IL MONASTERO

Premessa

Questo racconto nasce dopo aver partecipato ad un tour nella parte più vecchia della mia città: Cagliari. Ci trovavamo sul bastione di Santa Caterina, davanti a una scuola elementare molto vecchia, che in un lontano passato ospitava un convento, realizzato nel 1638. L’edificio arrivava fino al ciglio del precipizio e fu teatro di una terribile tragedia. Il 27 dicembre del 1747 durante una violentissima tempesta, l’intera ala est si sgretolò precipitando nel sottostante terrapieno. Ma non fu questo ad accendere in me la scintilla per una nuova storia, ciò che mi colpì fu che durante la rimozione delle macerie furono ritrovati scheletri di neonati, probabilmente frutto di amori proibiti.

(Tratto da “Le porte dell’inconscio”, in vendita su Amazon)

IL MONASTERO

Nonostante fosse tardo mattino, sentivo una strana e insistente sonnolenza. Sapevo bene cosa significava. Avevo imparato ad amare il mio strano “dono”, capace di  trasportarmi oltre l’impossibile. Erano trascorsi ormai quindici giorni dalla prima volta che vidi con angoscia  sulla videocamera il mio corpo smaterializzarsi mentre dormivo. Oramai quell’angoscia era scomparsa per lasciare posto alla magia di ciò che mi stava succedendo. Avevo smesso di monitorare il mio sonno e, anche se in alcune occasioni le situazioni in cui mi ero ritrovata non fossero state delle migliori, ero curiosa di sapere cosa mi attendeva oltre la porta che avrei scelto di aprire questa volta. Sdraiata sul divano chiusi gli occhi e in una frazione di secondo la fessura luminescente sul tronco dell’albero, anticamera per altri mondi, mi si presentò davanti. Vidi le mie mani aprire delicatamente la fessura ed il mio corpo passarci attraverso. Finalmente mi ritrovai all’interno dell’albero cavo con le sue infinite porte per mondi paralleli, in tempi e luoghi passati o magici.

Quel posto mi faceva bene in tutti i sensi, al corpo e allo spirito. Mi sdraiai sul muschio morbido, guardando il tronco dell’albero cavo salire verso l’alto restringersi fino a divenire un punto nero lontano. Tutto intorno le porte ad attendere la mia decisione, quale avrei aperto? Un sussurrio di voci femminili suscitarono la mia curiosità. Il vocio proveniva da una porta antica, l’unica ad avere un battente ad anello. Allungai la mano e lo afferrai, rimasi in ascolto con l’orecchio appoggiato alla superficie ruvida, delle donne recitavano una nenia corale, ma non ne comprendevo le parole. Quel mondo mi chiamava e istintivamente bussai alla porta.

TOCK TOCK

Una suora aprì il portone, le mie narici si impregnarono dell’odore d’incenso. Mi guardò e poi guardò una giovinetta, che era comparsa magicamente, al mio fianco.

«Finalmente, entrate.»

Guardai alle mie spalle, ero sulla soglia della mia porta, ma il mio mondo era sparito ancor prima di varcarla, e la stradina di ciottoli al limite di un precipizio che vedevo, sul volgere di quel giorno, me lo confermava.

«Suor Anna, porti la ragazza in una delle celle, poi mi raggiunga nel refettorio» mi disse la suora. Voltò le spalle e si allontanò.

Guardai i miei abiti, dunque era questa la mia nuova identità, ero suor Anna…

Camminai piano, guardandomi intorno, non ero mai stata li, ma conoscevo comunque ogni angolo di quell’antico convento, i nostri passi sul pavimento di pietra levigata echeggiavano tutto intorno, seguendo lunghi corridoi che si ramificavano per l’edificio. La ragazzina mi si aggrappò ad un braccio, non doveva avere più di sedici anni, la sentivo tremare, e potevo anche avvertire sul fianco, il gonfiore duro della sua pancia, era incinta di almeno sette mesi. La condussi in silenzio verso l’angusta cella, la porta di legno cigolò appena. Le sbarre alla finestra la facevano sembrare una prigione e forse lo era davvero.

Poggiò il suo fagotto sul letto e si sedette, piangeva, le sorrisi.

«Stai tranquilla, riposati» le dissi.

Richiusi la porta e la lasciai sola, percorsi il corridoio in silenzio fino a giungere nel refettorio, dove altre sorelle si adoperavano nei preparativi per la nascita del bimbo. Non capivo.

