In un saggio recente (2020) Francesco Lalli prova a coniugare l’estatica del thrilling italiano degli anni ’60 e ’70 con la società e le pulsioni sociali che l’hanno prodotta. Il saggio individua nei fortissimi cambiamenti economici del periodo l’emergenza di una trasgressione sociale che trova alimento dai primi fumetti neri (’62 e ’64). Il mondo delle prime officine meccaniche, delle botteghe artigiane, o dell’ideologia totalitaria fascista si trasforma velocemente in quello della catena di montaggio, della scomposizione delle mansioni del mostro-fabbrica; nuovi consumi plasmano l’orizzonte degli anni ’60, alimentando una mutazione rapidissima e insperata che vede nella classe operaia delle grandi industrie l’avanguardia di un movimento ramificato che comprende anche l’arretratezza del sud e l’universo contadino-bracciantile imbevuto di umori magici (de Martino ’48). L’Italia degli anni ’60 è un gigante dai piedi di argilla, travolto da una crescita tanto tumultuosa quanto diseguale.
Lalli sottolinea bene come la configurazione definitiva del genere si abbia nel 1970 con Dario Argento, promotore di una visione sociale (e della donna) con pretese rivoluzionarie, poco recepite dai vari epigoni del filone, a caccia di facili guadagni. Inoltre evidenzia come il thrilling italiano degli anni ’70 (tolto Argento) sia rappresentativo dello spaesamento virile di una larga platea maschile, schiacciata da una presa di coscienza femminile sempre più radicale. Se nella realtà la donna vuole affrancarsi dal ruolo rassicurante (e limitato) di madre e moglie, negli schermi italici la donna viene martirizzata e ridotta a bambola di consumo per un maschilismo reazionario condito da varie fobie psico-sessuali.
In ultimo Lalli individua nello spettatore del thrilling uno spettatore adulto, a differenza di quello adolescenziale che porterà al successo lo slasher americano degli anni ’80.
Chi scrive ha più volte notato come l’emergenza di un’esasperazione della violenza (nei generi degli anni ’60 e ’70) corrisponda a un desiderio di morte che è il vero lascito (occulto?) di quel periodo; una forza oscura alimentata da una violenza sotterranea e carsica che chiede sempre nuovi martiri, partigiani e carnefici. Più del velleitarismo del ’68, l’impulso rituale e necrofilo di questo paese ha trovato il suo altare emblematico nelle stragi senza colpevoli, nelle bombe nelle piazze, nei tanti e troppi misteri che lo Stato, le bande armate, il terrorismo e la mafia hanno alimentato con mutuo soccorso. L’ideologia rossa o nera ne è stata solo una scusa: di tutto quel mondo di carnefici e vittime, di slanci riformistici, speranze, illusioni, sono rimasti solo fantasmi senza pace, morti sepolti da una memoria storica che ormai tende all’oblio immediato. Eppure, anche nell’inconsistenza virtuale dell’oggi, le forze oscure della morte si muovono nel quarzo dei nostri cellulari, pronti a incitare un linciaggio sul web, a santificare e poi mortificare l’ennesimo uomo della provvidenza, o ad affidarsi a velleitarie utopie populiste…
Domanda: se il genere thrilling è contestuale alla società del boom economico, lo sono anche quei delitti? Se il cuore pulsante del thrilling non è più l’indagine, lo svolgimento razionale del plot, bensì la coreografia feticistica dell’omicidio, dell’atto di violenza eletto ad astrazione di una pulsione di morte, allora quei delitti apparecchiati sullo schermo da dove traggono alimento? Dal fumetto nero? Dalle trasformazioni feroci della società, dalle ansie e dalle paure di un proletariato e di una borghesia sul punto di confondersi tra loro?
Può darsi: ciò che colpisce è come, durante gli anni in cui il genere va maturando (diciamo dai gialli televisivi del tenente Sheridan, a Bava fino ad Argento), anche nella realtà del tempo si trovano numerosi episodi che sembrano immaginati da più di uno sceneggiatore.
