IV TROFEO LA CENTURIA E LA ZONA MORTA: II CLASSIFICATO

LO SPECCHIO NERO

di FABIO TRUPPI

Quando a Nyan fu affidato l’ordine delle tenebre,

 nessuno tra gli dei osò opporsi pur presagendo le volte

 in cui nel suo dolore lei si sarebbe eclissata,

lasciando in quelle notti il mondo

completamente in balia del proprio destino.

(Dal mito di Eylos e Nyan)

Ci sono giorni in cui Gryon esercita un fascino irresistibile su tutti coloro che vi entrano attraversando la porta d’accesso delle ciclopiche mura. L’ignaro visitatore è subito conquistato dalle sue architetture complesse e improbabili e dai suoi contorti vicoli, per poi finire stordito dai profumi speziati dei prodotti esposti tra le baracche nei mercati, sempre gremiti di gente proveniente non solo dalle città settentrionali di Kelyot ma anche dal Mare del Nord.

La vera fortuna di Gryon, infatti, e in un certo senso la sua garanzia di sopravvivenza, è il Rhoyon, il lungo fiume dalle tre sorgenti che taglia il continente fino al mare. Difficilmente Gryon, ossia letteralmente “figlia del Rhoyon”, esisterebbe se il fiume stesso non fosse navigabile, fornendo di continuo approvvigionamenti e mercanzie ricercate.

Tuttavia la chiassosa e colorata Gryon cela un lato oscuro che proprio il fiume è in grado di svelare, quando certe volte dalla sua superficie una fitta bruma si leva movendosi lentamente fino a lambire la città, avvolgendola tra le sue spire.

Nel buio di siffatte notti, nessuno oserebbe vagare tra quelle strade, neppure il più folle e avventato, se non a costo della propria vita. Figure rivestite d’ombra serpeggiano furtivamente, pronte a tramare senza timore di commettere il più turpe delitto o la più vile delle azioni, come nella più malfamata delle città portuali. Ma se anche questi individui dovessero essi stessi indicare un luogo dove neppure il più audace fra loro si azzarderebbe a recarsi, sicuramente quel luogo sarebbe il maniero abbandonato ai margini della città.

Addossate alle possenti mura di cinta, le rovine del maniero si stagliavano nel cielo di Gryon come artigli minacciosi; le sue alte torri, in più punti erose e tronche, assomigliavano agli arti letali di un enorme mostro proveniente dai profondi abissi, pronti a scagliarsi mortalmente sui malcapitati. La stessa pietra così scura, forse di natura lavica fatta arrivare chissà da dove, aveva sempre contribuito a rendere il maniero un luogo ancor più maledetto e aborrito.

Abitato un tempo da un misterioso nobile schivo e tenebroso, di cui persino il nome si è voluto dimenticare, nonostante la sua appartenenza a un antico casato, le uniche notizie su tale dimora riguardavano losche riunioni tra sette segrete e funeste consorterie.

Innominabili esperimenti erano stati per anni gli unici protagonisti della macabra vita all’interno del maniero, condotti senza criterio dallo stesso signore il quale, si diceva, aveva coltivato fino alla morte – se la sua scomparsa la si può attribuire ad essa – l’insana passione per le arti oscure. Per questo i soli e ultimi frequentatori del maniero, decenni prima, erano stati soprattutto stregoni e incantatori.

La voce di un qualche tesoro nascosto tra le segrete del maniero, arricchita di presenze diafane e trabocchetti mortali, rimase comunque una colorita eco di invenzioni narrative utili soltanto ai bardi e ai cantastorie, ma pienamente (e ragionevolmente) ignorata dai più.

Eppure, in una di queste cupe notti senza Nyan, tra le strade ammantate di bruma, delle ombre solitarie e indistinguibili stavano per imboccare l’ingresso al maniero abbandonato, sfidando ogni maledizione e pericolo a esso legati.

