“La cosa migliore
è che quando morirò
rinascerò in paradiso (paradice)
e coloro che ho ucciso diventeranno miei schiavi.
Non vi dirò il mio nome
perché tentereste di fermarmi e di impedirmi
di collezionare schiavi per l’oltretomba”
(Zodiac, 1agosto 1969)
Sul Foglio di domenica 9 ottobre 2021 ritaglio un trafiletto di Matteo Marchesini su ciò ci resta impresso delle nostre antiche letture. È un argomento che mi interessa, in quanto mi rimane impresso poco o nulla. Marchesi conclude dicendo che, anche in quel poco che tratteniamo, rimane un nocciolo di ciò che siamo. Lo dico, perché, colpevolmente, avevo rimosso la lettura di un testo antico di Valerio Evangelisti sul killer dello Zodiaco americano. L’articolo era stato pubblicato in volume in una raccolta di saggi del 2000. È un pezzo davvero suggestivo, in quanto mi riporta a certe elucubrazioni sul thrilling, sulla figura del serial killer.
Evangelisti lamenta che questo tipo di letteratura abbia accantonato i risvolti psicologici e sociali, a favore di storie incentrate su effetti splatter. In certa letteratura thrilling, Evangelisti lamenta una raffigurazione del mostro semplicistica e reazionaria, lontana da qualunque forma di critica sociale. Si tratta di appunti molto importanti. Per sviscerare il suo ragionamento, l’autore utilizza il caso di cronaca del killer dello Zodiaco, un seriale apparso nei dintorni di San Francisco, nella Bay Area californiana. Sorvolando sul caso specifico dello Zodiaco, il ragionamento del saggio si avvita sull’etica puritana e capitalistica responsabile di aver nutrito il liquame tossico da cui fuoriescono i mass murderer. Zodiac è uno dei primi e compiuti seriali della contemporaneità, ma già sull’inizio degli anni ’70 si dissolve in una miriade di altri folli senza movente. Per Evangelisti, all’origine di tutto, vi è la famiglia, l’erosione di un tessuto sociale, culturale ed economico generato dall’iper-competitività di una società dominata da un capitalismo parossistico, selettivo e spietato che erode qualunque legame umano a vantaggio di spietati meccanismi selettivi. La famiglia, continua Evangelisti, risulta un luogo schizogeno in cui bambini mutilati di padre (o madri), crescono elaborando l’assenza di affettuosità in modi pericolosi e patogeni. Sulla società contemporanea (dagli anni ’60 ad oggi) aleggiano modelli arroganti ed aggressivi, tagli alla spesa pubblica, costrizioni a un lavoro sempre più flessibile e insicuro.
La figura del mostro “sociale” e seriale sembrava (almeno fino a quei primi anni Duemila) proliferare dalla cultura capitalista-protestante americana anche ai paesi latini, in una frequenza di delitti seriali che prefiguravano quel contagio del male di cui parla Robert Bloch nel seminale Night world del 1974. Così sembrava fino ai primi anni 2000. Un più recente (e seminale, nonostante il profilo reazionario degli autori) saggio di Lucarelli & Picozzi, Amok, le stragi dell’odio (Mondadori 2018), sembra dirci che le cose sono cambiate. La figura del seriale alla Zodiac sembra scomparsa, sfumata in una serie di anonimi individui capaci di compiere stragi o azioni delittuose singole, fomentate dall’impeto di una frustrazione o di una rabbia omicida che si riaggancia alle patologie neoliberiste di Evangelisti. L’odio e la paura (assieme alla nostra crescente frustrazione, alle umiliazioni, al senso di impotenza che viviamo nelle nostre vite) alimentano una catena di rabbia repressa che sempre più spesso trova sfogo in catartici bagni di sangue. Odiamo la scuola, il lavoro, le persone con cui lavoriamo, le persone con cui condividiamo i nostri affetti. Follia, terrore, odio, rabbia, insicurezza, angoscia, il tutto accresciuto da un mondo globale in cui ci sentiamo pedine di un gioco che non possiamo controllare. Certo i cambiamenti radicali avvenuti in questi ultimi vent’anni nel mondo del lavoro hanno aumentato mortificazioni e paure.
