Spree killer: secondo la definizione canonica, da Wikipedia a Pan Pantziarka, un assassino che ammazza almeno due persone in un lasso di tempo assai ristretto, “senza un periodo di riflessione”, e che spesso, una volta compiuta la sua missione di morte – “dopo aver corso l’amok”, come direbbero i papua della Nuova Guinea – nella maggior parte dei casi si suicida.
Mada/Adam Kabobo
Tutto il destino di Kabobo, si potrebbe forse riassumere in questi due nomi curiosamente anagrammati: Mada (in Africa) o Adam (in Europa). Il dottor Jekyll e mister Hyde. Se vogliamo dare retta a quel che ha raccontato dopo la strage, è nato in Ghana nel 1982 (data in un secondo tempo smentita) da genitori contadini. È il più piccolo di tre figli maschi. Vorrebbe fare l’insegnante come suo fratello maggiore, ma in realtà già a dieci anni smette di andare a scuola. L’altro suo fratello, Santu, è fuori di testa, tenta anche di uccidere la madre con un machete. Poi, uno dopo l’altro, tutti gli altri maschi della sua famiglia muoiono… come, non si sa. In Africa la storia è assai più fluida che in Europa.
Adam adolescente in una città più grande: fa il bracciante in un campo di pomodori ma non riceve compenso, solo vitto e alloggio. E sfruttamento, naturalmente.
Donne: prima, le classiche avventure di breve durata, dopo, a 20 anni, una compagna e una figlia. Il che non gli impedisce, o forse addirittura lo induce a lasciare il Ghana da solo e ad andare in Nigeria dove fa per tre anni il gelataio. Poi in Libia, il muratore. Ancora tre anni e Adam sale su un barcone diretto in Italia. Arriva a Lampedusa nel 2011. Da questo momento in avanti la sua biografia diventa più sicura.
Prima conosce il centro di accoglienza per richiedenti asilo di Bari e quindi partecipa a dei disordini fuori dal “cara”. Arrestato per danneggiamento, furto e resistenza viene rimesso in libertà un mese dopo. I carabinieri di Foggia lo fermano per una rapina e finisce di nuovo in galera a Lecce. Non ha amici e quando mangia sente odore di feci o di cadaveri. I medici gli diagnosticano “disturbi della sensopercezione” e gli prescrivono delle medicine, che servono a poco anche se aumentano le dosi: cerca di uccidersi, ma si procura soltanto un trauma cranico. In carcere distrugge due televisori. Ha paura di stare per impazzire, lo capisce da come s-ragiona, dalle sue distorsioni mentali. Sente voci e cattivi pensieri quando guarda la TV, per questo la distrugge. In un ospedale di Losanna viene sottoposto a un intervento chirurgico a una gamba. Poi la sua biografia, così come la ricostruisce “ilfattoquotidiano.it”, ripercorre almeno all’apparenza quella di tanti altri fuggiaschi: vagabondaggi senza fine, una richiesta d’asilo che non permette l’espulsione (d’altro canto non ha pendenze con la giustizia) e soprattutto miseria e accattonaggio. In più c’è la malattia mentale.
…E infine arriva l’ora del lupo. Per le vie di Niguarda, a Milano, Kabobo cammina verso le 4 dell’11 maggio 2013. Ormai le voci nella sua testa, quelle che gli suggeriscono cose cattive (come le chiamerà dopo) si sono fatte insistenti al punto da persuaderlo che la soluzione che offrono è quella più sensata e razionale. Gli ricordano soltanto – almeno questa è grossomodo la ricostruzione dei giudici sulla base della perizia psichiatrica – che nel suo luogo d’origine la gente ne uccide altra a picconate. Se questo è vero, forse l’esempio del fratello che tentò di assassinare la madre potrebbe aver orientato Kabobo a scaricare tutto il proprio risentimento nel gesto distruttore, nell’azione che ne faceva ancora il padrone e il signore del mondo (erano le voci a dirgli di esser tale) nonostante tutto, nonostante vivesse in condizioni miserabili. La soluzione, la svolta che preludeva al cambiamento era la violenza verso ogni essere vivente avesse incontrato. Nessun obiettivo preciso perché chiunque era l’obiettivo, il nemico. Un atto che prevedeva a suo modo una scelta, non un semplice, e sia pure sanguinoso all’estremo, gesto di follia.