Con passi lesti e sicuri, attraversarono il selciato ricoperto di erbacce, fino a giungere di fronte all’enorme portone d’ingresso, squarciato e corroso dagli anni. Rimanendo lì solo per pochi attimi, quasi a dover prendere in ultima istanza la definitiva decisione di entrare o no, le due figure varcarono infine la soglia senza indugio, inghiottiti dal lugubre edificio.

Attesero di attraversare un paio di freddi ambienti, umidi e spogli, prima che la figura più alta estraesse dal suo zaino una torcia, accendendola dopo molti tentativi con un rozzo acciarino malmesso. La piccola fiamma provocata, inizialmente fioca e incerta, gettò finalmente un minimo di luce sufficiente per distinguere almeno ambienti e pareti, nonché il viso teso e fuligginoso di colei che reggeva la torcia, oltre al profilo di un piccolo cane meticcio dal colore grigiastro.

La figura incappucciata si guardò attorno tirando fuori dal panciotto una vecchia pianta del maniero, in più punti illeggibile e logorata; poi si accovacciò chiamando a sé l’animale palesemente inquieto e spaurito, carezzandolo sul capo.

«Non aver paura, Grem.» – esordì la ragazza con voce tesa ma calibrata – «Non dobbiamo aver paura. Vedi? Non c’è anima viva in questo luogo. E Arwyll è qui con te. Deve solo trovare l’ingresso per i sotterranei e sperare che le storie nascondino una qualche verità. Puoi attendermi qui, se vuoi.»

L’animale non se lo fece ripetere due volte, preferendo accucciarsi e sparire in un angolo, non senza averle prima affettuosamente leccato la mano, quasi a mettersi a posto la coscienza. Ma era quello che lei si aspettava e Arwyll lo amava anche per questo, ammirando almeno il coraggio di averla seguito addirittura fin dentro al maniero abbandonato. Pretendere di più dal suo Grem sarebbe quasi come condannarlo a un sicuro attacco di panico, come quella volta che le guardie cittadine li inseguirono per tutta Gryon e dovettero nascondersi nelle fogne.

Così, tirato un lungo respiro, la giovane donna proseguì da sola, attraversando ampi locali ormai fittamente coperti di ragnatele e muffa, in passato indubbiamente imponenti e fastosi. Sguardi raffigurati su affreschi scoloriti rivelavano occhi spietati. Qualche pipistrello svolazzava indisturbato all’altezza del soffitto, mentre improvvise folate di vento facevano sbattere ante scricchiolanti del vasto edificio, mettendo a dura prova i suoi nervi e la sua concentrazione.

L’agile donna acuì ulteriormente i sensi, sforzandosi soprattutto di non farsi influenzare dal buio angoscioso che la circondava e che le trasmetteva una sensazione di greve inquietudine. Lei, talmente esile e indifesa, contro un’oscurità palpabile e paurosa… Inutile stoltezza o eroica audacia? Scacciò dalla mente quei pensieri improduttivi, accelerando i passi e consultando costantemente la sua pianta stropicciata e incompleta.

Raggiunse un locale più appartato, facendo attenzione alle schegge delle vetrate presenti un po’ dappertutto sul pavimento. Al suo interno scorse una piccola cancellata arrugginita oltre la quale scendevano dei gradini consunti. Percorse una scalinata a chiocciola ritrovandosi, trepidante, in un ampio salone sotterraneo con la volta a botte, sulle cui pareti sembravano esserci delle nicchie per l’intera lunghezza del salone stesso. Ebbe la conferma di ciò quando sistemò la fiaccola su uno dei reggitorcia del muro e ne tirò fuori un’altra alimentandola dalla prima.

Con un po’ più di luce, quindi, notò con rammarico che sul pavimento non giacevano altro che schegge di vetro, frammenti di ciotole e alambicchi, utensili corrosi, un enorme candelabro rotto e un paio di tavoli dal legno marcito e bacato. Tristi arredi, ora, di una sorta di laboratorio affidato ai topi e al logorio del tempo.

Nulla, nulla che non valesse meno di niente per Arwyll.

