Premessa
Questo racconto parla di due figure molto note in Sardegna: una “leggendaria”, Mammarranca o Maria Farranca; l’altra è realmente esistita anche se la sua figura è sempre stata celata da un fitto mistero e pare che in alcuni paesi dell’entroterra sardo, ve ne siano ancora: si tratta dell’Accabbadora, cioè colei che pone fine alle sofferenze dei moribondi sopprimendoli, ma anche custode della medicina erboristica e della magia nascosta nei “brebus”, parole magiche.
VENDETTA
Le onde erano violente, battevano sul piccolo molo dei pescatori. Le imbarcazioni erano state tirate in secca per evitare di lasciarle in balia del mare in burrasca, poche sarebbero sopravvissute. Maria si strinse forte nello scialle, l’acqua gelida delle onde le saliva fino alle cosce. Combattendo contro la forte risacca, riuscì a tirare su la piccola barca, unico sostentamento per la sua famiglia. Ora che suo marito Giuseppe era costretto a letto per via di una maledetta polmonite, quale sarebbe stato il loro futuro?
Giuseppe stava troppo male per uscire come gli altri pescatori. Aveva continuato fino all’estremo, ma adesso la febbre era troppo alta e più di una volta lo aveva portato al delirio. Il suo respiro si era fatto corto e sibilante… il suo uomo stava morendo. Che ne sarebbe stato di lei e del suo bimbo ancora in fasce?
Entrò nel tepore della piccola casa, quattro mura e un caminetto, ma a loro bastava. Maria controllò il piccolo che dormiva beato, nella cesta sul pavimento. Si tolse la lunga e pesante veste e la mise ad asciugare davanti al camino e si avvolse i lombi con una logora coperta. L’affanno asfittico di Giuseppe stava peggiorando, prese delle pezze di tela grezza, un catino di terra cotta in cui versò dell’acqua, che aveva fatto bollire, e si avvicinò al capezzale di suo marito.
Lo girò su un fianco, il fetore delle piaghe era nauseabondo, e iniziò a pulirgli le ferite dal sangue purulento che gli macerava la carne. Dopo avergli messo delle nuove pezze pulite lo rigirò con cautela.
«Maria…»
«Dimmi amore mio.»
«Aiutami ad andare… sono stanco…»
«Non voglio sentire! Tu guarirai, lo so!» Ma mentiva.
«Maria, ti prego, so che sai farlo…». Un violento attacco di tosse lo interruppe, quando finalmente riuscì a calmarsi cadde in un sonno profondo, lasciando Maria sola con i suoi ricordi.
Erano molte le pratiche che nonna Elisa le aveva insegnato, sapeva riconoscere le erbe mediche che raccoglievano nelle campagne e a volte su impervi monti. Le magiche erbe raccolte nella notte di San Giovanni, come la camomilla, il timo e il verbasco. Le aveva insegnato ad aiutare le donne nel parto e a liberare le vie respiratorie dei piccoli nascituri, posando la sua bocca sul naso e sulla boccuccia del piccolo e aspirando ciò che non li faceva respirare. Aveva aiutato a dare la vita, ma anche a toglierla, quando non era più possibile aspettare una morte naturale e le pene della malattia diventavano angoscianti e irreversibili. Giuseppe sapeva che ne era capace, sapeva che lo aveva già fatto e sapeva che aveva portato con se ciò che serviva. Teneva l’eredità di nonna Elisa, in un piccolo baule intarsiato, dono di nozze, che aveva portato con sé dal suo piccolo paese quando, con suo marito, avevano deciso di trasferirsi nella città di Cagliari sperando in una vita migliore, quando Vittorio Emanuele II divenne re d’Italia.
Troppo poveri per permettersi un medico preparò la solita medicina, come le aveva insegnato sua nonna. Pestò per bene la camomilla, l’eucalipto e il timo nel mortaio di legno aggiungendo alla poltiglia qualche goccia di fil’e ferru, l’acqua vite che suo padre le aveva dato, l’estate appena trascorsa. Era stato duro il viaggio con il carro, ma scongiurò il marito ad accompagnarla al suo paese almeno per il parto e lui l’aveva accontentata.
