Numero Zero Nove e Numero Dieci giunsero nell’Anticamera di Mardùk a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. Il Duca li catturò ai confini delle regioni artiche del nostro mondo, la Terra, ma in un diverso livello dimensionale. Nella sua trappola cadde per primo il numero Nove, un soggetto molto vivace, che faticavamo non poco a contenere. A differenza di suo fratello, numero Dieci – più cauto e schivo -numero Nove era iperattivo, e la sua mente ardeva in modo perenne, pur sotto quintali di sedativi. Ogni volta che entravo in servizio, di mattino presto, lo trovavo ad aspettare la colazione in piedi al centro della stanza, quasi non avesse chiuso occhio durante tutta la notte, posseduto da un demone sconosciuto.
Quella mattina, era l’alba e non saltò l’appuntamento con la colazione.
“Numero Nove, sei sempre dove non dovresti essere.” Sospirai, lasciando il carrello portavivande per ricondurlo nel suo letto. “Capisco perché sei caduto diritto nelle mani del Duca.” Sospirai con un’ironia senza sorriso.
Gli allacciai i polsi, pensando come la sua esuberanza gli fosse stata nociva. Quel giorno Numero Nove era su livelli critici di iperattività. Mi hanno insegnato a rispettare una scala graduata per definire il livello di smania di un ospite dell’Anticamera. Dovevo, anche allora, tenervi conto mentre redigevo la relazione di fine turno, sul diario giornaliero dell’Anticamera. La scala sale da un gradino zero: inibizione, prostrazione profonda, a dieci: maniacalità compulsiva, follia, insonnia cronica, sino all’allerta massima, l’undicesimo livello: idrofobia. Al pari dei cani negli Allaghèn questa morbosità causa attacchi d’ira feroce, terrore dell’acqua e deambulazione incontrollata. A differenza degli animali domestici, negli Allaghèn l’idrofobia non è causata da un germe, quanto da una condizione di stress indicibile. Mentre cercavo di allacciarlo al letto, la sua ansia crebbe sino a diventare follia isterica. In genere non faticavo molto per contenere la sua smania, ma quella volta ebbi paura persino di un suo morso. Non era aggressivo, e il suo livello lo inserivo sempre in una fascia da nove a dieci nella mia relazione quotidiana. Cercavo di convincermi che fosse nove invece di dieci, per evitargli le conseguenze di una sedazione peggiore o di un’eterna prigionia alle cinghie. Non potei barare, scendendo sotto quel livello, perché il Duca se ne sarebbe accorto. Le mie preoccupazioni si fecero reali quando mi ritrovai i piccoli denti di un Allaghèn nella pelle.
“Ahi! Accidenti a te, Zero Nove!” gridai, ritirando il braccio per il dolore. Riuscii a legarlo, poi mi diressi subito verso l’armadietto e mi bagnai l’avambraccio con il disinfettante. Il sangue colava copioso sulla mano “Piccoli denti, ma diavolo, fanno male come coltelli!” pensai, mentre il bruciore del liquido m’infiammava la carne lacerata.
Udii un rumorio e voltandomi: “Numero Nove, ma come hai fatto? Diavolo di un Allaghen!” Imprecai. Mi spazientii e lo sollevai per il bavero del pigiama. Ma lui si divincolò e liberandosi andò verso la porta corrazzata. “Bravo, vacci da solo a farti sbranare da Mardùk, almeno mi risparmi la fatica di accompagnarti!” ringhiai.
Nella foga non guardò la direzione e andò a urtare contro la sagoma del Duca, entrato poco prima nella sala. Non m’ero accorto del suo ingresso, distratto dalla pazzia di Numero Nove.
Senza una piega nel suo insopportabile viso ghiacciato, il Duca prese una mano sulla spalla dell’Allaghèn e bastò per contenerlo.
“Dakous, vieni, fammi vedere quel morso.” Mi disse con una calma nauseante.
“Non è nulla, Altezza.” Cercai di minimizzare, per non lasciare Numero Nove a una punizione tremenda.