Questa sortita si stava rivelando un ennesimo fallimento, realizzò la ragazza. Non vedeva botole o ulteriori passaggi nascosti, né tanto meno oggetti preziosi da rivendere o barattare, quanto piuttosto macerie da gettare o bruciare.

Probabilmente avrebbe dovuto continuare a cercare in altri posti.

La giovane ladra ispezionò comunque senza tralasciare angoli e pareti, né cumuli di fogli illeggibili sparsi dappertutto, sentendosi attanagliata dallo sconforto. Persino le nicchie non custodivano né altarini né candelieri o altro, bensì strati di polvere e scampoli di drappi. Soltanto una, in fondo al salone, rimaneva del tutto coperta da una specie di arazzo scuro. Forse l’ultima speranza per Arwyll.

Su di esso qualcuno aveva raffigurato stravaganti forme dall’aspetto sinistro e balzani simboli di un alfabeto a lei ignoto; i colori, non di meno, variavano dal giallo ocra al rosso acceso, dal verde cinabro al turchese, con intrecci decorativi blu e oro tutt’intorno, creando una bizzarra vastità di tonalità cromatiche che difficilmente potevano passare inosservate.

Quale autore di un arazzo tanto insolito avrebbe mai potuto concepire qualcosa di simile? Perversi vagheggiamenti di una mente disturbata? – si chiese la ragazza con l’umidità che le accentuava i brividi.

Ma soprattutto, poteva ancora avere un qualche valore? – rimuginava tirando più in avanti il cappuccio e maledicendo il fatto di non saper leggere quei segni – Staremo a vedere…

Afferrò dunque il drappo strappandolo dal lembo che lo assicurava al muro, ma le scivolò dalla mano. Con sua grande sorpresa, infatti, si trovò a fissare l’unico oggetto integro che qualcuno aveva dimenticato di requisire dalla nicchia: un esotico specchio in cui, al posto del vetro, c’era una sorta di lastra scura e opaca, nera come ossidiana, inadatta a riflettere alcunché.

La cornice elaborata era ricoperta anch’essa da strati di polvere che lei provò a togliere via con il dito, ma bastò avvicinare la fiamma della sua torcia entro la nicchia perché un lampo di gioia improvviso pervadesse gli occhi luccicanti della ragazza: oro! La cornice, e di sicuro l’intero supporto posteriore dello specchio nero, era costituito di purissimo oro cesellato.

Ripassò le sue dita tremanti per averne la certezza e il suo cuore ne fu appagato. Appoggiò la torcia e sollevò lo specchio, estraendolo dalla nicchia. Quando lo poggiò delicatamente al muro, vicino ai suoi piedi, lo sguardo di Arwyll divenne luminoso come quello di una bambina e non della solita disincantata venticinquenne che era. Sentiva che i suoi sforzi, ora, stavano per essere premiati.

Lo specchio era alto poco più di un metro e largo la metà, pertanto facilmente trasportabile senza dover dar troppo nell’occhio. Avrebbe consultato numerosi antiquari e frequentato i mercati di Gryon e dintorni, finché non le fosse stata proposta l’offerta più vantaggiosa. Con un po’ di pazienza e ponderata prudenza, sarebbe riuscita a guadagnarci più di quanto avesse mai fatto finora con i suoi insignificanti furtarelli.

Apprestandosi a riprendere in mano la torcia, la ragazza fu colta da un improvviso timore quando, con la coda dell’occhio, le era parso che lo specchio nero avesse riflesso, per un solo attimo, le sembianze di qualcuno. Si voltò di scatto, con il cuore che le batteva all’impazzata, ma non vide niente. Il salone continuava a rimanere squallidamente vuoto e silenzioso.

Attese immobile finché non riprese il controllo di sé, lasciando che la suggestione facesse posto alla razionalità. Era una sciocca a comportarsi così, prese a dirsi.

Si rivolse nuovamente verso l’oggetto, promettendosi ugualmente di andarsene quanto prima da quel luogo tetro. Fu tentata di sfiorarne l’oscura superficie opaca e proprio nel momento in cui la mano entrò in contatto con essa, cosa che ancora non aveva fatto, un forte lampo di luce azzurrina la investì completamente.

