FABIO CASSANO

Critico e ricercatore indipendente in materia di cinema, saggista, fotografo, videomaker e drammaturgo: Fabio Cassano è davvero tante cose e recentemente ha scritto un saggio dedicato a un attore cui i lettori della Zona Morta sono davvero affezionati… stiamo parlando di Robert Englund. Ma procediamo con ordine e COMINCIAMO CON UNA DOMANDA DI RITO. CHI È FABIO CASSANO?

Sono nato a Bari nel 1987, e dacché ho memoria sono sempre stato un appassionato fruitore di film. Ho studiato spettacolo e produzione multimediale presso l’Università di Bari, laureandomi con una tesi sul cinema sperimentale statunitense; ho proseguito questo percorso con un dottorato di ricerca sul rapporto tra cinema, teatro e nuovi media. Dovendo dare una definizione, mi definirei come un appassionato: amo un’idea orizzontale di arte, senza approcci reverenziali e con un occhio rivolto a tutta la produzione fuori dai canoni.

VUOI RACCONTARCI UN PO’ LE TUE ATTIVITA’ IN GENERALE E COME COLLIMANO FRA LORO?

Al momento mi divido su due fronti: anzitutto come critico, sia per pubblicazioni periodiche che per saggi; sull’altro versante c’è la mia attività sull’audiovisivo, come fotografo e poi nell’audiovisivo. Per me è cruciale essere attivo su entrambi i fronti: il modo in cui lavoro con l’immagine non può non essere influenzato dall’attività come critico, e al tempo stesso credo che un’attività critica completa non possa evitare di sporcarsi un po’ le mani con la tecnica. Mi diletto infine di scrittura non saggistica, sia in poesia e narrativa che come drammaturgo.

COME HAI COMINCIATO INVECE A OCCUPARTI DI CINEMA?

Ho iniziato a occuparmi attivamente di cinema negli anni dell’università, e tuttavia esso ha sempre costituito l’elemento portante del mio modo di vedere l’arte. Mi sono occupato presto di sperimentalismo, ma il vero amore è per i film di genere che hanno segnato la mia adolescenza, e un giorno spero di riuscire, come critico, a incrociare i diversi percorsi in un discorso unitario.

VUOI PARLARCI DELLE TUE PRODUZIONI PRECEDENTI, IN PARTICOLAR MODO DI QUELLE A CUI SEI PIU’ LEGATO?

Non è tanto semplice, dal momento che per me un po’ tutto ciò che faccio, dallo scrivere di cinema alle creazioni più personali, costituisce un discorso unico. Come saggista, amo un saggio che scrissi nel 2015 per Cinecritica, dedicato al cinema di Kenneth Anger: non solo per la passione che mi lega alla sua opera, ma specialmente perché lì ho compreso che anche nella scrittura saggistica deve esserci una ricerca del bello, che con il giusto approccio può completare l’oggettività della ricerca senza ostacolarla. Dal punto di vista strettamente artistico, ci sono parti del mio repertorio fotografico in cui sento di essere riuscito a comunicare un senso del mistico, del perturbante, del fantastico. Infine, come scrittore, sono affezionato a un mio dramma in un atto unico chiamato Partenogenesi, nel quale mi sono divertito a smontare certe storie un po’ perverse da teatro nordico, e per il quale ebbi anche dei riconoscimenti.

RECENTEMENTE HAI PUBBLICATO IL SAGGIO “ROBERT ENGLUND: METAMORFOSI DI UNA MASCHERA”. DI COSA SI TRATTA?

Il volume si propone di offrire una panoramica dell’arte attoriale di Englund, secondo una prospettiva onnicomprensiva che include, non esaurendovisi, il ruolo di Freddy Krueger che l’ha reso celebre. Lo scopo è offrire uno sguardo diverso sulla carriera dell’attore come maschera, non tanto dell’orrore quanto del perturbante. Per tale ragione il volume ha una prospettiva assolutamente trasversale, il cui filo conduttore è la qualità metamorfica di Englund come attore-autore, in grado di creare una regia interna, di influenzare la scrittura, di stabilire scontri e connessioni di significati che abbracciano un’intera tradizione cinematografica; in altre parole, Englund come artista totale, il quale ha costruito un percorso artistico coerente intorno al concetto della maschera, della metamorfosi, della sintesi tra mondi e visioni agli antipodi.

COME MAI LA SCELTA DI UN SAGGIO SU ROBERT ENGLUND?