«Giuseppe, la medicina» gli sussurrò piano.
L’uomo si sforzò di ingoiare il miscuglio, ma fu sopraffatto dall’ennesimo attacco di tosse convulsa e non ci riuscì. La sua pelle bruciava per la febbre, quanto ancora avrebbe dovuto soffrire?
Era da più di tre giorni che non riusciva più a nutrirlo e a dissetarlo, oramai il suo respiro era diventato un susseguirsi di corti rantoli, ma ancora non riusciva a morire. Si decise ad aprire il baule, tutto era come lo ricordava. Su mazzolu, un martello di olivastro, avvolto in uno straccio e il piccolo cuscino di lana con la fodera di iuta, gli attrezzi per la Femmina Accabbadora, colei destinata ad alleviare le pene della sofferenza, dando il sollievo della morte. Aveva deciso di liberare il suo amore, ma non poteva farlo col suo bimbo in casa. Dopo averlo allattato, si avvolse nel pesante scialle e uscì. Era tardo pomeriggio, gli uomini del villaggio sulla costa, erano ancora in mare, presto sarebbero rientrati. Raggiunse la casa della vicina, l’unica a disporre di un carro e di un asino. Bussò alla porta e rimase in attesa. Quando Efisia aprì, il profumo del pane appena cotto la pervase. Il vagito del piccolo che Maria teneva in braccio, allarmò la donna. Se era uscita di casa con il neonato, con il freddo gelido di novembre, doveva esserci un grave motivo.
«Vieni dentro, svelta!». Chiuse la porta.
«Ho bisogno di un favore Efisia, non ho nessun altro a cui chiedere. Devi tenermi il bambino per un po’, ti prego». Gli occhi le si riempirono di lacrime.
«Che cosa è successo, Giuseppe è…». Ma non ebbe il coraggio di continuare.
«Non farmi domande, non ora. Ti spiegherò, ma ora prendilo per favore».
Efisia non domandò, e prese il piccolo dalle braccia della madre.
Quando Maria rientrò fu investita dal tanfo dell’infezione. Sapeva che era giunto il momento, prese dal baule rimasto aperto il piccolo cuscino, si inginocchiò facendosi il segno della croce e chiuse gli occhi. Dalle labbra socchiuse si alzò una dolce nenia e come in trance raggiunse il suo sposo. Salì sul letto, si sedette sul suo petto col viso dell’uomo tra le ginocchia, posò il cuscino sul naso e sulle labbra violacee del suo amante e premette con forza intonando la dolce ninna nanna del suo addio.
“Sssssh, sssssh…
Chiudi i tuoi occhi,
lasciati andare.
Dal tuo angelo
fatti cullare.
Scivola lento,
via dall’inferno,
nel dolce sonno,
nel sonno eterno.
Sssssh, sssssh…
Lascia qui il male,
lascia il dolore,
non devi più contare le ore.
Che Dio ti accompagni
lungo il sentiero,
scivola piano
senza pensiero.
Sssssh, sssssh…”.
*
Era trascorsa già una settimana da quando Giuseppe aveva trovato la pace e ora era tempo di darsi da fare, le provviste erano agli sgoccioli, e nonostante Efisia le portasse pesce fresco tutte le mattine, aveva bisogno anche di altro: farina, fieno per la vacca, becchime per le galline e qualche scampolo di stoffa. Ormai aveva deciso di vendere la barca, lei non sapeva più che farsene, e piuttosto che lasciarla in balia del tempo avrebbe potuto guadagnarci qualche centesimo e se fortunata, magari una lira… I suoi pensieri furono interrotti dal bussare insistente di Efisia, che la chiamava da dietro la porta.
«Che c’è, che succede?».
«Devi venire con me! Ho parlato di te alla “signora”».
«Perché?».
«La sua bambina ha la febbre da qualche giorno e tu puoi aiutarla!».
«Perché non chiama il dottore, lei può permetterselo».
