serpente che si morde la coda di un lavoratore/consumatore che deve continuare a sopravvivere con lavori sottopagati per poter continuare a consumare e sfuggire al baratro dell’esclusione sociale. Gli ipermercati poi sono non-luoghi di controllo, pieni di telecamere, sensori anti-taccheggio, e una luce bianca, cristallizzata, senza tempo in cui le regole del giorno e della notte sono vanificate in uno spazio/tempo senza soluzione di continuità, in una luce bianca che pare quella di uno studio televisivo o di un obitorio. “Il tempo del consumo è tempo morto. Tempo bianco come potrebbero essere gli occhi di molti consumatori in un quadro surrealista. Tempo cadaverico come la merce che riposa in pace sugli scaffali, coperta dai suoi variopinti involucri funerari”. L’alienazione (su cui Parinetto ha scritto tanto) parte ora da qui: da una sorta di osmosi della merce, da un’aura di appetibilità che inseguiamo e per cui siamo disposti a tutto. Le merci si caricano di un valore “magico” che ci trascina in un mondo che non è quello magico e consolatorio dei contadini lucani di de Martino: il tarantolato del mondo dei consumi non cerca un rito in cui esorcizzare con la comunità (nel mezzo della comunità agricola) la propria crisi individuale; il tarantolato delle merci è solo, indifferente, spaventato dagli altri (competitori possibili, anche loro a caccia della migliore offerta, della migliore magia della merce), bisognoso di trovare una panacea alle proprie angosce nel rituale ansiolitico del consumo, un rituale che non libera ma instaura ancor più dipendenza e sofferenza. Il rituale del marchio, la sua fissità, i suoi moduli ripetuti, come una giaculatoria mettono l’animo in pace, tranquillizzano e fidelizzano il cliente, sicuro di immolarsi sull’altare mitologico degli scaffali del supermercato. Il discorso di Curcio si connette col pensiero magico, con la credenza che la stregoneria possa alleviare le sofferenze e le lacerazioni interiori, solo che qui non siamo più in un contesto pre-industrializzato: il sabba dell’azienda totale non è più attribuito a un gruppo minoritario, bensì si identifica col corpo dell’azienda, un corpo disciplinare e stregonesco che in fin dei conti è il Potere demoniaco e vincente del Capitalismo, maleficio stritolante che infantilizza il consumatore, in modo non diverso da quello degli ospizi e le strutture psichiatriche.
“Mal di lavoro” (Sensibili alle Foglie, 2013) racconta lucidamente la sofferenza lavorativa emersa in un cantiere di socioanalisi tenutosi a Milano nel dicembre del 2011. Curcio, curatore del volume, assembla le voci e le omogeneizza. Nel capitolo introduttivo ricostruisce l’immaginario del lavoro, dalla visione del lavoro come castigo e punizione del Dio biblico, al significato del lavoro come manifestazione del servizio divino (in Lutero e Calvino). Dopo la rivoluzione industriale, è con il pensiero di Proudhon che il lavoro assume un significato diverso, non più punizione divina o segno di una manifestazione divina, bensì come “dignità del lavoro”. Con Marx ed Engels il lavoro si tramuta brutalmente in una forma di sfruttamento e alienazione, fino a tramutarsi nell’organizzazione scientifica del taylorismo, del lavoro in fabbrica e dei suoi ritmi infernali. Il salto avviene negli ultimi vent’anni col mito del web e del virtuale, il mondo di Steve Jobs che surclassa quello di Taylor e Ford. Ora non c’è più bisogno della catena di montaggio per spersonalizzare e controllare il lavoratore: i Gps permettono di localizzare, mappare e calcolare le tracce del lavoratore, le sue pause, i tempi effettivi di lavoro. Le tecnologie digitali, lontane dal liberare l’uomo da carichi disumani di lavoro, intensificano gli standard di prestazione richieste dalle aziende, richieste a cui i lavoratori non possono più sottrarsi – pesa la paura di perdere il lavoro, di non stare al passo, di non riuscire a provvedere alle spese crescenti dei consumi, calcolando che molti lavoratori, per poter pagare i propri consumi e bisogni, devono ricorrere a mutui e prestiti, carte di credito e rate, tutte forme di indebitamento che costringono il singolo a non potersi permettere di perdere l’impiego. La precarietà endemica di molti contratti di lavoro indebolisce ulteriormente la forza contrattuale del singolo lavoratore; una precarietà endemica perché giustificata dalla crisi economica che ha attraversato l’economia degli ultimi dieci anni, giustificando tagli della spesa pubblica e abbassamento dei salari a fronte id ore di lavoro sensibilmente aumentate. Nelle voci dei lavoratori di Curcio la precarietà è ormai un orizzonte stabile su cui far scivolare la propria vita: il mantra poi è sempre quello che in Italia non conviene più produrre, troppa pressione fiscale, costi troppo alti del lavoro. Ecco allora che, per non far delocalizzare un’azienda, si ricatta il lavoratore, costringendolo ad accettare condizioni salariali sempre più traballanti e stressanti. Per reggere ecco il bisogno di ricorrere a pastiglie, cerebrofarmaci, antidepressivi, tranquillanti, polveri e pillole.