Innanzitutto era doveroso un tributo a un attore che ha avuto tanta influenza sul moderno panorama horror. In secondo luogo, percepivo l’esistenza di un importante vuoto da colmare: di monografie su Freddy Krueger ce ne sono molte, ma non si era ancora giunti ad analizzare il metodo dell’attore, quel che solo Englund riesce a conferire ai suoi ruoli. Ricordiamo che non è stato semplicemente Freddy a rendere famoso Englund, ma soprattutto il contrario: senza l’esuberanza della sua pratica attoriale, Freddy avrebbe potuto facilmente diventare l’ennesimo boogeyman da riprodurre in serie; se così non è stato lo si deve senz’altro a Englund, nonché all’intuito del regista Wes Craven nell’affidargli la parte. Englund è diverso da molti interpreti del new horror, e per molti aspetti raccorda la sua generazione a quella vecchia (quella di Lon Chaney, Boris Karloff, Vincent Price); in lui la maschera non è strumentale, bensì è parte integrante del suo essere attore, con tutta la consapevolezza che ciò comporta.

QUAL È STATA LA PARTE PIÙ DIFFICILE NELLA RICERCA DEL MATERIALE?

Sul piano della trattatistica,  il problema era la scarsità di fonti sulla prassi interpretativa dell’attore: su Nightmare e dintorni si è scritto di tutto, ma quanto su altre sue pellicole? E quanto, nell’analisi di classici del cinema (penso a Un mercoledì da leoni di John Milius) incentrato specificamente su di lui? Si è dovuto lavorare di dettagli, cercando di non perdere il punto cruciale del discorso che si voleva condurre. L’altro grande ostacolo consisteva nella reperibilità dei film: Englund ha lavorato moltissimo e in ambiti produttivi eterogenei, sovente per film indipendenti che, come sai, lottano per imporsi sul mercato anche con grandi nomi in cartellone. Si prenda Buster and Billie, che fino a meno di un anno fa circolava solo in rozze copie VHS; o ancora a certe sue apparizioni recenti, da noi spesso relegate all’home video. Una volta costituito un corpus organico, comunque, la vera sfida era operare una selezione coerente, stabilire le tappe significative di un percorso artistico definito.

TI SEI AVVALSO DELLA COLLABORAZIONE DI MOLTI CRITICI NOTI NELL’AMBIENTE: CE NE VUOI PARLARE?

Ho avuto il piacere di collaborare con autori estremamente preparati, accomunati dal grande entusiasmo nei confronti del soggetto. Naturalmente ciascun autore ha portato la sua sensibilità, chi per il cinema della New Hollywood, chi per l’horror come discorso politico, chi invece per un cinema di incontri e riferimenti incrociati, del film come ipertesto; altri ancora hanno adottato un approccio più semiotico, o all’opposto hanno riversato nel lavoro tutta la loro passione per il b-movie. Un ritratto di Robert Englund, a mio avviso, non poteva che passare attraverso questa prospettiva un po’ cubista, fatta di diverse anime e animata da approcci differenti. Un riconoscimento speciale spetta a Fabio Zanello, il cui costante riscontro e l’entusiasmo nei confronti del progetto (a cui egli stesso collabora) sono stati fondamentali perché il volume si concretizzasse; e a Stephen David Brooks, che ha coronato il volume con la sua prefazione.

COME HAI SUDDIVISO I COMPITI FRA TE COME CURATORE E I VARI OSPITI?

Ho fondamentalmente fornito le linee-guida per la costruzione del progetto, sia a livello pratico che di visione generale, tematica. Quel che mi importava era che risaltassero, nell’analisi condotta dai singoli autori, alcuni elementi essenziali: il ruolo della maschera, del trasformismo, del metacinema, l’importanza del genere come eredità. Era essenziale che gli autori condividessero la trasversalità dell’approccio adottato, e che dessero un proprio punto di vista specificamente sull’interpretazione di Englund nelle diverse opere in esame. Era importante non sovrappormi alle singole visioni, cosicché spesso le mie indicazioni erano espresse in forma di scambio, di confronto tra punti di vista anche molto differenti. In seguito, mi sono ovviamente occupato dell’editing onde assicurare un lavoro per quanto possibile omogeneo. Infine, come autore in senso stretto, mi sono riservato di introdurre il discorso trattando i primi anni della carriera di Englund, nonché una delle sue interpretazioni che preferisco: quella ne Il Fantasma dell’Opera di Dwight H. Little.

PARLANDO DI LIBRI IN GENERALE, VISTO CHE ULTIMAMENTE CAPITA SEMPRE PIU’ SPESSO DI LEGGERE MOLTI AUTORI, SIA EMERGENTI SIA AFFERMATI, ANCHE IN FORMATO DIGITALE, SECONDO TE QUALE SARA’ IL FUTURO DELL’EDITORIA? VEDREMO PIAN PIANO SCOMPARIRE IL CARTACEO A FAVORE DEGLI E-BOOK O PENSI CHE QUESTE DUE REALTA’ POSSANO CONVIVERE ANCORA PER LUNGO TEMPO?