“Il loro morso non è pericoloso, ma pur essendo prede, hanno una corona di denti molto affilata. Possono andare in profondità nella carne e fare male.” Spiegò. Sollevando l’Allaghèn senza sforzo lo ricacciò nel letto, legandolo. Poi mi prese il braccio: “Infatti è come sospettavo. È una lacerazione profonda. Questi animali diventano come diavoli, colti dai fumi della pazzia.” Disse, mentre investigava la ferita, aprendo la mia carne. Mi faceva un male pazzesco muovendo i lembi avulsi della pelle. Mi medicò con una cura quasi paterna. Quella sua premura mi lasciò disorientato; il suo viso divenne caldo, quasi fossi suo figlio e il ghiaccio del suo volto divenne un piacevole zefiro di primavera. Quando venne ricostituito un nuovo strato della mia pelle, mi sorrise: “Ora sei guarito. Non c’è stata infezione, perciò non ti ho fatto alcun altro trattamento se non la ricostruzione delle cellule.”
Infatti non sentivo alcun dolore. Non mi rimase alcuna cicatrice. Sembrò che sul mio braccio non si fossero mai conficcati quei piccoli acuminati coltelli.
Il Duca tornò da Numero Nove. L’Allaghèn ancora si dimenava, cercando di strapparsi le cinghie. Senza preavviso il Duca lo slacciò . il sibilo feroce e soffocato della creatura mi fecero sobbalzare: “Vostra Altezza, siate attento!”. Si contorceva sotto la mostruosa mano dell’Uomo, spirando con un ringhiare rauco, al pari di un serpente a sonagli. A un certo punto sentii dire : “Dannato diavolo!”
Mi precipitai, ma il Duca mi fermò con un ordine imperioso: “Va tutto bene, Dakous.” Fece “Non possiamo lasciarlo proprio ora.” Capii che la morsa di Numero Nove era andata anche sul braccio del Duca. Rabbrividii pensando al coraggio, o alla follia, di quella creatura. E mi chiesi se anche il Duca avesse un sangue caldo come il mio. Con una quiete disumana, nonostante colasse del sangue vermiglio fra le sue dita, mise la mano nella bocca di Numero Nove, fece leva sulle ossa della mascella e staccò la sua presa. Il colore del suo sangue sembrava quello del resto dell’umanità. Gli portai un asciugamano perché si tamponasse la ferita, ma lui mi scansò: “Non ora, Dakous, non mi ha fatto nulla di più che sbucciarmi la pelle. È come una serpe, soffia e tenta di mordere. Ma noi non temiamo le sue sfuriate.” Era tornato il solito pezzo di ghiaccio. Poi lo portò carponi al suolo gli mise un ginocchio sulla schiena. Incrociò le sue mani sui reni, attese che si acchetasse, oppresso dalla gamba che gli premeva sulla spina dorsale. Non c’era modo per lui di opporre resistenza, qualunque movimento era bloccato. Urlava sbavando, ma la calma del Duca non si scalfiva, anzi, sembrava una roccia eterna. Ogni tentativo di far paura o innervosire il suo predatore, era destinato a schiantarsi su quella roccia. Quindi lo sollevò in piedi. Numero Nove tentennò ma rimase cheto. Lo aveva domato. Il Duca se lo premette addosso: “Adesso ti sei calmato e possiamo parlare un po’ noi due, vero?” gli sussurrò quasi nell’orecchio.
Poi si rivolse a me e mi confidò: “Ho osservato la sua iperattività sin da quando l’ho catturato. Mi piace la sua mente così irrequieta. Penso di poterne trarre qualcosa di utile per il Rito.”
Come era uso fare, il Duca non mi spiegò alcunché di più-.
Il giorno successivo montai in turno di notte. Tornai al mio nauseante lavoro. Pulii e medicai gli Allaghèn offerti a Mardùk durante il giorno e programmai il pulitore meccanico per asciugare il pavimento dal sangue e dal vomito. Mi sedetti al banco di controllo , mi detersi il sudore freddo che ormai sempre, durante quei turni, mi bagnava il viso con un alito schifoso nella bocca. Gli Allaghèn si erano assopiti, sedati da pesanti droghe , travolti da un orrore indicibile.
Stavo con il volto fra le mani in quel silenzio innaturale, quando un improvviso tramestio spezzò quella monotona angoscia.