Tra il 2017 e il 2019 Curcio si confronta con la stretta attualità di un mondo che è già altro rispetto all’azienda totale del 2002. In “La società artificiale” e “Il futuro colonizzato”, il sociologo si confronta con la magia degli oggetti smart, sottolineando come le tecnologie digitali non innovano affatto gli schemi del capitalismo industriale, ma anzi li continuano; le nostre vite sono regolate dagli algoritmi misteriosissimi di Google, Facebook, Amazon, Apple, Microsoft, nuovi nomi che tengono in mano le nostre vite, le manipolano, cercando di orientare i nostri gusti, i nostri consumi, i nostri orientamenti sociali, lavorativi e, perché no, elettorali. La rete sembra aver imposto uno stato collettivo di addormentamento ipnagogico, una passività che ci vede chiusi in casa, pigramente addormentati davanti alle tastiere dei nostri monitor, pronti a immettere a man bassa dati e informazioni su ciò che facciamo, visitiamo, consumiamo. Su internet tutto è allo stato fantasmatico, viaggi nell’etere, funziona come per magia, anche le nostre identità diventano liquide, si smaterializzano, forse persino si reinventano, come nelle chat di incontri. Per non parlare poi di chi lavora con lo smartphone in tasca. Curcio parla dei “rider”, professioni nuove svolte tramite app. I “rider” sono una tipica categoria di lavoratore intermittente del capitalismo digitale, in cui il tempo di lavoro è circoscritto alla prestazione. La caratteristica principale di queste nuove figure del lavoro è l’iper-sfruttamento di una condizione intermittente: i rider scaricano una app che è parecchio invasiva ed accede ai dati privati del lavoratore, controllandolo anche fuori dall’orario di lavoro; l’applicazione lede la privacy e i dati personali senza che il lavoratore abbia firmato alcunché; inoltre il lavoro è legato alle ordinazioni secondo meccanismi che favoriscono chi è più malleabile e accetta supinamente i ritmi imposti dal datore di lavoro. Chi si lamenta viene fatto lavorare sempre meno. Viene da chiedersi se il concetto di classe sociale esista ancora? Marx, Marcuse sembrano nomi e concetti lontani, sconosciuti alla galassia di nuovi giovani; così come il capitalismo odierno sembra aver fatto poltiglia di ogni categoria classista, riducendo il tessuto lavorativo a una galassia indistinta fatta di lavoro ipertecnologico, superspecializzato. Tuttavia Curcio riflette sul fatto che le forme di sfruttamento si vanno perfezionando, creando nuovi padroni e nuovi schiavi, questi ultimi niente affatto astratti o intangibili. Dunque affannarsi su questi discorsi, provare a fare ancora questi ragionamenti, non è un ozio intellettuale, ma un’urgenza, perché il lavoro e lo sfruttamento di chi lavora nella grande catena distributiva, nelle varie multinazionali, la fatica e le privazioni dei “rider”, le vite degli operai che devono combattere contro delocalizzazioni che piovono dall’alto, lo smantellamento della qualità della scuola e dell’indipendenze dei suoi docenti, sono tutte cose reali, non concetti desueti e privi di senso. Possiamo parlar di nuove classi sociali e digitali, cercare nuove definizioni e concetti.
Da Parinetto a Curcio, passando per Ginzburg e De Martino, insomma in chi si è fatto etnografo di una cultura repressa e marginale. Certo Curcio (così come De Martino) non indaga culture etnografiche a noi lontane; il suo oggetto d’indagine è quello di una categoria sociale a noi prossima, di cui tutti noi facciamo parte: il lavoratore! In questa figura ritroviamo quella vita psichica dei subalterni, in cerca di un riscatto dalla servitù feudale del Potere. In un cortocircuito un po’ forzato, mi affascina vedere le streghe mutare nei braccianti lucani di De Martino, fino a divenire i lavoratori de-territorializzati del futuro digitale. In un bellissimo numero di “Aut aut n. 366” dell’aprile-giugno 2015 dedicato per intero a Ernesto De Martino, nel contributo conclusivo di Simona Taliani, si legge proprio di questo cortocircuito, che dai braccianti degli anni ’40 arriva ai braccianti tunisini di oggi, nuovi tarantolati in condizioni di lavoro disumane, ammassati in campi lager su stracci e materassi, senza acqua, in una cartografia dello sfruttamento in cui il mondo magico indagato da De Martino si mescola a quello tecnologico di Facebook e dei cellulari, fonte di lavoro e di dipendenza; forse si dovrebbe ripartire da qui per una nuova indagine folklorica sulle “crisi” identitarie e le forme di resistenza dentro le forzature dei nuovi assetti economici delle nostre biografie patologiche.