«Non si fida del dottore, avanti prepara un po’ delle tue erbe e andiamo».
«Non dovevi parlarle di me, doveva essere un segreto! Prima o poi qualcuno mi chiederà di più e dopo Giuseppe ho giurato che non lo avrei più fatto!».
«Avanti, smettila! Come pensi di campare? Ho già parlato per te, non preoccuparti. La “signora” sa che non accetti denaro, ma ricambierà con farina e legumi, non c’è da sputarci sopra!».
Legumi, da quanto non ne sentiva il sapore? La sua bocca si inondò di saliva al solo pensiero.
«Ma il piccolo?».
«Portalo con te, baderò io a lui».
«Dobbiamo andare lontano?».
«La strada del Sepolcro, ma non angustiarti, prenderemo il carro».
Maria non aveva scelta, doveva adeguarsi e fare tesoro degli insegnamenti ereditati da sua nonna. Mise ciò che le serviva in un vecchio sacco di farina e si avvolse, col piccolo stretto al petto, nel pesante scialle.
Efisia lavorava come domestica per Donna Francesca, moglie di un facoltoso notaio. Lo sfarzo dell’appartamento colpì Maria abituata alla sua povertà, di cui aveva imparato ad amare la semplicità. Nonostante il lusso, aleggiava nell’aria uno strano puzzo, proveniente dalle strade, un misto di odori tra i quali spiccava quello acido di escrementi. Efisia la guidò fino ad una porta finemente dipinta, bussò piano, e quando dall’interno arrivò l’ordine di entrare, ella aprì.
«È qui con me» annunciò.
«Falla entrare». La voce della donna era flebile e delicata.
Efisia prese dalle braccia di Maria il piccolo Stefano e con un cenno del capo la invitò ad entrare, poi chiuse la porta restando fuori dalla camera.
Maria salutò con un timido sorriso. Donna Francesca era molto bella, il suo pallido viso faceva risaltare i profondi occhi neri, dalle folte ciglia corvine.
«Vieni, aiuta la mia piccola Aurora. Efisia mi ha detto che ne sei capace, per favore».
La bimba giaceva tra pizzi e merletti, non doveva avere più di quattro anni. Le gote erano infuocate e il suo esile corpicino era scosso dai brividi. Maria posò il sacco e si avvicinò ad Aurora toccandole la fronte. La pelle bruciava.
«Fate portare dell’acqua fredda e delle pezze, subito!».
Donna Francesca ubbidì senza indugio, andando lei stessa a prendere ciò che le era stato chiesto. Intanto Maria aveva scoperto la bimba, levandole persino la camicina di lino.
«Ma che fai?» disse la madre vedendo la suo piccola nuda sul letto.
«Presto, dobbiamo abbassare la febbre!».
Maria immerse le pezze nell’acqua e ne mise una sulla fronte della bimba e invitò sua madre a posizionargliene altre nelle caviglie e sui polsi. La stoffa si scaldava immediatamente.
«Gliele cambi, devono sempre essere fredde!» ordinò Maria e la madre obbedì.
Prese dal sacco una piccola ampolla che conteneva un liquido giallastro e fece cadere alcune gocce sulle labbra di Aurora.
«Che cos’è?» chiese Donna Francesca che iniziava a dubitare delle facoltà di quella donna appena conosciuta.
«Elicriso, l’aiuterà».
Continuarono a cambiare le pezze e a somministrare l’elicriso alla bimba per diverse ore, finalmente il suo corpicino smise di tremare e quando iniziò una copiosa sudorazione visibile sulla giovane pelle di Aurora, Maria levò le pezze e la coprì fin sopra il mento, versando ancora qualche goccia di elisir sulle piccole labbra.
«Brava bambina…» le sussurrò.
Quando il peggio fu passato Maria chiese delle lenzuola pulite e una nuova camicina ad Efisia che, impaziente, attendeva fuori.
Finalmente la febbre era sparita.
«Mammina…» sussurrò la bimba, mentre apriva gli occhi.
«Sono qui amore, sono qui.» Francesca piangeva di gioia, mentre accarezzava il viso fresco di Aurora.