La letteratura in materia è vasta, da Bauman, Baudrillard, Codeluppi, fino a Renato Curcio. È proprio Curcio, in un libro seminale e lontano del 2002, a disegnare i contorni di un mondo lavorativo (l’analisi si concentrava sulle grandi catene di supermercati) totalizzante dedito all’educazione permanente di un ethos aziendale selettivo. Segniamoci alcune parole prima di andare avanti: “paura”, “incertezza”, “selettività”. L’ethos aziendale di quei primi anni 2000 aveva la precisa finalità di testare la resilienza passiva del lavoratore, la sua educazione silenziosa ad accettare lavori sempre più pesanti e impersonali, volti a una disponibilità totale, a una subordinazione e obbedienza costante. Il mondo della grande distribuzione analizzato da Curcio è un non-luogo spersonalizzato e infantile, un recinto psicologico fatto di mobbing, pressioni di gruppo e torsioni identitarie. Il lavoratore, in questi ultimi vent’anni, ha visto aumentare la propria sofferenza psicofisica, a fronte di un costante peggioramento delle condizioni occupazionali. Molti, per resistere, devono fare ricorso a psicofarmaci, oppioidi, alcolici [1]. Venti anni fa. Un altro mondo.
Per restare in Italia, il recente 55° rapporto del Censis fotografa un paese sempre più povero e irrazionale. L’Italia è un paese di vecchi che faticano a stare al passo con gli ecosistemi digitali. Ma è un paese impoverito dagli ultimi trent’anni di globalizzazione, abbagliato da un’irragionevole disponibilità a credere a follie complottiste alimentate dalla crisi pandemica. L’Italia di questo ultimo scorcio di 2021 appare come una terra lanciata verso la demenza, popolata da individui che credono di essere cavie di un sistema occulto, convinti che la Terra sia piatta e in mano a lobby di pedo-affaristi. Un pensiero magico e stregonesco infetta la realtà, confondendola, intorbidando l’odio e il rancore represso, indebolendo un sistema democratico già debole, imbevuto di pessimismo populista, rinfuse no vax e no pass, destre xenofobe, adolescenze perpetue degli adulti e narcisismo dilagante.
In tutto questo, dove sono finiti i vecchi “mostri” seriali, figli emarginati di una società spietata? Quando mi perdo in questi ragionamenti non trovo di meglio che sfogliare una rivista come Giallo, elegante variante da 1 euro dei vecchi beceri numeri di Cronaca Nera. Storie, delitti, misteri. Vecchi casi con cui ancora si cerca di riempire qualche servizio: l’eterno delitto di Perugia, il fine pena di Rudy Guede, la scomparsa di alcuni reperti anatomici di Serena Mollicone, la morte piena di interrogativi di Marco Pantani, la riapertura di un vecchio delitto a Chiavari. In mezzo solo trafiletti su femminicidi, versioni riaggiornate del Circeo (le accuse a Ciro Grillo e alcuni amici), anziani accoltellati, suicidi, pestaggi orribili, gente che scompare e di cui non se ne sa più niente; piccoli orrori di una cronaca bassa e costante, lontana dalle gesta di inenarrabile atrocità compiute dai mostri degli anni ’60, ’70, ’80.
L’agosto pagano americano del ’69 è lontanissimo, buono solo per narrazioni ben confezionate e modaiole di Netflix. Il 19 novembre del 1970, durante il dibattimento processuale, Charlie Manson ebbe modo di esternare una propria lucidissima dichiarazione sociologica.
