Premessa
Ispirato a uno dei personaggi storici di Cagliari, Guido Algranati, professore di chimica e fisica presso il liceo Dettori, che muore misteriosamente. La sua morte viene frettolosamente archiviata come suicidio, ma si racconta che fosse preda di una forte depressione e che fu spinto a tale gesto dagli alunni irriverenti.
EMPATIA
Gianmarco attendeva nervoso nella sala d’attesa della scuola di arte drammatica. Amava quell’edificio che, fino al 1848, era stato una scuola dei Padri Gesuiti e negli anni seguenti sede ufficiale del Liceo Classico Dettori. Ma il tempo era andato avanti e ora quelle mura, che tanto avevano visto della storia di Cagliari, erano diventate la culla della scuola d’arte drammatica. Non era certo un’arte che gli interessava. Lui, laureando in Beni Culturali, era più interessato all’edificio che alle persone al suo interno. La sua professoressa di archeologia, lo aveva incaricato di preservare alcuni reperti romani, che erano stati richiesti per l’elaborazione di un corto metraggio. Ora aspettava per definire, con il segretario, gli ultimi dettagli e vedere il locale che avrebbe ospitato i manufatti.
Finalmente da dietro la porta si sentì un fievole “Avanti!”
Nell’insicurezza di non aver sentito bene, Gianmarco bussò chiedendo “permesso”.
«Avanti, avanti!»
Il ragazzo aprì ed entrò nella stanza dall’alto soffitto.
«Buongiorno, tu devi essere il laureando mandato dalla dottoressa Demontis. Prego accomodati.»
Lui assentì e prese posto nella poltroncina di fronte alla scrivania dell’impiegato.
«So che sarai tu il custode dei cimeli, emozionato?»
Lo infastidivano le persone che senza conoscerlo gli davano confidenzialmente del “tu”, ma rispose educatamente.
«Più che emozionato, direi preoccupato. Vorrei vedere il locale che ospiterà i manufatti.»
«Non perdi tempo, vedo. Non preoccuparti, qui saranno al sicuro.»
Raggiunsero il penultimo piano.
«Ci crederesti? Quassù un tempo c’era il gabinetto di fisica del liceo Dettori.»
Ma dai?
Ma non lo disse ad alta voce.
«E sì. Questo era il famoso Liceo Classico Dettori.»
«Sì, lo sapevo e prima ancora una scuola di Padri Gesuiti, lo sapeva?»
L’impiegato lo guardò sorpreso e decise che sarebbe stato meglio evitare la parte del “Ccerone storico”.
Aprì una porta, piena di scatoloni riposti ordinatamente negli alti scaffali di legno. Gli indicò un ampia cattedra antica. Era chiaro che molti dei mobili di quell’edificio erano rimasti lì dopo che il liceo si era trasferito, per motivi di spazio.
«Ecco, i vostri preziosi artefatti, andranno messi qui.»
«La porta è provvista di chiave?»
«Di chiave? Credo di sì, possiamo controllare in segreteria, vieni scendiamo.»
Raggiunta la segreteria l’impiegato frugò in uno dei cassetti dello schedario.
«Eccole, ricordavo di averle viste qui. Ora bisogna controllare che una sia della porta della stanza che ti interessa. Ci pensi da solo? Ho un po’ di lavoro da fare. Quando hai finito vieni nel mio ufficio.» E su queste parole gli mise in mano un mazzo di una trentina di chiavi.
Il ragazzo ostentò un sorriso tirato, prese le chiavi e si avviò per le scale.
Mentre provava la quinta chiave, echeggiò nell’andito un beffardo insulto.
«Tornatene a casa, professore!» Seguito da delle risate.
Poi dalla porta accanto uscì un uomo impettito, rosso come un peperone, incrociò il suo sguardo ma non disse niente, non accennò neppure a un saluto. Trasse dalla tasca della strana giacca un porta sigari e con un fiammifero se ne accese uno. Diede qualche boccata e si dileguò.
«Al sicuro un par di palle!» esclamò Gianmarco, riprendendo i suoi tentativi.
Staranno lavorando a un opera sulla Belle Epoque, visto l’abbigliamento dell’uomo, sicuramente il maestro di una classe irriverente, pensò.
Finalmente trovò la sua chiave, la estrasse dal mazzo e se la mise in tasca.