«Ora è meglio che vada, vi lascio l’elicriso, continui a darle qualche goccia ogni mezz’ora. Credo che la febbre non tornerà più».
Donna Francesca le si avvicinò e l’abbracciò.
«Grazie, ti sono debitrice».
Fu durante quell’abbraccio che Maria si accorse della prominenza dell’addome della donna, era in attesa. Gli abiti glielo avevano nascosto.
«Riguardatevi e riposate» le disse dolcemente, sfiorandole il ventre.
*
Il tempo passava, la voce sulla “guaritrice” era volata nella città di Cagliari e a molti altri Maria aveva dato il suo aiuto, ma il temuto giorno arrivò all’alba di un freddo mattino di gennaio.
La donna che le si presentò, aprendo la porta, aveva il viso stravolto e segnato dalla stanchezza. Maria sapeva perché era venuta, non aveva ancora proferito parola, ma lei sapeva. Da quando aveva ripreso le pratiche di guaritrice, strettamente legate ai “brebus”, la magia delle parole, qualcosa in lei era cambiata, sentiva e vedeva cose che gli altri ignoravano. I suoi sensi amplificati vedevano oltre il velo e oltre le facce della gente, e dietro il viso di quella donna vedeva la morte.
«No, non posso aiutarti!» esclamò senza neanche dare il tempo alla sconosciuta di parlare.
Ma la donna, scaltramente, frappose il piede tra la porta e lo stipite.
«Aspetta… stiamo morendo con lui e la follia della sopportazione inizia a fare breccia nei nostri animi. Non puoi abbandonarci!». La sconosciuta piangeva.
Quelle parole avevano riportato il ricordo di altre anime straziate dalla sofferenza dei propri cari, e stretta in una morsa di dolore condiviso, Maria la lasciò entrare.
L’uomo in questione era stato vittima di un’incidente durante la costruzione di un nuovo palazzo, una delle pesanti pietre usate per la decorazione delle mura esterne gli era caduto su una gamba maciullandogliela e ora la cancrena lo stava divorando, ma ancora non riusciva a morire. Straziato dalla sofferenza stava portando al delirio l’intera famiglia. Mentre la donna raccontava, nella mente di Maria si materializzavano nitide le immagini, avvertendo come propria la sofferenza dell’uomo e dei suoi cari che condividevano la stessa casa. Poteva vedere la casa e la stanza dove giaceva il moribondo, avvertiva il fetore degli escrementi e del pus che trasudava dalla gamba nera e gonfia.
«Gli avete dato modo di confidare i propri peccati. Alle volte è questo che li tiene ancora qui…».
«Si, lo ha fatto e in principio pareva fosse arrivato il momento, ma dopo alcune ore ha ripreso ad urlare e imprecare per il dolore. Sono trascorsi venti giorni da quando gli è stata data l’estrema unzione dopo la confessione e ancora l’anima non vuole lasciare il corpo putrido, la cancrena si è diffusa, il sangue è nero…».
«Verrò questa notte. Togliete qualunque immagine sacra dalla stanza e gli specchi, lasciate la porta aperta, nessuno dovrà essere presente. Ve lo ripeto: lasciate la casa fino a domattina».
«Non abbiamo specchi, ma come saprete dove andare?».
«Lo so».
*
Nella notte fredda, Maria si incamminava guardinga tra le strette viuzze, la città dormiva. In lontananza, probabilmente un ubriaco, imprecava contro Dio per la sua amara sorte. I passi sul selciato andavano al ritmo del suo cuore e si arrestarono insieme a lui quando riconobbe la porta che già aveva visto nella sua mente. Furtiva scivolò sulla soglia e raggiunse la camera del moribondo.
«Deus ci sia!» lo salutò, ma l’uomo non rispose.
La camera era avvolta dalle ombre che scaturivano dalla lampada ad olio sul comò. Prese “su mazzolu” dalla doppia fodera della veste e si inginocchiò facendosi il segno della croce. Ancora una volta dalle sue labbra si innalzò la dolce nenia, si avvicinò al morente, lo girò su un fianco e iniziò ad accarezzare la sua testa madida di sudore, cullandolo con le parole della sua ninna nanna.