Alzai gli occhi e capii quale ne fosse la causa.
Mi diressi verso il suo letto: “Numero Nove, cos’hai stavolta?”
L’Allaghèn s’era messo in piedi.
“Sta’ giù, sciagurato! Sei stato da Mardùk, dovresti essere esausto.” Inveii alcune parole volgari, avvicinandolo.
La creatura era smaniosa.
“Non mi morderai anche questa volta, vero?” gli chiesi, ma mi accorsi che i suoi occhi vibravano con intenzioni diverse.
“I fogli, mi dai qualche foglio e una matita?” mi chiese, con un fare ardente che stonava nel sonno di piombo della sala, diventando un atteggiamento quasi surreale. Quasi non avesse memoria del dolore passato fra gli artigli del Rettile. Non era vietato agli ospiti disegnare, se riuscivano a farlo, con le forze che gli rimanevano, era un modo per non pensare a Mardùk. Il Duca mi spiegò che il disegno sembrava possedere un’influenza sul loro umore. E durante il Rito, un Allaghèn a cui fosse stata lasciata la matita, si rivelava più robusto e la sua energia più densa.
“Ti do quello che mi chiedi, ma tu non farmi ammattire come al solito, va bene?” gli passai carta e matita, nonostante l’ora tarda, purché si calmasse. Non ero in collera con quella povera creatura, ma
la sua indole mi rendeva inquieto. Sembrava invasato da una forza vivida, inossidabile nonostante la sofferenza. Domato, ma non addomesticato da quel dolore. Sì – pensai – somiglia un cavallo selvaggio. Pascola nel recinto con la cavezza e si fa carezzare, ma quando gli mettono la sella e lo montano, si dimena come una furia primordiale -.
Numero Nove tornò a sedersi sul letto e cominciò con un lavorio frenetico sui fogli.
“Cosa stai facendo, me lo puoi dire?” chiesi, esterrefatto dall’energia che gli era rimasta, nonostante il Rito e i sedativi.
Alzò gli occhi su di me, inumiditi dalla foga del lavoro, non mi rispose, poi si rimise sul foglio. Che fosse un soggetto interessante mi era chiaro da subito, ma la sorpresa fu ancor più grande quando riuscì a capire il senso di quel suo fare frenetico.
Riuscii a calmare le sue mani e con dolcezza gli presi la carta. Lui non oppose resistenza, lasciando che cogliessi quel foglio, un po’ stupito della sua stessa opera.
Rimasi di pietra quando vidi il risultato del suo lavoro.
“Che cos’è? Perché sei così stupito?” mi chiese, angosciato.
Mi adombrai, impensierito per il suo destino.
Mi tornò alla memoria la notte in cui la follia ebbe il sopravvento sulla mia vita. Il mio Diario gravido di quella scrittura sconosciuta al resto dell’umanità che mi portò nella ventre della balena, nell’Anticamera di Mardùk. Anche quella creatura era preda di una frenesia senza logica nel riempire la carta di sgorbi senza un significato a lei conosciuto.
“Non m’interessa sapere cosa c’è scritto. L’importante è averlo scritto.”
Mi congelai in un’espressione incredula nell’udire quelle sue parole. Se ne stava sul letto, i suoi occhi erano diventati buchi neri senza uscita.
“Ogni cosa scritta accadrà. Ogni parola è viva. Quello che scriveremo scorrerà presto nel mondo. Quello che vedrai nel mondo, presto, tornerà alla carta.” Continuò.
“Cosa significa?” chiesi, intimorito dall’onnipresenza del Duca. Il suo sguardo allignava nell’aria.
L’Allaghèn non sembrò più posseduto dalla mania. Se ne stava immobile, come un demone di pietra, quasi fosse una radio ricevente frequenze remote.
“Chi parla adesso? C’è qualcuno in te?” domandai angosciato.
“Io sono uno, ma siamo in molti. Non loro in me, ma attraverso me, sono il loro passaggio.”
“Cosa significa tutto questo? Sei impazzito, vuoi che il Duca t’ammazzi?” sospirai, mentre la tetra sensazione che fossimo osservati si faceva sempre più certa.
