GIULIO LEONI E LA MAGIA DEGLI IGNORANTI

“Solo quello che ti serve e quello che prendi su”

(W. S. Burroughs, “Le ultime parole di Dutch Schultz”)

Un horror integralmente paesano, verista nella sua tremenda (perché puntigliosa) descrizione della morte, è quello schizzato in forma un po’ beffarda da Giulio Leoni in “Sed efficiente malum”, racconto compreso nella benemerita raccolta collettiva “Anime nere”. Proprio tale descrizione del momento estremo dimostra che l’intento dello scrittore non è affatto parodico, come potrebbe pensare qualche serioso esoterista in doppiopetto. Semmai, l’autore fa a pezzi attraverso un proprio irridente non meno che macabro macchiettismo proprio il concetto di ingessata cerimonialità rara, preziosa e acculturata che sarebbe necessaria alla magia nera per operare.

Ciò appare evidente fin a partire dal nome del coprotagonista, Manrico Pappalardo (degno di un pirandelliano Vitangelo Moscarda), che difficilmente verrebbe preso sul serio dal lettore se non si fosse reso colpevole dello stupro e dell’omicidio d’una bambina di otto anni insieme ai suoi compari, che rispondono ai nomi pasoliniani di Riccio e Marietto. Come si è giunti a tanto? No, non nella maniera che si potrebbe immaginare, ovvero spinti da un incontrollabile desiderio pedofilo criminale, bensì allo scopo di un’evocazione diabolica di cui proprio il capobranco Riccio fu l’artefice e la piccola l’agnello sacrificale.

Già, ma attraverso quali mezzi?

Qui viene il bello: seguendo le istruzioni di un libro acquistato al banco di una fiera religiosa… attenzione, però, non si tratta di chissà quale grimorio per rari iniziati finito lì per sbaglio, bensì di “un vecchio libro edito da Fanucci con sopra il Necronomicon taroccato di Colin Wilson”. Il Riccio “metteva il cd dei Sepultura [N.B.] e poi faceva un cerchio con il gesso, e la stella. E poi sulle punte della stella metteva le dita dei morti [precedentemente sottratte in un cimitero sconsacrato]. E chiamava il diavolo […]”.

“Il Riccio – confessa ancora Manrico – aveva cosparso le dita di cera. E poi diceva il rito”.

“Ossia?” – chiede il suo avvocato.

“Yogh Sototh… Chtulu fhtang fhtang”, ovvero puro e semplice Lovecraft.

In seguito, Pappalardo – ragazzo alle soglie dell’analfabetismo, interessato solo a un apatico, annoiato far niente e al calcio in TV – riempie di scrittura ebraica (naturalmente a lui sconosciuta) un foglio, lo appallottola e lo inghiotte. Da quel momento in avanti il diavolo si impadronirà di lui nello sconcerto dello sprezzante avvocato, protagonista che fa da contraltare tanto intellettualmente evoluto quanto in pratica impotente al giovane.

Il legale constaterà con i suoi occhi, leggendo la lettera perfetta per ottenere il perdono dalla madre della vittima che Satana ha dettato a Manrico, di essere sul punto di diventare in senso tutt’altro che metaforico “l’avvocato del diavolo”. Ma la novità del testo è ben diversa: in fin dei conti la magia non ha bisogno d’altro che di fede, suggerisce Leoni, non le occorre nessun particolare Santo Graal all’infuori di essa. Se la si possiede, bastano un testo dell’autore di “Dagon” e un cd dei Sepultura per ottenere l’evocazione del diavolo (o almeno di “un” diavolo).

Produrre contenuti neri e maestosi con mezzi del tutto imperfetti, scadenti e sotto alcuni aspetti ridicoli, per di più maneggiati da perfetti ignoranti. Magia sporca. Ma si può ridere di essa quando un crimine spietato è il suo effetto?

Gianfranco Galliano