“…che Dio ti accompagni
lungo il sentiero,
scivola piano senza pensiero.
Sssssh, sssssh”.
Sollevò il martello e sferrò un unico colpo secco alla base della nuca. La sofferenza era finita. Ricompose il corpo e si allontanò. Svelta come era arrivata, giunse sulla spiaggia, poco distante dalla sua casa, si inginocchiò col cuore gonfio di tristezza e pianse col viso rivolto alla luna.
Adesso la guaritrice sarebbe stata per tutti s’Accabbadora, colei che racchiude nel suo spirito l’inizio e la fine, la nascita e la morte.
*
Marzo arrivò con le sue giornate pazze, Maria sapeva che il travaglio per Donna Francesca era imminente. Ciò la preoccupava, era una donna fragile. Dopo la guarigione di Aurora, Francesca fu costretta al totale riposo per non perdere il bimbo che portava in grembo.
E il giorno arrivò.
Don Luca era emozionato, sperava in un figlio maschio che avrebbe ereditato il suo nome. Non vedeva di buon occhio Maria, che chiamava “sa coga”, la strega. Ma la moglie lo aveva supplicato di permettere a Maria di assisterla durante il parto e aveva ceduto alla sua richiesta.
Quando entrò nella stanza della partoriente, Maria si fermò di colpo, avvertì come un brivido su tutta la schiena. Fu investita da un presagio di morte così forte che quasi le mancò il respiro.
«Maria… Finalmente sei arrivata…» sussurrò in un filo di voce Donna Francesca.
Maria le si avvicinò, era debole, non sarebbe riuscita a partorire.
«Chiamate il medico, Donna Francesca, io non posso aiutarvi, siete troppo debole per partorire…» la pregò.
Leggeva la morte sul suo viso, ma forse il neonato poteva salvarsi.
«No Maria, non farmi questo…». La voce si spezzò per la forte contrazione.
Maria controllò la dilatazione, il piccolo stava nascendo.
«Efisia, vai da Don Luca, chiedigli di chiamare il medico e di fare presto!».
Fu mandato un servo col carro e intanto le contrazioni erano ormai a breve distanza l’una dall’altra.
Don Luca preoccupato irruppe nella stanza. Efisia cercò di trattenerlo, ma lui la fulminò con lo sguardo, spingendola via. Raggiunse la moglie e si sedette accanto prendendole la mano.
«Amore mio sii forte, fallo per me, fallo per Aurora…».
Ma Francesca perse i sensi, Maria dovette intervenire immediatamente. Pose l’avambraccio destro tra lo stomaco e l’addome maturo, e aiutandosi con l’altro braccio, spinse con tutte le forze verso il basso. Il corpicino inerme del neonato scivolò sul letto, nessun vagito, nessun suono.
Maria lo prese per i piedi e gli diede una leggera scrollata, poi aspirò con la propria bocca il liquido che ostruiva le vie respiratorie del piccolo, ma non servì. Sotto gli occhi atterriti di Luca ed Efisia, Maria riprese il piccolo dai piedi, lo sculacciò e lo scrollò ancora una volta e poi prese a massaggiargli la microscopica schiena con movimenti ritmati e veloci. Ma il neonato non rispose a nessuno di quei disperati stimoli, era morto.
«Maria!» esclamò Efisia vedendo il sangue fluire senza tregua, dalle gambe ancora aperte di Francesca.
Li aveva persi, li aveva persi entrambi.
Quando incrociò lo sguardo di Luca, capì che il dolore gli stava facendo perdere la ragione. Non fece in tempo a schivare la grande mano dell’uomo che, con uno schianto, le colpì la guancia, buttandola a terra.
«Esci da questa casa, strega» sibilò tra i denti.