“Mi uccidesse. Ma non potrà chiudere la porta.” Sentenziò.
“Cosa diavolo hai scritto, scellerato? Per morire potresti scegliere una via indolore, adesso il Duca ti farà soffrire i tormenti dell’inferno!” me ne uscii, quasi disperato: non volevo che Zero Nove morisse.
“Potrebbe scegliere di assassinarmi in un modo orribile, è vero. Ma ormai il passaggio è aperto.” Insisté.
“Ho combattuto al fianco di Meliel perché dovevamo difendere il nostro mondo. E io, Re Asamoad, ho perso la guerra. Io tuo amico fraterno, chiedo la tua protezione, Adam, per il mio Staigh. Uzzath ha attaccato a tradimento questi mondi, dopo aver chiesto l’Amicizia e la Solidarietà dei Draghi di Meliel e degli Staigh.” Recitò con una voce roca, bassa, mai udita in un Allaghèn. Poi riprese, con il solito tono acuto: “Il messaggio ha aperto il varco.” .
Aggrottai la fronte, avevo la bocca impastata per l’ansia di vedere piombare nella sala Gundir, e, con i suoi feroci artigli, ghermire quel foglio per portarlo al suo signore, il Duca. Mi feci forza e gli replicai: “Dunque è questo quanto hai scritto? Il messaggio di un Re?”
L’Allaghèn: “Gli Staigh sono morti, cadendo nella mani di Uzzath e Asamoad è stato trascinato in catene al cospetto di Adam ventiquattresimo, il padre del tuo signore.”
“Staigh, cosa significa questa parola?” domandai, eccitato da un sentimento misto di terrore e meraviglia per quanto stavo vivendo.
“Ti hanno raccontato un storia che non è mai accaduta, Peter.” La voce dell’Allaghèn era sicura, al pari di un antico bardo di guerra, proferì la sua narrazione “Ma ora conoscerai un popolo sterminato, perché il grande progetto di Alath avesse un nuovo spazio vitale e un terreno fertile, al riparo dagli occhi molesti dei Ribelli d’Aurora. È il popolo dei Lacerta. Antichi Rettili, Poeti Guerrieri, gente degli Staigh, le loro comunità. Indomabili, nessun governo poteva amministrarli, né alcuna nazione contenerli. Per questo venne per loro decretata la morte. I Signori della Luce si presero solo i Re per dare vita a una nuova generazione di Lacerta nei loro laboratori. Fecero in modo che l’istinto alla libertà , memoria degli Staigh fosse spezzato per sempre, nelle loro discendenze. Ma può morire ciò che non nasce? Così l’eternità della memoria degli Staigh perdura, attraverso l’Esperienza dei Maestri Cantori.”
Indietreggiai, con una strana consapevolezza di avere innanzi un’entità tanto antica, da scavarmi laddove i miei ragionamenti e la mia immaginazione sembravano inabissarsi.
“Non mi ucciderà.” Continuò.
Lo guardai, allibito.
“Non lo farà, il Duca non se la sentirà. Il messaggio è passato. E anche se non sa di averlo raccolto, attraverso queste parole, abbiamo aperto il varco.” Perseverò.
“Il nostro amico ha dato il via al grande gioco?” sentii la voce profonda del Duca.
“Vostra Altezza!” mi ricomposi, scattando in piedi. Anche quella volta non m’accorsi del suo ingresso, travolto dalla curiosità verso l’opera dell’Allaghèn.
L’Uomo avanzò maestoso verso di noi. Numero Nove cercò riparo verso il muro, quasi presagendo l’inferno in cui quella sua opera lo avrebbe condotto. Il viso del Duca era marmo, con due acquamarina luminose al posto degli occhi. Il respiro della Creatura si fece rapido e il suo corpo si accartocciò nella posizione di un animale selvatico pronto a fuggire. Il passo marziale e minaccioso del Duca sembrava sbranare i pensieri dell’Allaghèn che cercava di grattare il muro nella speranza di una via di scampo.
Con uno sguardo senz’emozioni mi indicò il foglio sul quale aveva lavorato. Glielo passai.
“Ottimo, Dakous, grazie.” Fece l’Uomo.