Basta sfogliare la nera di allora: il caso Graziosi, il corpo annegato della Montesi (sorta di prototipo di tante ragazzine affogate in un caleidoscopio di orge, sesso e perdizione), le girandole sessuali dei Casati Stampa (torbidi intrighi di sesso, gelosia e vendetta), la morte della giovane Milena Sutter (fantasma di tutte le Solange a venire), il martirio (nei bagni di quell’immenso castello d’Otranto che è la Cattolica di Milano) di Simonetta Ferrero (e qui siamo già nel palcoscenico di una mente distorta dentro un baluginio di carillons e feticci occulti). E che dire della Doretta Graneris, del profondo nero (così ne scrive Gianni D’Elia) del 1975, anno di “Profondo Rosso”, dei Goblin, dell’esecuzione di Pasolini e dei mostri del Circeo? Sicuramente molti thriller (e polizieschi) dell’epoca possono aver tratto ispirazione dalla cronaca del tempo.
Forse è persino successo il contrario: una marea montante di fumetti neri e cineromanzi che hanno alimentato un immaginario fintamente libertario, in cui il corpo femminile veniva venerato e mutilato nel medesimo tempo. Eppure, come sarà per Argento e Bava, la vera chiave di volta è nascosta in una notte di settembre del 1974.
Siamo a Borgo San Lorenzo, Firenze. Inutile star qui a dire che cosa sarebbe venuto dopo, basta questo, il seguito non serve, è già macelleria all’americana. In questo delitto però c’è qualcosa che non c’è nella morte di Simonetta Ferrero, nel massacro di via Caravaggio, nei deliri di “Ludwig” o nelle lettere del famigerato “Diabolich” di via Fontanesi a Torino e in nessuno dei casi di nera visti fin lì in Italia: nella morte di Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore, una coppietta di adolescenti appartati in macchina per amoreggiare, si scorge un baratro incolmabile come quello dentro la Banca dell’Agricoltura di Milano. Così lo riassume Antonio Segnini nel suo blog: “Verificato che tutto era tranquillo spostò quindi Stefania dietro l’auto, in posizione più riparata rispetto alla prospicente strada di transito, prendendola per i piedi e trascinandola, come testimonia una strisciata di sangue e la posizione assunta dalle sue braccia. Poi le strappò gli slip, le allargò le gambe e iniziò a esplorarne orrendamente il corpo con il coltello. In un’azione per niente convulsa e durata a lungo, affondò per moltissime volte la punta nella carne – in totale si contarono ben 96 coltellate – con vari livelli di profondità forse in diminuzione, come se la residua rabbia fosse andata via via scemando. In zona pubica le ferite, molto leggere, assunsero una disposizione a mezzaluna che seguiva i contorni del vello pilifero.
Come probabile atto finale dello sciagurato rapporto, l’assassino strappò un tralcio da una delle viti situate nel campo adiacente e lo inserì nella vagina, senza affondare e senza insistere, quasi volesse saggiarne la consistenza”.
In questo indugiare (“lo sciagurato rapporto”), dopo che l’onda violenta del delitto s’è consumata, vi è quasi una pausa, una stasi che poi sfocia in quel tempo infinito e notturno, in quel rimanere accanto a un corpo forse troppo a lungo desiderato, spiato, immaginato… L’uomo nel buio della notte di fine estate utilizza un coltello per apparecchiare sul corpo/altare i segni cimiteriali di una cura. Vi è in quel perdurare attorno alle ferite, una solitudine demente in cui la danza del rasoio produce continue sedute di spiritismo, uno scribacchiare sui seni osceni sogni di cristallo. Il cordone ombelicale tra realtà e finzione è qui: difficile (e forse poco importante) definire chi ha influenzato cosa; credo, come dicevo sopra, che tutto faccia parte di un’autofagia italiota, di una linfa oscura che da sempre ci segue come un’ombra.
“L’Italia delle stragi mi fa pensare a una famiglia borghese che nasconde segreti innominabili come un abuso, un incesto o altri crimini vergognosi. Se anche il segreto viene alla luce e il velo d’ipocrisia si squarcia per un momento, ben presto lo schermo si ricompatta” (Benedetta Tobagi, 2013 e 2019).
Davide Rosso
Grazie a: Daniele, Davide, Gabriele, Max, Francis, Antonio.