Mi avvicinai alla suora che mi aveva aperto, sapevo il suo nome, Agata.

«Suor Agata, non mi pare in travaglio, perché tutta questa fretta?»

«Non è per lei, suor Maddalena…»

Suor Maddalena era entrata in convento otto mesi prima, costretta dal padre a prendere i voti in tutta fretta, per l’onta subita di una gravidanza indesiderata. Aveva passato il suo tempo in solitudine e in preghiera, noi tutte sapevamo che amava il suo bambino più di ogni altra cosa, ma sapevo che il destino del piccolo era segnato e mi si strinse un nodo in gola. Alcune volte i nascituri, venivano dati in adozione, ma altre, venivano soppressi come cuccioli scomodi.

«Andiamo, presto!» ordinò Agata prendendo una pignatta dalla cucina a legna, con due stracci.

Tutte la seguimmo, quattro suore tristi, tranne Agata.

Entrammo nella cella, le lenzuola erano madide di sangue.

«Ti prego Agata lasciamelo tenere» supplicava Maddalena, ma Agata non le rispose.

«Tenetela!» ordinò.

E così facemmo.

Le tenevo con fermezza la gamba destra aperta, mentre si contorceva per il dolore. Vidi Suor Agata perlustrare la sua dilatazione. Poi con un braccio e tutto il suo peso spinse sull’addome di Suor Maria Maddalena, verso il basso, per due volte, mentre lei urlava il suo dolore e la sua frustrazione.

Poi un flebile vagito, nessuna di noi prese la piccola creatura appena sbocciata alla vita. Agata spinse ancora, fino all’espulsione della placenta.

Ero terrorizzata. Perché nessuno, accudiva la bimba? Ma in cuor mio sapevo…

Agata avvolse la piccola e la placenta nel telo, senza, cura, senza delicatezza, quasi con cattiveria, che era stato messo sotto Maddalena.

«Aspetta, aspetta, ti prego, fammelo vedereee!» Piangeva e supplicava.

Ma Agata non la guardò neppure, prese una delle lampade a olio e usci dalla stanza, col frutto del peccato, stretto in un braccio.

«Noooooooooo…»

Dopo quell’ultimo urlo di disperazione tacque, era esausta e parve perdere i sensi. La pulimmo accuratamente. Nessuna di noi parlò, ma avevamo il viso bagnato di lacrime silenziose.

«Andate, resterò io con lei.»  Suor Paolina si sedette sul letto e prese a tamponare il viso della giovane puerpera con uno straccio che bagnava in un catino posato sul pavimento.

Ognuna di noi prese strade diverse, ero sconvolta, avevo voglia di urlare, volevo andare via. Raggiunsi il portone e lo aprii, nella speranza di rivedere il mio albero, ma mi ritrovai nella viuzza, illuminata solo dalla luna, ma ero sola e mi lasciai andare allo sconforto. Il brillio di una lampada attirò la mia attenzione, arrivava dalla pavimentazione, come se ci fosse stata una scala che conduceva, dall’esterno, sotto il monastero.

Una sagoma scura sbucò fuori, la vidi barcollare e poi appoggiarsi al muro, poi si lasciò cadere in ginocchio e sentii il suo pianto. Mi avvicinai cauta.

«Agata!» La riconobbi a stento sotto il pallore e il viso distorto dal dolore.

«Perché Anna? Perché Dio vorrebbe tutto questo dolore? Sono stanca di obbedire al vescovo! Stanca di strappare figli alle loro madri! Stanca di porre fine alla vita!». Si lasciò andare ad un pianto accorato, tra le mie braccia. Restammo così strette l’una all’altra inermi davanti all’ignoranza del tempo che ci circondava.