“Posso permettermi di chiedervi cosa ha fatto su questo foglio, Numero Nove, Altezza?” domandai, rischiando la sua ira. Quando era congelato in quell’incedere da predatore, avrei corso il rischio della sua furia con una simile richiesta. Il fare del Duca si era appesantito da un’aura di melanconia. Al contrario di quel che m’aspettai, le sue labbra si fecero miti e mi rispose: “Su questo foglio è stata compiuta una blasfemia letale.” Disse.
Poi guardò il suo prigioniero, se non avesse avuto negli occhi la luce dell’innocenza assoluta, quella creatura si sarebbe condannata a morte. L’Uomo mi parve sprofondato in un abisso, nel quale non riusciva a orientarsi.
“Come conosci questa storia?” la sua voce portava il velo della tristezza.
Numero Nove s’intimorì.
“Devo saperlo, Zero Nove, come sai di questa storia?” incalzò, trattenendogli una mano.
“Mi fai male!”
“Allora dimmi!” insisté, gravato da quella strana sensazione che lo ammantava.
“Io non so neppure cos’è che ho fatto!” replicò, impaurito.
Gli liberò il polso: “D’accordo, sta’ calmo.”
Guardavo ciò che stava accadendo impietrito, quasi fossi estraneo a tutto quel mondo. Il Duca s’accorse del mio distacco e, mi spiegò, con la maligna intenzione di riportarmi alla realtà in modo che vivessi ogni goccia di quell’angoscia: “Ora ti dico cos’è accaduto, Dakous. Questo diavolo ha scritto nomi e fatti che appartengono a una storia e a un popolo sbagliati.” Il suo volto era divenuto il solito blocco di ghiaccio. L’apatia e l’amarezza erano scomparse dai suoi occhi, tornati pietre d’acquamarina.
“Sbagliati? Vostra Altezza non intendo, vi prego di scusare la mia ignoranza.” Balbettai confuso.
“Credo ti faccia piacere dare un’occhiata. Avvicinati.” Mi disse. Mi porse il foglio incriminato. Rimasi atterrito per la meraviglia. Righe tortuose scendevano dal bordo alto della carta sino al basso, quasi fossero serpi d’inchiostro: “Sembra un’antica scrittura delle pianure orientali terrestri.” Dissi “Ma non credo di aver visto nulla di simile nel mondo umano.”
Il Duca sorrise, sghiacciando la tensione del momento: “Capisco il tuo stupore. Credimi nessun umano è in grado di parlare o di scrivere una simile lingua.”
“Lingua? Quindi, Altezza, si tratta di qualcosa di strutturato, di logico?”
Annuì.
“E di cosa quale scrittura si tratta, di un linguaggio degli Allaghèn?”
Rise: “No, caro amico, a quello spero non ci arriverai. Leggere qualcosa di scritto in lingua Allaghèn significa morire, se non si è pronti a gestire la demoniaca vita delle sue lettere.”
“Vostra Altezza, dunque cos’ho sotto gli occhi?” incalzai con una curiosità lacerante.
Il Duca accondiscese la mia sete di conoscenza: “Questa lingua non si vede più sulla terra dai tempi del Combattimento di Adam, da quando i nemici di Dio sono stati cacciati dalla Terra. E questa era la scrittura di alcune loro tribù.”
“A quali tribù fate menzione, Altezza?”
“Mardùk abitava il loro mondo. Erano rettili più sinuosi e rapidi.”
“Come i Guardiani?”
“No, più piccoli, quasi quanto te. Con un volto e non con un muso. Bipedi e con una coda lunga e sottile, buona solo per l’equilibrio e non per essere usata come mazza sul nemico.”
“Vostra Altezza non vi spazientite se continuo a chiedervi. Mi state descrivendo dunque degli Uomini Rettili?”
Il Duca non era seccato, anzi pareva volesse trascinarmi in un gorgo di storie passate, echi di memorie violentate, proibite: “I Lacerta non sono Uomini. Sono Rettili, adoratori dell’Inganno di Meliel il Drago. Si schierarono al fianco dei Ribelli di Azyrath, la Regina d’Aurora, ai tempi della Guerra.”