Raggiunse il segretario nel suo ufficio e trovando la porta aperta entrò senza permesso.
«Ho trovato la chiave.» Non disse di averla lui, facendogli credere di averla lasciata nella porta.
«Quando arriveranno i manufatti?»
«Tra non molto. Senta, volevo sapere se in questo edificio è permesso fumare.»
«Nel modo più assoluto!»
«Strano, mentre provavo le chiavi un uomo si è acceso un sigaro.»
«Un sigaro? Ma scherziamo? Puoi descrivermi questa persona?» chiese vivamente indignato.
«Un uomo qualunque, indossava un costume della Belle Epoque, credo sia un maestro di recitazione. Ho sentito i suoi allievi prenderlo in giro. Tiene lezioni proprio nella stanza accanto a quella che mi ha mostrato.»
«Impossibile!» esclamò.
Gianmarco rimase interdetto.
«Le assicuro che è così.»
«Non metto in dubbio che tu abbia visto qualcuno fumare, ma ti assicuro che nessuno tiene lezioni in quel piano. È adibito a magazzino e la stanza accanto a quella che ti ho mostrato e stracolma di materiale per le scenografie. Comunque chiederò informazioni sul presunto fumatore, grazie.»
Il segretario riprese il suo lavoro e lui si apprestò a raggiungere l’ingresso, in attesa del furgone che avrebbe portato i cimeli alla scuola di arte drammatica.
Continuava a chiedersi chi fosse il folle che aveva richiesto pezzi originali piuttosto che oggetti di scena. Megalomane!
Uscito l’ultimo facchino dalla stanza, Gianmarco si apprestò a controllare ogni singolo pezzo per constatare che non avesse subito danni.
A un tratto un uomo urlava stizzito dall’andito.
«Somari! Non siete altro che somari! Non meritate di frequentare questo prestigioso istituto!»
Una porta sbatté con violenza.
Il ragazzo appoggiò con cura l’anfora finemente dipinta, tra i trucioli di polistirolo della scatola che la conteneva e aprì la porta affacciandosi sul corridoio.
L’uomo era li, nei suoi abiti del 1900, che fissava fuori da una delle finestre.
Gianmarco si accorse subito che stava piangendo, un pianto silenzioso per le umiliazioni subite dai suoi studenti impertinenti. Non ebbe coraggio di dirgli nulla, anche perché sembrava che non si fosse accorto di lui.
Lo vide asciugarsi il viso con un fazzoletto e dirigersi a passo lento verso le scale.
Prese coraggio e si accostò alla porta della stanza nella quale, presumibilmente, doveva svolgersi la lezione. Tese l’orecchio senza udire alcun rumore. Decise di impugnare l’alta maniglia e aprire la porta.
Rimase ammutolito e sbigottito, guardando all’interno della camera.
Ammassati un po’ ovunque, c’erano oggetti di scena. Tavolini, poltrone, persino un grande letto smontato e ancora armadi di ogni genere. Grosse e alte tavole dipinte per la scenografia, rappresentavano interni o facciate di palazzi e case o giardini, persino la porta non si poteva aprire del tutto, tanto era piena la stanza. Aveva ragione il segretario, lì non si teneva nessuna lezione. Ma, allora quell’uomo, contro chi inveiva?
Si trattava di un pazzo o forse provava una delle parti?
Richiuse la porta e ritornò nella sua stanza. Seduto alla scrivania, l’uomo triste scriveva qualcosa su una piccola agenda.
«Mi scusi, guardi che non può stare qui» lo avvertì gentilmente.
L’uomo triste non distolse lo sguardo dal suo operato, continuando la sua frenetica scrittura. Poi si alzò dalla sedia, lo vide guardare insistentemente verso la porta, come se udisse dei rumori che lo preoccupavano, giungere dall’andito. La cosa strana era che la porta era proprio dove si trovava il ragazzo, ma l’uomo pareva ci guardasse attraverso. Non lo vedeva! Gianmarco rimase immobile, col timore di essersi ritrovato difronte a un folle, non disse più nulla, attese solo che l’individuo lasciasse la stanza. Si ripromise di chiudersi a chiave per tutto il tempo che sarebbe stato li.
