IL CAPRO

In memoriam V. N.

Non c’è niente da fare: puoi aver passato la tua breve o lunga esistenza fra i video più stupidi e alla moda della rete, aver seguito le mode più superficiali che siano mai sorte con l’incoscienza più bestiale, essere distante tutti gli anni luce che vuoi dalle più lievi impervietà di ogni forma di filosofia, ma se il tuo momento arriva saprai senza aver letto una sola pagina di Artaud o della Nascita della tragedia, senza aver visto una sola installazione performance o film di Syberberg, Barney, Wilson, Beuys… che cos’è l’antico sacro del teatro, come si materializza l’orrore vero: ecco che d’improvviso, un tizio che più qualunque non si può – dunque non esistono – totalmente privo d’ogni forma di vera alta cultura diventa alta cultura vivente. E questa è l’affermazione finale di essa al di là di ogni intellettualismo, al di là di ogni intellettualoide e al di là di ogni rogo.

E come accade? Una semplice malattia degenerativa del cervello, niente di tanto strano senza la nobiltà e l’originalità di cui si ammantano la Schizofrenia o la Paranoia, basta un po’ di demenza senile e tu diventerai spettatore di una macchina perfetta: d’improvviso, l’uomo diventa attore prendendo una scusa qualsiasi del suo piccolo mondo passato, una borsa per esempio o una sedia che diventano immediatamente attrezzo di scena. Ecco il mezzo che spezza la sua vita in due il trampolino che lo lancia nell’infinito, la voce cambia, proviene dall’essere posseduti, tutti i modi del passato non esistono più, si crea un crepaccio in nessun modo valicabile – l’irruzione del sacro –  fra te e quell’individuo col quale scherzavi fino a un attimo prima, che fino a un attimo prima accarezzavi, baciavi, che ti baciava. La borsa e la sedia sono i pulsanti che vengono schiacciati e lo sbalzano in un’altra dimensione.

Il teatro è severo maestro, maestro inflessibile anzi, e fa diventare immediatamente maestro il principiante più ottuso che pareva più lontano da lui – ma il materiale si trasforma: come vengono metaforicamente utilizzate la borsa, la sedia per stilizzare la metafora dell’Altrove, quella “casa mia” che non si trova da nessuna parte, che non sarebbe quella neppure se esistesse – la solfa ricomincerebbe cercando un’Altra “casa mia” altrettanto introvabile – della quale comincia a farneticare e sulla quale comincia a inveire contro di te con parole che non aveva mai usato, ma anzi sempre censurato e disprezzato storcendo il naso di beneducato borghese… ecco sul palco il sacro capro di fronte al quale le messe nere, i 666 e i simboli cristiani rovesciati se la battono, e anche alla svelta, perché capiscono di essere nient’altro che qualcosa di imparaticcio e insignificante davanti all’illuminazione sciamanica di una versificazione perfetta, di un folle una volta giustamente riverito capace di prendere qualunque parola e di renderla poesia grazie a un ritmo che nessun poeta può sognarsi anche solo lontanamente di possedere, innato o costruito che sia.

Anche in questo caso vige lo stesso principio della borsa, della sedia: non importa il materiale di partenza, il materiale si trasforma nella monade chiusa della scena, che lui dica “Scorno” come “Io sono il figlio di X”… quelle parole diventano divina commedia, sono precise nei loro accenti come numeri che sembrano tutti giusti… Nessun film horror ci mette di fronte all’orrore che stiamo vedendo gratuitamente, seduti in prima fila, sbalorditi, abbiamo paura della cultura finalmente…

27/08 – 05/09/21

Gianfranco Galliano