Jo Nesbø, autore norvegese ormai entrato da tempo a far parte della consolidata schiera di giallisti del Nord ben noti in Italia (dalla coppia Sjöwall-Wahlöö a Mankell, da Larsson fino a Lackberg), ci consegna con il suo primo libro tradotto nella nostra lingua, Il pettirosso (2006), una storia di omicidi ed efferatezze cresciuti all’ombra del collaborazionismo norvegese della Seconda Guerra Mondiale.
Il nome di Vidkun Quisling fa spesso capolino dalle pagine di un testo che con ogni probabilità, per ragioni tanto di atmosfera che di involontaria celebrazione politica, non dispiacerebbe per nulla a certi musicisti del cosiddetto “folk apocalittico” come Douglas Pearce (“Death in June”) o Michael Moynihan (“Blood Axis”). Questo articolo, tuttavia, non si sofferma né sull’una né sull’altra, e non pone neppure la sua attenzione sulle qualità del giallista Nesbø, peraltro evidenziate in maniera tanto limpida quanto efficace soprattutto a partire da Lo spettro, ma piuttosto su di un minuscolo particolare che ci dà all’improvviso una forte emozione come di rado capita leggendo, mentre assai più spesso accade ascoltando musica: ecco, per render l’idea, si potrebbe dire che per un attimo Nesbø si è ricordato di essere anche un musicista e lo è stato sulla pagina, con tutte le suggestioni che la cosa comporta per il lettore, mutato d’improvviso, gli piaccia o non gli piaccia, in ascoltatore.
Ma andiamo con ordine e partiamo da un altro libro dell’autore: ne L’uomo di neve, il commissario Harry Hole, Beate Lønn (capo della scientifica) e il suo bambino sono in ospedale a trovare un loro collega psicologo; c’è un dialogo fra gli adulti e quindi: “Per qualche istante tutti rimasero assorti nei propri pensieri” (pag. 526). Poi il colloquio riprende.
Ne Il pettirosso invece Harry si trova in Austria e con un collega locale va in un istituto per anziani a interrogare una novantenne; la vecchia è in giardino e durante il dialogo accenna a una lettera della signora di cui era l’affezionatissima domestica. “Ha ancora quella lettera? chiese Harry. La donna si asciugò le lacrime e annuì. È nella mia camera. Lasciatemi restare ancora un po’ qui a ricordare, poi possiamo andare a prenderla. Oggi è la prima vera giornata calda dell’anno. Rimasero in silenzio ad ascoltare il brusio delle foglie degli alberi e il cinguettio degli uccelli, mentre il sole tramontava e tutti e tre pensavano ai loro amici e parenti morti” (pag. 416). Fine della parentesi lirica e il giallo torna a essere niente più (e niente meno) di un giallo.
Breve storia delle associazioni culturali immediate che questo passo suscitò in me: “Certe note hanno fatto risuonare nell’anima di chissà quanti sognatori o di chissà quanti innamorati le armonie del paradiso o la voce della donna amata. Uno spartito di cattive romanze, usato per aver troppo servito, deve commuovere come un cimitero o come un villaggio. Che importa se le case non hanno stile, se le tombe scompaiono sotto le iscrizioni e gli ornamenti di pessimo gusto. Da quella polvere può alzarsi, per un’immaginazione abbastanza rispettosa da lasciar tacere un momento i suoi disdegni estetici, la nuvola delle anime con ancora in bocca il verde sogno che faceva loro intuire l’altro mondo e godere o piangere di questo” (Proust, I piaceri e i giorni). Quindi ancora musica, con Aisha, cantata in francese da Cheb Khaled fino a quando può, salvo poi erompere nella propria lingua madre, perché “è nella sua natura”, nello stesso modo in cui lo scorpione punge la rana mentre lo sta trasportando sull’acqua, anche se sa che così facendo morirà. (Forse queste ultime due associazioni sono nate per il fatto che Nesbø a pagina 416 non potrebbe impedirsi neppure se lo volesse dal diventare qualcos’altro, e sia pure per un tempo brevissimo, rispetto all’ottimo scrittore di genere che ben conosciamo).
In termini analitici: il passo è tecnicamente riuscito proprio a causa della sua brevità, che ne fa anche un esempio di discrezione, e per la collocazione nella parte finale, e non all’inizio, di un grosso romanzo: le frasi memorabili, il lettore deve guadagnarsele dopo una lunga conoscenza, come accade fra amici; solo in questo modo le apprezzerà e forse le capirà davvero. Come reagiremmo, infatti, se un tizio ci aprisse il suo cuore appena pochi minuti dopo averci incontrato per la prima volta? (Per esempio, io reagii a Il dottor Živago smettendo semplicemente di leggerlo). D’altro canto, l’autore può permettersi il lirismo avendolo preparato con la presenza della novantenne desiderosa di fermarsi ancora un po’ in giardino “a ricordare”, o per essere più precisi, visto che si tratta della “prima vera giornata calda dell’anno”, bramosa di scaldarsi al calore del ricordo; anche la metafora suggerita come passaggio associativo (la fine della giornata = il termine della vita) anticipa con delicata logica il pensiero per i defunti; infine, la reiterazione della congiunzione “e”, che unisce tutta la parte finale della frase, i personaggi vivi e quelli morti, rafforza una volta di più il tono poetico di cui abbiamo parlato. (Non a caso, in apertura ho fatto precedere il brano analizzato da un altro che riguarda una situazione all’apparenza molto simile, nella quale però la mancanza di certi dettagli renderebbe forzata una situazione di lirismo).
Infine: il brano è un momento magico nel senso stretto del termine, almeno secondo Evola: “L’ascesi magica consiste in un denudarsi progressivamente e attivamente dagli elementi e dagli aggregati dell’Io storico”, o meglio, è un primo passo (vogliamo dire una parentesi nella vita quotidiana?) in questa direzione: se è vero infatti che Harry, il suo collega e la novantenne pensano ai propri amici e parenti morti, e quindi a qualcosa di decisamente storico, è anche vero che tale elemento è ormai ben oltre la conoscenza storica (si trova infatti nell’aldilà) e che, questione ancor più interessante, loro, i vivi, stabiliscono o tentano di stabilire, sia pure per un momento, un contatto con l’inconoscibile perdendo ogni caratterizzazione assunta nella società, o da quest’ultima imposta: non ci sono più testimone e poliziotti, non si gioca più a guardie e ladri. Non si gioca più.