Gli Staigh, le comunità dei Lacerta. Sospettavo che il Duca sapesse cosa stessi pensando. Ormai ero avvezzo a essere violentato nella mente. Non avevo alcun segreto da custodire nella dimensione dove mi aveva gettato. Tutto ciò che immaginavo, pensavo, lui la scrutava nella mia mente. Vivevo senza l’ ombra di un’intimità.
“Dunque hanno tradito dio?” dissi.
“È così, caro amico, e perciò sono stati dannati. Ogni loro leggenda, tradizione o poesia è stata bandita dal Regno di Adam, affinché l’Errore di Meliel non si propagasse nei mondi di Alath.”
“Ma come fa quest’Allaghèn a conoscere una simile storia? Non capisco, vogliate perdonarmi.” Pigolai in cerca di spiegazioni.
“Lo capirai, Dakous.” Si diresse di nuovo dal prigioniero che era impallidito e cercava con gli occhi una qualsiasi via di fuga.
“Mardùk e io ti faremo partecipe di una straordinaria esperienza. Seguimi .” Mi disse.
Rabbrividii udendo il nome del Rettile Bianco.
Prese con una sola mossa e senza sforzo l’Allaghèn in braccio.
“No, no, non mi portare ancora lì!” Si terrorizzò vedendo che il Duca si dirigeva verso la porta corrazzata. Costretto dal suo comando, lo seguii. Anch’io cercai di allontanare dalla mente il viaggio nella foresta sotterranea di quel dinosauro mostruoso. Ma la voce del Duca è chiara, grave e non si confonde. Sarei dovuto scendere con lui e con il disgraziato prigioniero in quegli inferi maleodoranti. All’interno del tunnel ci attendevano due Cavalieri di scorta.
“è tutto pronto, Vostra Altezza, Mardùk è stato avvertito.” Lo informò uno di questi.
Mi chiesi il quando di quel ragguaglio al Rettile, visto che tutto accadde un istante prima. Ma il tempo, nella dimensione in cui mi trovavo, era molto diverso da quello vissuto nel mondo umano. E poteva capitare che due momenti identici fra loro, accadessero in due luoghi diversi, allo stesso tempo.
“Ottimo, Abhadar, andiamo, non facciamo aspettare il nostro Sacerdote.” Replicò il Duca, Aggiustandosi fra le braccia l’Allaghèn, infradiciato di sudore e paura.
“Peter, ti prego, non farmi portare lì!” pregò piangendo. Ebbi uno spasmo allo stomaco nel sentire quell’implorazione, e il mio vero nome. Non gliel’avevo mai confidato, né lo fece qualcun altro, credo. Cercai di calmarlo, schioccando la lingua sul palato.
“Peter abbi pietà, se ritorno lì questa volta ci muoio!” urlò.
Il Duca seccato: “Piantala di latrare! Il Rito vi fa male ma non vi uccide!”
“No, non capisci? Mardùk odia quello che ho fatto!” Farfugliò fra le lacrime.
“Allora ne sei consapevole, diavolo d’un Allaghèn!” ringhiò il Duca.
Lui: “Non lo so cos’ho fatto, quello che è certo è solo l’odio di Mardùk verso quanto è accaduto.”
All’improvviso il Duca puntò con lo sguardo nel vuoto, al pari di un’aquila quando intercetta una preda dall’altro dei cieli. I Cavalieri s’azzittirono. Tutt’intorno regnò subito un silenzio pesante.
“Mio padre vuole questa creatura.” Parlò.
Uno dei Cavalieri: “La scortiamo da Vostra Maestà, Milord.” Proferì.
Non ci sono cercapersone nel Castello e i Figli di Adam non usano i telefoni.
Lo sentii parlare, un suono impercettibile raccolto fra la sua barba dorata, nonostante l’acume dei loro sensi, i Cavalieri non l’udirono: “Dannazione, è davvero la fine.”
Ma io lo colsi quel sospiro. Non possiedo l’udito e la vista di un Cavaliere, ma riuscii a captare quell’anelito intriso d’ansia. Perché mi fu possibile?
“Dakous, vieni con me.” Mi ordinò “Torniamo nell’Anticamera per preparare Numero Nove.”