“Questi bambini che vengono da voi con i coltelli sono i vostri bambini. Glielo avete insegnato voi, non io. Io ho solo provato ad aiutarli a stare in piedi. La maggior parte della gente che stava al ranch, quelli che voi chiamate “La Famiglia”, era solo gente che voi non volevate, gente che viveva nella strada, che era stata cacciata dai genitori e che non voleva andare nei centri di recupero; così ho fatto il meglio che ho potuto, li ho raccolti nel mio immondezzaio e gli ho detto che nell’amore non c’è niente di sbagliato (…) Non è responsabilità mia, è responsabilità vostra. È la responsabilità che voi avete nei confronti dei vostri bambini, e poi volete addossare le colpe ancora, ancora e ancora su di me (…)”
Questi bambini sono i vostri bambini, sono il prodotto di una società votata soltanto allo sfruttamento dell’essere umano e all’individualismo più parossistico (e questo era il succo del saggio di Evangelisti nel 2000).
Quindi, i mostri dove sono finiti? Quei mostri seriali sono svaniti, inghiottiti da una società finalmente guarita dai suoi mali? Oggi uno Zodiac, un mostro di Firenze, non andrebbero oltre a un singolo delitto, poi verrebbero beccati subito, traditi dai mille occhi elettronici, dalle telecamere in ogni angolo di strada, dal dominio del DNA. Il mondo contemporaneo è un mondo in cui ognuno di noi (come nelle peggiori distopie) lascia tracce indelebili di sé non appena si affaccia sul continente digitale. Il controllo quindi ha sopito gli istinti omicidi? Non proprio.
Tuttavia, in questo tempo di emergenze varie (prima la paura del terrorismo con l’attacco alle Torri Gemelle, poi la crisi finanziaria del 2008, adesso l’emergenza sanitaria) il timone è in parte nelle mani delle grandi potenze economico-finanziarie che reggono i nostri destini, in parte in mano al caos. Nelle nostre micro-quotidianità la rabbia e il risentimento prodotte dall’alienazione sembrano scaricarsi in modi violenti e incontrollati. Atti isolati, attimi di pura follia. Deflagrazioni mentali. Stragi, singoli omicidi, occasionali deragliamenti nel delirio. I feticismi di corpi, bamboline e pornoriviste dei vecchi seriali appartengono a tempi lontani, analogici come certi baretti di periferia coi tavolini in fòrmica. Il nemico non è fuori, ma dentro di noi. E come già aveva capito Valerio Evangelisti nel lontano 2000, alla psicologia sembra preferirsi la deriva della biologia.
Lo spiega bene Richard Lewontin in Biologia come ideologia (Bollati Boringhieri, 2015). La biologia sembra voler spiegare le disuguaglianze di status, ricchezza, salute, potere che ci separano; attraverso il sacro Graal del DNA, la nuova disciplina della sociobiologia ci conferma che la vita è una gara podistica in cui tutto è già scritto, prima della nostra nascita, nei geni, quindi in caratteri fissi e immutabili, tratti ereditari; quindi la malattia, le alterazioni sono causate da geni difettosi, piccoli dettagli molecolari un giorno facilmente correggibili? Ciò depotenzierebbe totalmente la responsabilità di una società nell’alimentare colpevolmente sacche di emarginazione e degrado, annullando l’accusa lucidissima di Charlie Manson. Non più scelte politiche, cattive politiche famigliari e sociali, non più sofferenze causate da un sistema economico ingiusto e degradante, ma una semplice alterazione in qualche proteina. La vita umana è come deve essere. Facile, no? La sociobiologia è all’avanguardia in questa ideologia naturalista, in cui la conservazione della società, la xenofobia, la paura del diverso, la superiorità dei maschi e il dominio sessuale sembrano far parte di una natura umana che trova la sua sintesi più estrema nella prevalenza dell’individuale sul collettivo. In questo nostro presente non c’è più spazio per i mostri di una volta, semplicemente perché ognuno di noi è divenuto un mostro, un individuo narcisista patologico, immerso in una società patologica che ci fornisce costanti stimoli di odio.