Recupera chissà dove una spranga di ferro e incomincia a menarla a destra e a manca sui pochi passanti che incontra: fossero state le sette o le otto del mattino, certamente l’avrebbero fermato prima. Anche il desiderio omicida ha però una sua logica ferrea: vuole esplodere facendo più danni possibili, per questo è così accorto da scegliere un orario e delle armi che non facciano rumore. Il dipendente di un supermercato che sta rincasando, per fortuna, riesce a pararsi dai colpi riportando solo una frattura al braccio sinistro. Poi è la volta di un uomo a spasso con il suo cane, che mette in fuga Kabobo: questi ne aveva sottovalutato a torto la forza delle gambe e l’aggressività, e invece con un salto gli si getta fino alla testa. Un operaio viene aggredito alle spalle mentre passeggia, ma anch’egli riesce a cavarsela. Il ghanese getta via la spranga metallica per dotarsi di una nuova arma ben più pericolosa. Si tratta di un piccone, recuperato in un cantiere edile. Un residente del quartiere, resosi conto con tempestività del minaccioso individuo, rincasa di gran carriera: solo il portone lo separa dalla morte.
Ma alle 5.45 comincia la strage. “Mi si domanda perché ho preso il piccone e colpito con quello le vittime che Lei (riferendosi al giudice) mi ha indicato e rispondo: non lo so, io sento delle voci nella mia testa. Ho iniziato a sentirle quando ero in Libia, prima di venire in Italia, ma allora non capivo bene cosa mi dicevano. Sento le voci quando fumo l’hashish. Due giorni fa non ho fumato hashish prima dei fatti. Sento nella mia testa voci che mi dicono cose cattive. Mi si domanda se abbia ricordi chiari di quello che ho fatto due giorni fa e rispondo che mi ricordo di avere ucciso un uomo, anzi di averne colpiti diversi e quando mi hanno preso mi hanno detto che li avevo uccisi. Quando mi sono svegliato, sentivo “le cose” in testa, allora ho preso dapprima il palo di ferro e quindi il piccone. Sono state le voci a dirmi di prendere la sbarra e di usarla per colpire qualcuno” (“il Giornale.it”). Dopo le prime aggressioni fallite, Kabobo è infuriato e frustrato. Armato di piccone, s’imbatte in un pensionato: una botta alla testa, poi un’altra all’addome. Perirà dopo due giorni di agonia. Seduto nei tavolini esterni di un bar c’è un avventore che viene ucciso da una sola mazzata al capo. Un giovane sta consegnando i giornali col padre, quando viene raggiunto da una sequenza di colpi inferti in pochi secondi. Il genitore non può nulla per impedire la furia di Kabobo. Quando raggiunge suo figlio è già troppo tardi: due giorni dopo morirà. Particolare non secondario nell’azione dell’omicida: ruba soldi e cellulari alle proprie vittime, in una sorta di “ultimo atto di una lotta per la sopravvivenza di una persona che non ha le capacità di organizzarsi i bisogni primari” (“ilfattoquotidiano.it”): proprio questi furti ne denunciano una certa normalità di comportamento criminale in tanto delirio. Alle 6.40 arrivano ai carabinieri le prime richieste di intervento e poco dopo l’assassino viene intercettato e imprigionato mentre cerca di fuggire dopo essersi disfatto del piccone, altro aspetto di normalità d’azione criminale.
In effetti, Kabobo ha ucciso sulla scia di un delirio omicida, ma non è pazzo, condizione forse peggiore rispetto a chi viva un’esistenza completamente psicotica. Essendo stato riconosciuto capace di intendere e volere, subisce dunque un processo che lo condanna a vent’anni. I giudici gli riconoscono la seminfermità mentale. Oggi studia e lavora in galera. Sta ancora ricevendo cure psichiatriche, ma allo stesso tempo partecipa ai programmi di recupero organizzati dal penitenziario. Di qui lo svolgimento di alcune attività all’interno del carcere, come per esempio la consegna del vitto agli altri detenuti del 41 bis. “Lui rimarrà in cura tutta la vita. Bisogna continuare a tenere sotto controllo il suo stato psicotico”, afferma il suo avvocato. “Per quello che può sta continuando a lavorare, studiare e tenersi impegnato” (“il Giornale.it”). Il che è molto più di quanto accada nella norma agli spree killer, dei quali spesso non si conoscono minimamente i moventi perché terminano la loro esistenza al culmine del delirio stragista che un giorno li ha attraversati.