Lo seguii assieme al codazzo di mantelli neri. Il Duca adagiò l’Allaghèn sul suo letto e cominciammo a pulirlo per renderlo presentabile al cospetto del Re.
Poi mi ritrovai gli occhi di neve del Duca sul viso.
“Vostra Altezza, posso sapere cosa succede?” chiesi
Lui: “Peter, mio padre non ha chiesto solo di questo sciagurato.” Mi chiamò col mio vero nome, anche lui. Fu come se il significato del mio appellativo fosse una sorta di chiave per aprire alcuni mondi nascosti della memoria. La sua voce abbrunita dallo sconforto cercava di rimanere in equilibrio sui suoi soliti freddi accenti. Ma capii subito cosa presagisse quella frase: “ Non mi ha chiesto solo di questo sciagurato.”.
“Io, devo venire con voi, vero, Altezza?”
Un suo respiro profondo mi fece intuire la realtà.
“Allora, cosa devo fare per vostro Padre, il Re?”
“Non ne ho la minima idea, Peter. Sei stato trasferito ai suoi servizi e questo è tutto quello che mi è dato sapere per ora.”
In genere servire un Re potrebbe sembrare un buon lavoro. La Corte di Adam però non somiglia a nulla di quello che conoscete sulla Terra. E venire reclutati al ministero del Re potrebbe anche significare la caduta in abisso del tutto ignoto.
“Preparati, dobbiamo andare fra poco.” Mi comandò.
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Da questo momento in poi non ho più notizie certe di Peter Bang, battezzato Dakousaepek Tanagoudenal, né dell’Allaghèn Numero Nove e del suo messaggio . Il racconto che avete appena letto è l’ ultimo in ordine cronologico, che parli di una realtà a me nota. Di sicuro scrisse il suo diario anche durante il servizio presso la Corte, lo so grazie ad alcuni suoi fogli ritrovati nel corso della mia indagine. Continuerò a cercare la verità in questo luogo avulso da ogni legge di natura.
Janas Erik Matthia Duca di Kargaard
Il Messaggio del Re Lacerta
Ho reperito il documento nel M.A.R.I. /A, l’archivio più inviolabile della Famiglia di Adam. È un testo “sigillato” da una Bolla Reale, perciò quanto state per leggere potrebbe costarmi la vita, qualora venisse scoperto dalla Guardia Reale.
Una Bolla Reale è quel foglio chiaro che vedete campeggiare in alto, sopra al testo della lettera vera e propria. Il foglio è accompagnato da timbri e sigilli di provenienza Reale e dal Sigillo Ducale. Ho firmato anch’io questo documento, davanti al Re, perché uno dei miei doveri è mantenere il segreto del Mari/A, proteggendo i suoi tesori. Ho un autografo che riconoscerete subito: quando firmo disegno la testa di un Cavallo. Certe volte, come in questo caso, uso un semplice timbro che replica la mia firma. Il mio Sigillo è importante per il Re. Attraverso questo completa la “chiusura” dell’Archivio. Infatti, essendo io il Primo Cavaliere, il Supremo Capo dei Guardiani del MARI/A, ho il dovere di “chiudere a chiave” la porta dell’Archivio.
La Lettera è scritta in una carta bruno-rossiccia, tipica dei fogli prodotti dai Cavalieri di Viborg. Prodotta da corteccia di abete e pelli animali, sembra indistruttibile. La cosa che vi salterà agli occhi è la scrittura serpeggiante adoperata dall’Allaghèn. Si tratta di una grafia adoperata da un Popolo dei Rettili chiamati Lacerta. I segni scendono dall’alto verso il margine inferiore del foglio e la lettura scorrendo in verticale procede da sinistra verso destra, come il Danese e gli altri linguaggi Europei. Sappiate che questo foglio e questa particolare lingua, l’Amargall, sono solo uno degli innumerevoli dialetti dei Lacerta. Non c’è un linguaggio universale che accomuni questi Rettili. Sebbene la scrittura sia simile un po’ ovunque nelle loro società, gli Staigh, la grammatica varia in modo netto da comunità a comunità. È impossibile classificare quanti dialetti esistano di questi linguaggio. Ogni Staigh conta circa da un centinaio a trecento individui al massimo, e possiede un proprio idioma. I Lacerta inquadrati nei ranghi militari dei Siran, come quelli inseriti nell’esercito dei Cavalieri di Adam, parlano le lingue dei loro signori, adattate alla loro conformazione vocale.