Una nuova classe rivoluzionaria di rancorosi è stata salutata da Adriano Sofri su un pezzo di qualche tempo fa del Foglio: “Non si è ragionato abbastanza sulla combinazione micidiale fra il trauma della pandemia e una società in cui prevale una destra avara, xenofoba e tendenzialmente razzista. Come nel Brasile di Bolsonaro, come negli Usa di Trump: l’incubazione dell’assalto golpista al Campidoglio, il trionfo della faccia trista dell’America, di cui a Roma si è avuta la miniatura ributtante alla sede della Cgil”. Oggi a tenere banco non sono i fantasmi di un isolato fascismo, bensì le ideologie trasversali di un complottismo animista e proiettivo, abitato da sciamani a Capitol Hill, gilet gialli all’assalto di un ministero, suprematisti a issare forche per gli immigrati, estremisti che sfasciano un sindacato. Il web è la cassa di risonanza di queste derive pandemiche, un deposito di benzina accresciuto da un risentimento generale e diffuso della nuova classe rivoluzionaria degli anti green pass. Perché mentre il mondo del lavoro subiva, in questi ultimi venti anni, delle torsioni e delle involuzioni pazzesche senza che nessuno (partiti, sindacati, cittadini) avesse nulla da ridire, oggi questa nuova aristocrazia del socialpatriottismo rivendica diritti senza avere mai avuto alcun dovere nei confronti della collettività.
Mentre scrivo ho sottomano un bel commento di Luca Ricolfi su la Repubblica dell’11 dicembre 2021: ci si riferisce all’indagine di ispettori del lavoro e carabinieri che hanno scoperchiato un mondo di caporalato e sfruttamento del lavoro. Ricolfi parla di “fenomenologia della sopraffazione, assenza di contratti, precarietà dell’impiego, bassissimi salari, condizioni di lavoro durissime o degradate, e qualche volta condizioni di vita paraschiavistiche”. Il tutto nell’impreparazione dei sindacati (ormai esclusivamente impegnati a proteggere gli interessi già molti garantiti di pensionati e pubblico impiego) e nella colpevolezza della politica, consapevole che grandi sacche di sommerso servono a mantenere a galla attività economiche altrimenti schiacciate dalla concorrenza internazionale; scrive ancora Ricolfi “la nostra società è anche basata sui “servigi” di una robusta infrastruttura paraschiavistica, che non è affatto in via di assorbimento, ed è strettamente necessaria per perpetuare il nostro modo di vita, consumistico e non di rado parassitario”. Si avvertono sempre più i contorni di un indebolimento globale delle democrazie a favore di sistemi autocratici come Cina, Turchia, Russia, Iran.
Per tornare (e concludere) al terreno rassicurante della narrativa, uno scrittore contemporaneo come Franck Thilliez, edito da noi da Fazi Editore, è un concentrato di come è cambiata la scrittura del thrilling. Mi limito all’editoria, evitando volutamente il cinema. Lo scrittore francese costruisce dei malloppi di 500 pagine che si leggono d’un fiato, ma che risultano inutilmente gonfiati. Thilliez ci ficca dentro di tutto, rischiando il ridicolo: nei suoi romanzi ritroviamo i luoghi comuni di questi ultimi vent’anni (i problemi di memoria, le amnesie, disturbi del sonno, mafiosi, momenti d’azione, figure multiple di serial killer che somigliano a dei grandi giocatori, super-criminali che si divertono a seminare infinità di indizi e false piste per il lettore). Thilliez costruisce edifici inutilmente complessi che, pur concedendo molto ad effettacci e omicidi truculenti, alla fin fine sono dei gialli dopati, bisognosi di un continuo gioco di ammiccamenti col lettore. Il thrilling (o almeno quello che per me è il thrilling) degli anni ’70, quello nato dalla rivoluzione del nostro italian giallo, o da certa editoria piratesca di allora, è lontanissimo. Penso alla collana