Avvalendomi della lettura digitale in più occasioni, sarei ipocrita nel distanziarmene; si tratta senz’altro di un modo diverso di fruire il testo, e sovente anche di strutturarlo. Certo, non essendo un nativo digitale, nutro un certo affetto per la materialità del cartaceo, anche sul piano sensoriale. Difficile stabilire quale tra i due supporti prevarrà, la questione è anzitutto culturale; il libro ha fatto parte della nostra mentalità per secoli, e non saranno pochi anni di evoluzione tecnologica a spazzarlo via. Dovendo immaginare uno scenario futuro, penso a quanto è successo in musica col vinile: da un lato la digitalizzazione sfrenata che distrugge la forma dell’opera chiusa, dall’altro il supporto fisico come oggetto d’artigianato o pseudo-tale.

IN QUESTI ANNI DI ATTIVITÀ HAI SPESSO AVUTO UNA PREDILEZIONE PER IL GENERE FANTASTICO. CHE SIGNIFICATO HA PER TE QUESTA TEMATICA?

Quello col fantastico è per me un rapporto affettivo: l’immaginario fantastico, sia esso horror, fantasy o fantascienza, ha costituito inevitabilmente la base per il mio modo di interpretare il mondo. Credo che, se tutto questo immaginario con cui sono cresciuto non è mai finito in soffitta, ciò si deve alla qualità trasformativa del fantastico: le storie dell’impossibile, dell’orrido, dell’ipotetico, sono il campo di battaglia su cui la nostra cultura si batte costantemente; ogni discorso sul nostro mondo passa inevitabilmente da lì, sia le illusioni che le paure dell’uomo contemporaneo. In un certo senso, l’immaginario fantastico non rispecchia il nostro mondo, ma lo modella senza che ne accorgiamo.

QUALI SONO I TUOI SCRITTORI PREFERITI?

Sono cresciuto coi classici di Poe, con certa fantascienza italiana, con gli albi di Diabolik e di Dylan Dog. Tra i nostrani, amo molto l’opera di autori come Lino Aldani e Tommaso Landolfi, veri sperimentatori nel campo della fantascienza e dell’orrido. Tra gli esteri, amo molto Borges, ma il mio preferito è probabilmente Jack London: specialmente quello distopico de La peste scarlatta, quello che nei racconti dei Mari del Sud regala immagini degne di un cannibal movie; non ultimi, i suoi racconti dell’assurdo, paradossali, crudeli. Naturalmente c’è anche Lovecraft: un creatore di mondi eccezionale, superiore a nomi ben più celebrati.

E PER QUANTO RIGUARDA I FILM CHE PIU’ TI PIACCIONO, CHE CI DICI?

In una mia personale classifica, il primo posto spetterebbe a Excalibur, capolavoro del grande John Boorman; ancora oggi la potenza di quel fantastico resta a mio avviso ineguagliata. C’è poi Tobe Hooper con Non aprite quella porta, che non ha solo tumulato il vecchio cinema dell’orrore, ma ha proprio imposto un nuovo modo di fare cinema. Altro film del cuore è Dog Star Man di Stan Brakhage, il film sperimentale definitivo. Tra i classici, uno dei miei horror preferiti è probabilmente Vampyr, forse il vero capolavoro di Dreyer. C’è poi il cinema di registi molto diversi: citerei Mario Bava, John Carpenter, David Cronenberg, i già citati Anger e Hooper; ma anche un genio come Guy Maddin, con le sue folli variazioni sul cinema muto. L’elenco non finirebbe più. A livello di puro godimento, in realtà, non faccio molte distinzioni tra un film di Tarkovskij o di Carmelo Bene, da un lato, e un vecchio film della Hammer dall’altro: la gioia del fare cinema, di giocare col sensorio, è per me la stessa anche tra produzioni tra loro lontanissime.

ULTIMA DOMANDA, POI TI LASCIAMO AL TUO LAVORO. QUALI PROGETTI HAI PER IL FUTURO E QUAL È IL TUO SOGNO (O I SOGNI) CHE HAI LASCIATO NEL CASSETTO?

Al momento ci sono molti progetti per un nuovo volume: le idee sono moltissime, tutte in diversi stadi di elaborazione. Posso senz’altro dire che, per il prossimo libro, intendo adottare lo stesso approccio trasversale, multidisciplinare che ho perseguito per questo volume. Ho poi diversi contributi in lavorazione per progetti altrui, tutti in qualche modo legati a un cinema profondamente radicato nei generi (dall’horror all‘action alla fantascienza). Altri miei progetti sono nell’audiovisivo, l’altra faccia del mio rapporto con l’immagine. Un promemoria personale è di non lasciare mai i sogni nel cassetto; meglio tenerli sulla scrivania, ben svegli.

TI ASPETTIAMO AL PROSSIMO PROGETTO ALLORA!

Davide Longoni