In pochi attimi il suo corpo fu risucchiato all’interno di quello che pareva un portale stregato, lasciando passare contemporaneamente un’altra figura proveniente dallo specchio e che si ritrovò al suo posto nel salone. Arwyll non ebbe il tempo di rendersi conto di ciò che le era accaduto finendo sconvolta, con la torcia accesa ancora stretta in mano, al centro di un luogo senza pareti e incolore, quasi immateriale, con una sorta di finestra ovale oltre la quale si intravedeva appena una presenza maschile.

Una risata rauca e perversa si diffuse momentaneamente nel salone.

«Che cosa c’è?» – esordì l’uomo con una cadenza odiosamente sarcastica nei confronti della ragazza – «Hai dimenticato di leggere l’incantesimo che avrebbe dovuto proteggerti dallo specchio? O devo supporre, miserabile come sei, che invece di studiare gli alfabeti arcani te ne andassi in giro a raccattare cianfrusaglie in un luogo maledetto come questo? Non immaginavi affatto quanto stupida fosse l’idea di toccare un simile artefatto? Adesso potrai ben riflettere senza alcuna fretta su ciò che ti è accaduto, sebbene paradossalmente sia stata la tua incauta ignoranza a rendere Ythraxerus… nuovamente… libero!»

Seppur atterrita da quella voce, Arwyll si avvicinò con rabbia all’ovale attraverso cui era stata tratta, colpendolo invano con dei pugni, ma fu presto consapevole della disperata situazione in cui era incappata.

«Su, non agitarti. Lo specchio potrebbe cadere e rompersi, condannandoti a quell’eterno limbo senza tempo in cui ti trovi. Buona permanenza!» – concluse l’uomo, allontanandosi.

Nel farlo, calpestò distrattamente la scritta ammonitrice del suo nome ricamata sull’arazzo, alla quale ogni istruito cittadino di Gryon avrebbe letto, in aggiunta, “l’Ingannatore”.

Percorrendo il salone, non poté fare a meno di riconsiderare intollerabile il fatto che lui, uno dei maghi più temuti del suo ordine, fosse stato beffardamente ingannato a sua volta dal losco signore del maniero, molti anni prima.

Una trappola ingegnosa. – si disse, pensando allora con sadico compiacimento a quanti altri sprovveduti si sarebbero avventurati finendo nello specchio. D’altronde, solo un mago avrebbe potuto resistervi senza soccombere o impazzire.

L’alta figura dalle scure vesti sfilò dunque la torcia dalla parete, risalì le scale e guadagnò l’uscita del maniero, iniziando a meditare feroce vendetta contro la città. Il suo incedere altezzoso si defilava a passi misurati tra le case di Gryon, con l’immane ombra del maniero dietro di lui sempre più distante.

I suoi muscoli ricominciavano a muoversi dopo così tanti anni e dalle labbra sottili uscì sottovoce un breve comando che servì in parte a offrire più agilità alle membra intorpidite. Doveva riposare. E mangiare. Bisogni corporei tanto assillanti quanto necessari di cui il mago aveva quasi perso il ricordo.

Sono esausto… Devo recuperare le mie forze…e i miei poteri…

La prima locanda che gli si profilò dinnanzi fu “Il grifone amaranto”, con la sua insegna da poco ridipinta. C’era da aspettarsi che fosse ancora chiusa, essendo notte fonda, ma non lo sarebbe stato per Ythraxerus.

L’eco del latrato di un animale giunse vagamente alle sue orecchie. A un tratto l’uomo si voltò credendo di avere un’ombra alle spalle che lo seguiva, ma non vide anima viva e la città, rivestita di bruma e ignara del nuovo incubo che stava per abbattersi su di essa, sembrava immersa in un sonno stregato.