L’uomo triste, in tutta fretta richiuse l’agendina, poi lo vide sparire sotto la scrivania e lo sentì trafficare con il legno della pedana sottostante. Un click, poi un altro click e l’uomo si alzò e svelto raggiunse la porta e uscì. Gianmarco estrasse tempestivamente la chiave dalla tasca e si chiuse dentro, tirando un sospiro di sollievo.
Non sapeva cosa pensare di quella imbarazzante situazione, ma ora si sentiva al sicuro e ricominciò il suo lavoro, questa volta non si sarebbe fatto distrarre da niente e da nessuno. Aveva deciso di non lasciare i reperti esposti sulla scrivania, preferì riporli ognuno nella propria scatola protetti dagli imballaggi. Mentre osservava uno stupendo bracciale a foggia di serpente, il suo sguardo andò a finire sulla pedana sotto la scrivania. Cercò di concentrarsi nel suo lavoro, ma il pensiero di guardare e capire cosa l’uomo triste stava facendo li sotto, lo stava tarlando. Posò il gioiello e si chinò a osservare la pedana.
Era una normale e consumata pedana in legno, logorata dal calpestio e lo sfregamento delle scarpe, di chissà quante persone. Ma la sua ragione continuava a spingerlo per saperne di più, così iniziò a tastare le assi una ad una. Si accorse che l’ultima asse sembrava meno salda delle altre, provò a tirarla, ma rimase al suo posto. Ricordò i click meccanici che aveva sentito e decise per una secca pressione, ed ecco il rumore e l’asse si aprì come un insolito scrigno.
«Oh cazzo!» esclamò sollevandosi e guardando verso la porta.
Un nascondiglio segreto.
Quella stessa ragione che lo aveva convinto a saperne di più, gli suggeriva di rimettere le cose a posto e farsi gli affari suoi.
Si chinò e facendo pressione richiuse lo scomparto. Ritornò ai suoi reperti. Mentre lavorava, il suo pensiero era rimasto fisso al nascondiglio, mai come in quella occasione le pesava il libero arbitrio. Seguire il bene, lasciando tutto così, o seguire il male, capace di soddisfare quella sfrenata curiosità che, infida, si stava impossessando di lui?
I ragionamenti successivi furono prevedibili, l’uomo è debole, del resto, chi lo avrebbe saputo? La porta era chiusa a chiave, se fosse arrivato qualcuno avrebbe potuto tranquillamente riporre, qualunque cosa ci fosse, al suo posto e avrebbe fatto finta di niente. Mentre rimuginava sui suoi pensieri prese un blocco dalla sua borsa per annotare l’orario di arrivo dei reperti, il tipo di imballaggio e l’accurato controllo effettuato.
Non lo saprà mai nessuno….
Voglio sapere cosa contiene…
Ti scopriranno…
No, la porta è chiusa a chiave…
I pensieri si intensificavano senza lasciargli spazio per altro.
«Basta!» esclamò e si chinò per soddisfare la sua curiosità.
Ma fu costretto a fermarsi quando sentì qualcuno forzare la porta.
«Ragazzo sei li dentro?» Il segretario.
Maledizione!
«Sì arrivo.»
Gianmarco si precipitò ad aprire per farlo entrare e non destare sospetti, poi si diresse alla scrivania e si sedette posando i piedi sulla pedana, iniziando ad annotare sul blocco i suoi appunti.
«Spero siano arrivati sani e salvi.»
«Sì, tutto a posto, fortunatamente.»
«Io sto per andare via, ma la scuola resterà aperta fino alle 21, quindi ti invito a uscire prima di quell’ora se non vuoi restare chiuso qui dentro.»
«Sì, la ringrazio» rispose frettolosamente.
Avvertiva sotto i piedi come un grattare dalla pedana, il desiderio di aprire il nascondiglio stava iniziando a dargli addirittura sensazioni tattili. Era possibile?
«Ora avrei bisogno di stilare la mia relazione se non le spiace» lo informò e intanto la pedana grattava. Quasi poteva sentirne il rumore.
«Bene, a domani, allora.»
Gianmarco gli fu subito dietro pronto a chiudere la porta a chiave. Il segretario si fermò.
«Crede che sia necessario chiudere a chiave?»
«Meglio non correre rischi.»
Vai via! Pensò.
Finalmente rimase solo e ritornò velocemente al nascondiglio.
Click.