Due Staigh di Lacerta però riescono a capirsi sempre. Hanno una base comunicativa fondata su un sistema non verbale, grazie a variazioni impercettibili per un uomo della loro postura, riescono a rendere concetti e idee. Inoltre esistono macroregioni linguistiche che raggruppano diversi Staigh sotto un idioma artificiale, uno slang, ottenuto affinando e modificando i propri dialetti sulla base di quelli dei vicini.
Vi mostro il testo trascritto dall’Allaghèn in Amargal:
[testo della Bolla Reale in Kitosirawan]
Per volontà di Dio questo documento viene chiuso nell’Archivio MARI A
per mezzo del Sigillo Ducale.
Per Volere di Alath interdico la sua lettura.
Re Adam Ventiquattresimo
[Testo Tradotto del Documento in Amargall]
Ho combattuto al fianco di Meliel perché dovevamo difendere il nostro mondo. E io, Re Asamoad, ho perso la guerra. Io tuo amico fraterno, chiedo la tua protezione, Adam, per il mio Staigh. Uzzath ha attaccato a tradimento questi mondi, dopo aver chiesto l’Amicizia e la Solidarietà dei Draghi di Meliel e degli Staigh.
Alcuni accenni alla Lingua Amargall
Vi avviso, prima di iniziare questa sintetica escursione nell’Amargall, che in alcun modo ci è dato poter replicare i suoni di questa lingua. L’apparato fonetico di un Lacerta è del tutto diverso da quello umano. Vi sono suoni prodotti con le casse di risonanza cranio-facciali, le creste che sporgono dal cranio, altri che vengono emessi con un rollio della sacca giugulare, schiocchi di una lingua lunghissima e muscolosa. Ma come noterete sono del tutto assenti quelle consonanti che noi chiamiamo “labiali”, questo perché non avendo labbra, un Lacerta non potrà mai emettere un suono simile a una “b” o a una “p”. Non tentate perciò di intraprendere una conversazione in Amargall con un Lacerta che non conoscete, il poverino si troverebbe in serie difficoltà nel tentare di capirvi. Alcuni Staigh comprendono bene le lingue umane, anche se non le parlano in modo del tutto chiaro per le differenza appena descritte del loro sistema vocale.
Il Linguaggio dello Staigh di Asamoad è inserito nella macroregione linguistica dell’Amargallavannkaran, un sistema di dialetti caratterizzata da una forma grammaticale priva di verbo. Il verbo, come lo intendiamo nella nostra visione della frase, cioè l’azione del soggetto, è sostituito da una forma ottenuta con una particella (detta, appunto particella della forma verbale) e un sostantivo dal quale discende l’idea dell’azione.
Per esempio nella lettera appena studiata:
Ho combattuto al fianco di Meliel
Arqa iĺlul shatźatrařa oȓ aĺim Melïel Śa
Le parti verbali della frase sono:
iĺlul, che indica il senso dell’azione al passato, oȓ, particella che mostra l’idea di “azione”
fra le due parti è inserito il sostantivo “shatźatrařa”, guerra.
Sono tre le particelle verbali: oȓ, indicante il senso di azione che accompagna i verbi transitivi in genere, ash individua il senso del “moto” di un soggetto (si traduce in genere con i verbi di moto, come andare, venire …) e aŦtz, che si riferisce per lo più ai verbi che definiremmo intransitivi o passivi .
Per i pronomi si usano le “legature” segni grafici che attaccano letteralmente il suffisso pronominale al sostantivo.
Dal testo:
il tuo amico: Attarqu nar arqiĺl
nar è la traduzione grafologica in lettere latine del suono associato alla Legatura presente nel testo.
Sappiate che anche queste poche righe d’informazioni possono causare la mia condanna a morte. Per questo debbo interrompermi per ora. Spero solo di poter tornare sull’argomento.
A presto
Janas Matthia Erik, Duca di Kargaard