Giunto sulla soglia, bussò alla porta e attese che qualcuno facesse scorrere la finestrella all’altezza del viso. Bussò con più vigore e finalmente il volto assonnato di un giovane spuntò dalla finestrella.

«Siamo chiusi! Chi è?» – domandò con voce impastata rivolgendosi allo sconosciuto.

«Ythraxerus di Kroyl o, se preferisci, Ythraxerus l’Ingannatore, per usare un pittoresco modo della vostra plebaglia di indicare la mia persona, qualche decade fa.»

«Come?» – farfugliò il giovane non del tutto ridestato.

«Fammi entrare. Subito.» – intimò il mago.

«Che cosa? Hai bevuto, vecchio scemo? Siamo chiusi, ho detto. Torna domattina!»

Inudibili parole fecero scattare le serrature della porta e i cardini presero a roteare lasciando via libera all’uomo dalle lunghe vesti. Il giovane si stropicciò gli occhi sbalordito e confuso. Ritrovandosi di fronte l’uomo che continuava a salmodiare qualcosa sottovoce, mise mano al pugnale che si era prontamente appeso alla cintola prima di recarsi a vedere chi stesse bussando, ma le sue forze gli vennero meno. La lama cadde a terra e il giovane si accasciò sul pavimento come rapito da un sonno improvviso e profondo.

Il mago richiuse la porta alle sue spalle ed entrò nella locanda.

Una grande lucerna era accesa e posta su uno dei tavoli centrali. Dalla porta dietro al bancone giunse intanto un uomo sulla sessantina con in mano una lanterna. Quando vide uno sconosciuto nella sua locanda e il giovane inserviente riversato a terra, rimase atterrito e senza parole. Superò l’uomo che si guardava intorno con aria di sufficienza e si piegò verso il giovane accertandosi che non fosse morto.

«Che è successo?» – riuscì a dire il pover’uomo.

«Oh, non preoccuparti,» – rispose il mago – «sta continuando il suo dolce sonnellino. Ma non sarò così clemente la prossima volta che qualcuno mi si opporrà, mio buon locandiere! Non vorrai anche tu cercare di lasciarmi fuori, con tutti i manigoldi che potrei incrociare a quest’ora, vero?»

L’uomo, notando la sua tunica scura e la tipica foggia appartenente a qualche ordine di maghi, intuì per esperienza di trovarsi di fronte a un individuo con cui la mera forza fisica non sarebbe servita a nulla se non a rischiare la pelle.

«Che cosa… desideri da noi?» – domandò cautamente.

«Orbene, ciò che in una locanda sia lecito aspettarsi: cibo e riposo. Preparami qualcosa da mangiare e accompagnami in una delle tue stanze.»

«Posso preparare la stanza,» – aggiunse il locandiere soffocando il suo impotente rancore – «ma la cucina non è pronta. Ho bisogno di accendere…»

«Non m’importa di che cosa hai bisogno.» – lo interruppe – «Odio sentire scuse! Datti da fare.»

«Sono solo… ora,» – disse riferendosi al suo inserviente svenuto – «ma farò il più velocemente possibile, signore.»

Con evidente timore, l’albergatore accompagnò lo straniero salendo le scale fino alla porta di una delle stanze. Le altre camere erano visibilmente vuote.

«Sono l’unico cliente, vedo. Dovresti essere contento della mia presenza.» – commentò Ythraxerus con un bieco sorriso sulle labbra.

Entrati nella camera, mentre il locandiere accendeva un’altra lanterna e si accertava che il letto fosse pronto, il mago tirò fuori un paio di sassolini raccolti durante il tragitto dal maniero alla locanda e nascostamente li mutò, almeno in apparenza, in piccole pepite d’oro.

«Se mi servirai bene, uomo,» – soggiunse poggiandole su un cassettone – «queste saranno la tua meritata ricompensa.»

L’uomo considerò l’oro con malcelato disinteresse, mentre apriva leggermente le imposte; infine, obbedendo allo sprezzante gesto della sua mano inanellata, si congedò dal mago con la testa china.