dei KKK, alla collana de I libri della Donna di Cuori, ai romanzi allegati ai volumi delle Confessioni scabrose, alla serie della Realtà proibita della Sansoni, I gotici della Squalo, o ancora i volumetti porno sadici della Serie Nera della American International Press, fino ai turpi e blasfemi porno-volumetti di Sadik (del ’78). Collane, autori sotto pseudonimo scivolati nel nulla, dimenticati da tutti e che, già allora, senza saperlo, avevano contribuito a costruire un canone letterario dell’italian thrilling cinematografico (o del gotico, dell’erotico, dell’horror); un canone che, similmente a quello sul grande schermo, era una degenerazione blasfema del giallo, una sua versione deragliata e delirante, in cui all’indagine, al plot, alle sottotrame, al giochicchio col lettore per vedere se riesce a indovinare, si preferiva una struttura sgangherata e improvvisata, infarcita di sadismi gratuiti, violenze, sesso becero e dialoghi tirati via senza starci troppo a pensare. Si trattava di esagerazioni tossiche, scorie, d’accordo, purtuttavia di testi meccanici e deformi che riflettevano a modo loro gli elementi tanto diversi tra loro che componevano quegli anni, in particolare gli anni ’70, mescolanza indistinguibile di violenze e partecipazione popolare, terrorismo e riforme essenziali nel campo sanitario, psichiatrico, sociale, familiare.
Ancora oggi molti fantasmi degli anni ’70 attraversano la nostra vita pubblica, e il riemergere sulle bancarelle dell’usato di questi volumetti sgualciti somiglia al riemergere di certe verità parziali sulle forze occulte di quegli anni e sulle storture che hanno prodotto. Quella letteratura da edicola, riletta in questi periodi irrazionali, appare come un qualcosa di estraneo e all’apparenza lontanissimo; testi (quasi) dadaisti, surrealisti, liberi da qualunque forma di editing, scritti di fretta, in pochi giorni, poche ore. Un sottobosco di sensazioni forti che ha prodotto una letteratura “automatica”, involontariamente surreale e dadaista, che poteva permettersi libertà e cattiverie oggi impensabili e che vedeva, pur con approssimazioni tipiche di certa paraletteratura di massa, il mostro di turno con una faccia e un lavoro simile al nostro. Su quel continente di pagine perdute ci sarebbe da scrivere e indagare ancora molto.
Davide Rosso
[1] Su questo argomento notevole lo studio di Jonathan Crary, 24/7, Einaudi 2015: Crary analizza le infrastrutture globali del lavoro h24, eccesso imprenditoriale e iperbolico del neoliberismo che scardina i tessuti elementari di ritmo e scansioni periodiche dell’esistenza umana. Negli anni Zero le nostre vite hanno assistito a una drastica riduzione delle ore di sonno, i nostri corpi hanno assimilato quantità gigantesche di nuovi stimoli e informazioni, inseguendo i bisogni di una redditività illimitata. Il panopticon di questo nuovo paradigma ha minato le tradizionali distinzioni tra giorno e notte, tra luce e buio, tra riposo e veglia, favorendo l’insorgere di numerosi disturbi del sonno, attacchi allucinatori, inquietudini prolungate, stress, crolli psichici. Come ci spiega Hartmut Rosa (Accelerazione e alienazione, Einaudi 2015), chi vive in questa tarda modernità non può sfuggire a una accelerazione sociale che conduce a forme gravi di alienazione. L’accelerazione del tempo (la società capitalistica, l’etica protestante) è il cuore profondo della nostra epoca, la contrazione dello spazio tempo, il suo sciogliersi in monadi separate, segmenti che si contraggono tra loro, imprigionandoci in un presente sfarfallante e precario. Il Covid sembra aver aperto un vaso di Pandora, alimentando le eterne paure verso gli immigrati invasori, le mascherine imposte dalla dittatura sanitaria e altri pensieri complottisti.