15 maggio 2015. Segnalazione via radio: sparatoria in atto in una traversa di via Miano, Secondigliano. Una pattuglia dell’anticrimine napoletana comandata da Enzo Esposito incrocia un’auto civetta che corre nel senso di marcia opposto: dall’interno ampi cenni concitati di seguirli. L’invito viene raccolto al volo anche se gli agenti in divisa non capiscono bene cosa stia accadendo. Soltanto in seguito si renderanno conto che in questo modo hanno evitato di essere presi sotto tiro da uno spree killer. Per fortuna Giulio Murolo, il cecchino, non si accorge di loro, nonostante si fermino a poca distanza da lui; probabilmente nel folle è anche terminata l’esplosione di adrenalina. Esposito vede gocciolare dal ballatoio il sangue di una vittima. Un dettaglio infernale che gli resterà orribilmente impresso nella memoria per sempre. Altri due corpi sono stesi a terra: si tratta di un cuoco che tornava dal lavoro e di un vigile urbano che ha fatto da scudo umano a una donna e alla figlia di lei, salvandole. Innocenza ed eroismo che non pagano in questo mondo. Un altro agente della municipale resterà in coma per due mesi prima di morire. Se qualcosa può andar male, lo farà, dice la prima legge di Murphy – e va bene, ma qui a straziare è il sottile sadismo che prolunga per mesi la speranza e la disperazione. Più fortunato in questa piccola apocalisse, un carabiniere perderà soltanto due dita per colpi d’arma da fuoco. Insomma, un disastro per qualsiasi schema provvidenzialistico, che in fondo il sindaco De Magistris tenterà di provare a tracciare ancora una volta, almeno parzialmente, con i doverosi e concreti riconoscimenti alla memoria delle vittime e alle loro famiglie (“www. ilgazzettinovesuviano.com”).
Quasi a irridere proprio una simile concezione della realtà che la interpreta come se avesse una misura antropomorfa, nella quale i giusti vengono premiati, i cattivi puniti e ciò che è importante è importante per il suo contenuto a lettere maiuscole (per esempio la Giustizia, la Verità, ecc.) e non per la sua funzione, c’è la causa occasionale che a quanto sembra portò l’omicida a divenire tale. Se i pessimi rapporti con le prime vittime di Murolo, il fratello e la cognata, erano forse legati a un’eredità, infatti, cosa c’è di più normale nel nostro universo di matti che a fare scoppiare l’ultima lite, come riferisce “il Giornalelocale.it”, sia il filo per i panni steso su di un ballatoio comune a Luigi e Giulio? Una simbolica linea divisoria o un oggetto da utilizzare insieme. Capite? Questa la causa occasionale di una simile carneficina! Proprio vero: “A capa è ‘na sfoglia ‘e cipolla” e ci basta pochissimo per impazzire.
Esposito e i suoi restano nascosti come gechi mimetizzati contro una parete, in attesa di ulteriori rinforzi: devono fare in modo che il peggio, per quanto orribile, sia già avvenuto e che il conteggio delle vittime non aumenti. Nient’altro che porre un limite al caos, questo il loro compito. Altri uomini delle forze dell’ordine arrivano mentre si va chiarendo la dinamica dell’accaduto, che si può così riassumere: verso le 15, Giulio Murolo apre il fuoco con un fucile da caccia (o a pompa) innanzitutto contro i propri congiunti e poi, mentre nella strada affollata è un fuggi fuggi generale, prende di mira i passanti e infine gli agenti. Dal balcone di casa, dove si trovano i cadaveri di Luigi e Concetta, uccide gli altri due uomini e fa diversi feriti, di cui uno – come ho già anticipato – esalerà l’ultimo respiro solo due mesi dopo. Ogni vittima esterna alla propria famiglia è casuale, fatto tutt’altro che anomalo in questo genere di stragi… Dopo, Murolo si barrica nel suo appartamento, dal quale uscirà per consegnarsi alla polizia solo alle 21.30 grazie a un abile negoziatore, che nel giro di 40 minuti lo convince a non suicidarsi (facendo saltare in aria l’abitazione!) e ad arrendersi. Si consegna a torso nudo, per dimostrare di non essere armato. In effetti, nell’appartamento di questo schivo infermiere del Cardarelli c’erano forse, almeno secondo alcune fonti, altri micidiali strumenti di morte: oltre quelli regolarmente denunciati (per i quali deteneva una licenza di tiro), i poliziotti troveranno due machete, un fucile mitragliatore AK 47 (sotto il letto) e un kalashnikov non denunciato con matricola abrasa. Fin da subito dirà: “Ho fatto una cazzata” o un più verosimile: “Che cazzo ho fatto!”.