Ythraxerus sfilò da un borsello una specie di pietra simile a una giada, grande quasi quanto il suo pugno, poggiandola al centro del tavolino; poi si sdraiò sul letto. Chiunque avesse esaminato quell’oggetto, si sarebbe sorpreso di scorgere al suo interno un piccolo anfittero in miniatura che si agitava fluttuando tra fiamme e fumi verdastri. La pietra infatti brillava di una propria luce e il mago la scrutava tendendo verso di essa la sua mano adunca, come se cominciasse a ricevere un qualche misterioso beneficio.

Rimase così per un po’, mentre da sotto giungevano rumori di stoviglie e bisbiglii. Suppose che il giovane imbecille di prima si fosse già ripreso e si stupì ulteriormente di quanto l’intensità dei suoi incantesimi si fosse indebolita. Osservò i sassolini sul cassettone e notò che le loro sembianze erano ancora quelle di piccole pepite, indovinando per quanti giorni ancora sarebbero rimasti tali prima di ritornare semplici ciottoli.

Nel frattempo la fame gli aumentava insopportabilmente, rendendo impossibile concentrarsi adeguatamente. Un’incontrollabile collera iniziò pertanto a invaderlo.

Finalmente udì dei passi salire i gradini che portavano sopra, dopodiché una mano bussare con gentilezza alla porta. Il mago si sollevò dal letto, mise via la sua pietra ed esclamò con disprezzo: «Ce n’è voluto! Capisco perché la gente evita la tua locanda… Entra, presto.»

Le sue parole, però, rimasero del tutto ignorate.

«Sei sordo, stupido fannullone?» – riprese il mago furioso – «T’ho detto di entrare, prima che decida di tramutarti in cinghiale!»

La porta si aprì di scatto. Inaspettatamente una figura incappucciata gli si parò davanti reggendo un oggetto ovale e andandogli incontro decisa.

Ythraxerus, sgranando gli occhi alla vista di quell’oggetto, tentò di indietreggiare e istintivamente si parò con le mani toccandone la nera superficie. In quell’attimo una fonte di energia azzurrina si sprigionò risucchiando il mago al suo interno. Nello stesso istante una piccola ombra a quattro zampe schizzava fuori nascondendosi nella stanza.

«Ci sei riuscita?» – domandò il locandiere appena accorso con ancora l’affanno delle scale salite in fretta – «Ce l’hai fatta davvero? Ho temuto che mentissi quando ti sei presentata assicurandomi che avresti mandato via per sempre quel… dannato incantatore!»

«Neanch’io ne ero certa. In realtà,» – precisò Arwyll notando il suo Grem rannicchiato sotto il letto – «se non fosse venuto lui a cercarmi e ad annusare lo specchio nero, toccandolo suo malgrado, questa storia avrebbe avuto tutt’altro epilogo.»

«Maledetti!» – urlò intanto Ythraxerus dallo specchio – «Credete di avermi catturato?»

 «A me parrebbe di sì.» – rispose la giovane ladra – «Che cosa c’è? Hai dimenticato di recitare l’incantesimo di protezione? Mi spiace, anche perché questa volta non avrai nemmeno il tempo per… riflettere!»

«Illusa! Ho recuperato molte delle mie energie. Morirai per questo e la tua spregevole anima patirà negl’inferi in interminabili tormenti!»

Il mago si affrettò quindi a recitare alcune incomprensibili formule. Lo specchio prese a vibrare tra le piccole mani che lo reggevano, ma Arwyll, tenendolo ben stretto dai bordi, si accostò velocemente alla finestra e lo scaraventò con forza al suolo.

Con un tonfo metallico, l’urto mandò in frantumi la scura lastra centrale che, tra miriadi di scintille iridescenti persi tra i bagliori dell’alba nascente, scomparve in minuscoli frammenti dissolti nel vento.

«Addio!» – proruppe la ragazza trionfante, fissando dall’alto della finestra quell’oggetto interamente d’oro che, ormai privo di ogni letale minaccia, attendeva solo di essere venduto al miglior offerente.