Infilò la mano per tastare, all’interno della pedana. Trovò subito l’agendina, tastò ancora e tirò fuori un elegante porta pillole in argento. Lo aprì, al suo interno c’era un residuo secco, forse una vecchia pastiglia squagliata, magari il porta pillole era lì da prima dell’agenda. Si mise seduto e restò sorpreso nel leggere la data dorata, sulla copertina in pelle consumata: 1916.
Le pagine erano macchiate d’inchiostro, erano state scritte con una penna stilografica, forse difettosa.
La stragrande parte dell’agenda era scarabocchiata da formule matematiche incomprensibili, alcune pagine erano tempestate da piccoli simboli a forma di croce, in alcune c’era disegnata una forca con un corpo penzolante. Frasi disperate come ad esempio: “Sono stanco di appartenere a questo mondo”; “Non mi lasciano in pace”; “Non sarei dovuto venire al mondo”; “I miei pensieri sono neri come una notte senza luna”; e ancora: “Guido sei un uomo inutile!!!”.
Mentre leggeva si accorse di avere gli occhi pieni di lacrime, si sentiva vuoto e stanco.
Ma che gli stava succedendo?
Chiuse l’agenda e la rimise al suo posto, insieme al porta pillole. Si sollevò, reggendosi al piano della scrivania. Una vertigine lo investì, trascinandolo in un vortice buio, poi svenne.
Quando rinvenne era buio pesto, per fortuna da sotto la porta filtrava la tenue luce che proveniva dall’andito. La fronte gli doleva, se la tastò. Sotto le dita poteva sentire il profondo taglio che si era fatto urtando il ripiano del mobile. Si sollevò piano e restò fermo fino a quando non sentì ben salde le gambe, poi raggiunse la porta e accese la luce della stanza.
Quando si girò fu attanagliato da una morsa al petto per lo spavento. L’uomo triste era lì, seduto nella sedia della cattedra e lo fissava con uno sguardo torvo.
Il suo aspetto era cambiato, la sua pelle era grigiastra e sfaldata. Le profonde occhiaie scure facevano risaltare il luccichio maligno nei suoi occhi. La stanza iniziò a impregnarsi di un forte odore di decomposizione che gli procurò un conato e vomitò sul pavimento.
La figura dell’uomo iniziò a vibrare, fino a sparire, per materializzarsi all’improvviso a non più di dieci centimetri dalla sua faccia.
Preso dall’orrore, Gianmarco indietreggiò e perse l’equilibrio. Lo spettro gli fu addosso. Sorrideva, mentre lo guardava follemente e si chinò su di lui. Dalle labbra violacee, tirate in un ghigno malefico, colò una densa bava, che lo colpì su una guancia.
L’uomo triste gli si avvicinò, fino a potergli sussurrare all’orecchio. L’odore era rivoltante. Immobilizzato dall’orrore ascoltò le sue parole.
«Profanatore di segreti, allevia il mio dolore.»
Gli sfiorò la fronte con una mano decomposta, poi si allontanò di colpo per essere ingoiato dalla parete, che pareva averlo risucchiato al suo interno.
Gianmarco, respirava a fatica. Una profonda e folle tristezza stava dilaniando la sua anima.
I pensieri che gli attraversavano la mente, non erano suoi, ma era come se lo fossero.
Si alzò guidato da un impulso irrefrenabile, il suo viso si bagnava di calde lacrime che si inglobavano al sangue che gli sgorgava dalla ferita.
Mai aveva provato tanta tristezza nel cuore, così profonda da procurargli dolore, un dolore che solo la morte avrebbe alleviato.
“Sono stanco di appartenere a questo mondo…”
Camminava come in trans, verso l’alta finestra che dava alla piccola piazzetta sottostante.
“Non mi lasciano in pace…”
E intanto apriva la finestra.
“Non sarei mai dovuto venire al mondo…”
Si arrampicava sul cornicione.
“Mai ho avuto pensieri più cupi nel cuore…”
Singhiozzava e piangeva.
“Gianmarco sei un uomo inutile…”
Mentre il suo corpo giaceva scomposto, sulle scalette dell’ingresso di arte drammatica, dalla finestra rimasta aperta echeggiava un beffardo insulto, accompagnato da risa sguaiate:
«Tornatene a casa, Professore!»