Nei giorni seguenti si scuserà dell’accaduto tentando di giustificare il suo gesto estremo non meno che assurdo con l’esasperazione provata per le continue angherie subite nel corso del tempo. Aggiungerà anche che nei giorni precedenti alla strage, il fratello, mentre litigavano, lo aveva minacciato con un coltello (“napoli.fanpage.it”). Le scuse e le motivazioni addotte per la strage non basteranno comunque a placare la sua coscienza: il 15 marzo 2016 Murolo morirà suicida, dopo tre giorni di agonia. Un simile atto rappresenta anche un ulteriore, e definitivo, velo di silenzio steso su di lui, sul suo atteggiamento fin troppo normale quando lavorava al Cardarelli: mai neppure un reclamo nei confronti di un uomo incensurato e riservato fino a sfiorare – e col senno di poi anche a superare – la freddezza.
La pattuglia di Enzo Esposito sta passando per Castelvolturno, sulla Domiziana. Come accade di solito, gli agenti osservano ciò che li circonda con un’attenzione ormai abituale verso piccole stranezze, impercettibili al passante qualunque, sulle quali le loro chiacchere a proposito dei fatti minuti della quotidianità – i figli, le auto, il Napoli… – non riescono ad avere la meglio. Sono ormai fin troppo avvezzi alla dromoscopia che li accompagna durante i loro estenuanti turni in strada e li mette in grado di scambiarsi i punti di vista girando semplicemente il volto con un automatismo infallibile che possono avere solo dei video di sicurezza umani. Dall’esterno non appare niente di diverso da quel che normalmente si vedrebbe gettando lo sguardo dentro un’auto durante una scampagnata fra amici. D’un tratto, ecco mostrarsi lungo la strada, a una fermata d’autobus, qualcosa di anomalo. Qualcosa d’inconsueto che brilla colpito dai raggi del sole. Enzo dice all’autista di rallentare e di accostare subito. Fermano l’auto a distanza di sicurezza e scendono di corsa e in silenzio. L’istinto formatosi con l’addestramento quotidiano non li tradisce. Ora lo vedono bene: un uomo di colore sta minacciando delle donne in attesa alla fermata con una lama che va ben oltre i 20 centimetri. Forse vuole anche rapinarle, ma non pare sia quello il suo scopo primario, quanto piuttosto instillare la paura in quelle che potrebbero divenire le sue vittime. Un attimo e i poliziotti si materializzano alle sue spalle.
Una guardia lo sorprende puntandogli contro la pistola mentre il tipo minaccia a sua volta una donna: stallo alla messicana, l’agente gli dice di gettare l’arma e anche lui farà lo stesso… l’individuo cerca di metterla semplicemente via, ma l’altro gli intima di gettarla a terra, se no lui non lascerà il revolver… lo fa e allora il poliziotto dà a Enzo la pistola; questi mette la sicura e, con un automatismo di cui neppure si rende conto, se la infila nella cintola. La pattuglia invita convulsamente le donne ad andarsene, facendole allontanare il più velocemente possibile. Tutto sembrerebbe ormai finito, ma quando per l’assalitore giunge il momento di essere ammanettato, la sua reazione è un’esplosione di violenza.
Esposito è sorpreso da una tale forza inaspettata: in effetti, il suo avversario non è molto alto, sull’uno e settanta, e pare lucido solo a tratti, gli occhi spiritati, ma è come se fosse posseduto da qualcosa di potente. Dopo il primo attimo di smarrimento, tuttavia, il poliziotto riesce a fronteggiarlo, anche se nel farlo crede di avere un infarto per il forte dolore improvviso che sente al petto, proprio sul lato sinistro. Mantenendo tutta la propria freddezza, non gli spara perché sa che in quel momento il suo avversario è disarmato e per lui sarebbero grosse grane nell’inevitabile processo che seguirebbe al suo gesto, anche se solo lo ferisse (per eccesso di legittima difesa). Decuplicando i suoi sforzi, riesce comunque a sopraffarlo e ad ammanettarlo.
Dopo pensa al presunto infarto: in realtà, per fortuna il cuore non c’entra proprio, è solo una costola che gli si è spezzata a causa della pistola del collega che tiene ancora nella cintola. Da quel giorno a Enzo è rimasta una irrazionale paura del coltello, probabilmente perché durante la lotta si era reso conto che il suo antagonista non stava cercando di scappare, ma di prendere l’arma a terra per colpirlo. Di solito i delinquenti in casi del genere vogliono solo fuggire, ma se sono in preda a un raptus di follia le loro reazioni possono essere ben diverse. Nonostante abbia avuto la meglio contro quell’uomo, teme che adesso non riuscirebbe a districarsi nella medesima situazione. Era il 7 o il 15 luglio 2015, Enzo ricevette una promozione per merito speciale grazie a quella cattura nella quale nessuno si era fatto male; a volte, in questo nostro torvo mondo, persino i lieto fine esistono.