Passò circa una settimana, era il 27 dicembre del 1747, faceva più freddo del solito. Ogni volta che ne avevo l’occasione, controllavo il portone nella speranza che il passaggio per il mio mondo si aprisse per riportarmi a casa, e anche quella mattina provai ad aprirlo. Uscii sulla stradina, il cielo era basso e plumbeo, gonfio di pioggia, stava per scoppiare un brutto temporale, anche se qualcuno parlava di tempesta. Mi sporsi dal terrapieno che dava sulla città, parte del convento era costruito sul suo margine. Ammirai il porto all’orizzonte, poi mi voltai per tornare indietro, fu allora che notai una suora discendere le scale che portavano sotto il Monastero. Sapevo che c’era una fonte d’acqua naturale, nelle profondità di quel terreno roccioso, dove diverse caverne si snodavano sotto l’edificio, e il convento era stato edificato sopra un’antica chiesa. Non c’ero mai stata e volevo vederlo. Seguii la suora con circospezione, non volevo essere vista, non avevamo il permesso di uscire, se non per un incarico specifico. Il boato di un tuono mi fece sobbalzare e, se pur spaventata, continuai a scendere le strette scale scavate nella roccia. Imboccai un arco che dava ad un tunnel, potevo vedere il bagliore di una lampada tremolare nelle pareti calcaree, continuai a seguirla, ma ad un tratto avvertii un fievole canto, una dolce ninna nanna risuonava nel tunnel. Camminai lentamente, per non fare rumore fino a raggiungere una stanza ricavata nella roccia. Fu allora che la vidi. Maddalena, seduta in terra teneva tra le braccia il piccolo cadavere rigonfio della creatura che le era stata strappata. Ebbi un sussulto e lei mi vide.

Mi guardò dolcemente.

«È una bimba» mi disse sorridendo. E riprese a cullarla.

Le gambe quasi mi cedettero, era impazzita dal dolore. Mi guardai intorno e capii dove mi trovavo,  un piccolo e nascosto sepolcro per i “non voluti”.

Tornai indietro di corsa, mentre il canto continuava instancabile.

Quando tornai nel sepolcro con Suor Agata, restammo nascoste, in attesa che Maddalena lasciasse la sua bambina. Finalmente dopo un tempo infinito, la vedemmo adagiare il corpicino nel fosso, che ricoprì con la lastra di pietra, sulla quale appoggiò il suo rosario.

«Dormi bambina mia, la mamma torna, presto.»

Si alzò, prese la lampada e ritornò sui suoi passi.

«Vai, seguila e assicurati che non torni indietro. Devo seppellire la piccola, dove lei non la possa disturbare.»

Fuori diluviava, le raffiche di vento erano sempre più impetuose e i lampi si susseguivano, nel cielo scuro, quasi senza sosta, mentre i tuoni rimbombavano facendo tremare le pareti.

Senza dare nell’occhio io e alcune consorelle, sorvegliavamo Maddalena, fino a quando non vedemmo rientrare suor Agata. Era bagnata e sporca di terra, ma rifiutò il tessuto che suor Paolina le porgeva per asciugarsi. Ci superò e raggiunse Maddalena, inginocchiata dinnanzi all’altare della chiesa. La vedemmo inginocchiarsi accanto a lei, metterle una mano sulla spalla e sussurrarle qualcosa. Maddalena urlò, si alzò furiosa e raggiunse il portone correndo nella pioggia, presto un nuovo dolore avrebbe riaperto la profonda ferita non ancora rimarginata della sua perdita. Restammo immobili in attesa. Agata era rimasta in ginocchio a pregare per l’anima della piccola e forse anche per la sua. Quando Maddalena rientrò furente, si scagliò su di lei urlando la sua collera, brandendo un bastone.

«Dove hai messo… la mia… bambina!»

La bloccammo prima che il bastone colpisse Agata, che non si era mossa, come se fosse pronta a ricevere qualsiasi punizione la giovane madre avesse deciso per lei. La portammo di peso nella sua cella, mentre urlava e si divincolava come un’ossessa. La legammo al ferro della sponda del letto, mani e piedi e così la lasciammo, nelle mani di Suor Paolina che si inginocchiò a pregare.

La sentimmo urlare ed imprecare fino al tardo pomeriggio, fino a quando, stremata, non si addormentò pesantemente.

Intanto il temporale non si era placato, trasformandosi in un’impetuosa tempesta.

Era notte fonda, le consorelle e la giovane ospite si erano ritirate nelle loro celle, era stata una dura giornata, ma nonostante la stanchezza, decisi di controllare il portone, lo aprii, pronta a ripararmi dal vento e dalla pioggia che mi avrebbero travolto, ma invece mi accolse la quiete della camera delle porte, potevo tornare. Mentre varcavo la soglia vedevo i miei abiti cambiare. Un’esplosione nel cielo mi fece voltare, rimasi immobile davanti alla tragedia che si stava compiendo. Un fulmine colpì il monastero nell’ala est, proprio dove le mie consorelle dormivano. Quella parte dell’edificio crollò con un boato tremendo, scivolando nel precipizio del terrapieno. Ancora una volta la porta era tornata per salvarmi la vita. Forse Dio aveva risposto alle domande di Suor Agata, quell’orrore doveva finire.

Annamaria Ferrarese