E così fece, senza voltarsi indietro, con la testa che ancora le rintronava per il colpo subito e il viso bagnato di lacrime, raggiunse la casa di Efisia, dove aveva lasciato il suo bambino alla cure della primogenita della donna. Lo prese tra le braccia e uscì senza salutare, senza una parola. Quando fu a casa sua si lasciò andare allo sconforto, con Stefano stretto al petto che piangeva disperato, piangeva anche lei, mentre ringraziava Dio di poter udire il pianto del suo bambino.
Le dispiaceva terribilmente che Donna Francesca fosse morta, ma ciò che straziava il suo cuore era la morte del piccolo che non aveva avuto la possibilità di vedere la luce, di ricevere una carezza, di ricevere amore…
Dopo essersi calmata e aver calmato il piccolo, si addormentò profondamente. Non si accorse del pesticcio degli zoccoli dei cavalli sulla strada, non si accorse neppure quando la porta fu spalancata con una spallata, fu svegliata dalla mano che, afferratala per i capelli, l’aveva sbattuta sul pavimento.
«Sei stata tu ad ucciderli! E colpa tua se sono mortiiiii!».
Don Luca era impazzito. Maria rimase immobile sul pavimento, inchiodata dal terrore, fino a quando Stefano iniziò a piangere. Vide Luca avvicinarsi alla culla e tirarlo su con una mano. Lo raggiunse scagliandosi su di lui come una furia, graffiandogli il viso e riempiendolo di calci. Bastò un pugno in pieno viso a fermarla e perse i sensi, mentre guardava l’uomo ridere con gli occhi iniettati di sangue e il suo unico amore gridare di paura.
Quando riaprì gli occhi era sulla sponda del canale dove gli uomini ormeggiavano le barche. Il sole pallido stava per tramontare, si aggrappò ad uno scampolo di lucidità, pensando al suo bambino, ma l’unica figura che mise a fuoco fu quella dell’uomo chino sull’acqua in cui era immerso fino alle ginocchia, e teneva sotto qualcosa. In un baleno fu il terrore.
«Nooooo, Stefanoooo!». Ancora una volta le si scagliò addosso furiosa, stava annegando il suo bambino. L’uomo riuscì a fermarla, lasciò andare il corpicino ormai privo di vita e l’afferrò per i capelli affondandole la testa nell’acqua.
Mentre l’acqua salata le graffiava le narici e tentava di insinuarsi in gola, Maria arrancò nell’acqua e nella sabbia fino a quando non riuscì ad afferrare il piccolo corpo che si stava allontanando. L’uomo la tirò su.
«Un bambino, per un bambino, una madre, per una madre. Meriti tutto questo!» gli urlò in faccia. «Guardami strega!». Le scostò i capelli bagnati, appiccicati al viso, e lei aprì gli occhi.
Luca si bloccò terrorizzato. Non vi era più iride, ne sclera in quelle orbite, era come se guardasse due sfere completamente nere, la pelle di Maria iniziava ad assottigliarsi diventando quasi trasparente, e le unghie delle mani che stringevano il piccolo cadavere, si allungavano sotto il suo sguardo, in ricurvi artigli.
«Ti maledico uomo! Tornerò, e la mia vendetta non avrà mai fine! Un bambino, per un bambino» sibilò tra i denti Maria.
Luca affondò l’essere trasformato, nell’acqua, fino a quando non sentì il corpo cedere sotto la sua mano. Lasciò il cadavere di quell’abominio in balia del mare e scappò via inorridito.
*
Un innocente sacrificato per la rabbia e l’ignoranza. Una madre colpevolizzata per un crudele destino.
Il dolore per la perdita del suo piccolo la rese eterna e l’odio, così profondo, la trasformò in un demonio assetato di vendetta. Avrebbe atteso nelle profondità di ogni corso d’acqua, pronta a strappare, a ogni padre e a ogni madre, il dono più prezioso com’era stato fatto a lei, e la sua vendetta non avrebbe avuto fine.
“Torbida è l’acqua
che profonda ti cela,
terribile vendetta
che al mondo si svela.
Ghermisci l’innocente
e tiralo giù,
per il tuo bimbo
che non c’è più”.