Il primo autore dell’antichità a riferire di questa spaventosa e quanto mai strana creatura è il geografo greco Ctesia di Cnico che nella sua Storia d’Italia, documento perduto e solo parzialmente conosciuto, riporta questa inquietante descrizione: «(…) esiste una belva il cui muso ha le fattezze di un volto umano. Ha la taglia di un leone e la pelle color rosso cinabro; ha tre file di denti, orecchi umani ed occhi cerulei simili a quelli degli uomini. La sua coda è fornita di un pungiglione come quello dello scorpione di terra, e misura più di un cubito; lungo la coda – lateralmente e da entrambe le parti – vi sono altri pungiglioni, oltre a quello che – come nello scorpione – si trova sulla punta di essa. È con questo pungiglione che la “manticora” ferisce chi le si avvicina, e la ferita provoca una morte sicura. Se invece qualcuno la affronta tenendosi a distanza, essa cerca di colpirlo sia di fronte – sollevando la coda e saettando con essa, quasi fosse un arco, i pungiglioni – sia alle spalle, agitando la coda dritta e tesa di fronte a sé. Essa riesce a lanciare fino a un pletro di distanza e chi viene colpito – tranne gli elefanti – va incontro a morte certa. I pungiglioni hanno la lunghezza di un piede e lo spessore di un giunco sottilissimo. In greco il termine “manticora” equivale ad “antropofago”, perché nella maggior parte dei casi essa divora gli uomini che uccide; si ciba comunque anche degli altri esseri viventi. Combatte pure con gli artigli, non solo con i pungiglioni (…)».
Ad avvalorare la tesi etimologica fatta da Ctesia interverrebbe il fatto che la parola con la quale si designa questa creatura pare risulti dalla fusione del termine persiano martiya (uomo) e dall’avestico khwar (mangiare), dando quindi origine all’espressione “mangiatrice di uomini”.
Aristotele, incuriosito quanto Ctesia, che cita come fonte, decide di inserirla all’interno della sua Storia degli animali conservando, però, a differenza del suo predecessore, un atteggiamento di carattere più scientifico, quindi sostanzialmente scettico. Non a caso scrive così: «V’è una creatura, se si deve credere a Ctesia che egli asserisce abbia una triplice fila di denti. Ma nessuno degli animali appartenenti a questi generi (quadrupedi, sanguigni e vivipari) ha una duplice, né tanto meno triplice fila».
Plinio, dal canto suo, approfitta delle leggende giunte fino a lui per trattare di questo essere che nella sua Naturalis Historia (VIII, 75) diventa finanche più terrificante. La descrizione di Plinio è di un essere orripilante dal corpo ricoperto di scaglie e sangue con la forma di una tigre, ma il volto di un uomo, desiderosa soltanto di cibarsi di carne umana.
Di qui in poi è difficile tenere il conto di quanti altri autori greci e latini citarono questo ibrido nelle loro raccolte più o meno scientifiche. Da Solino a Pomponio Mela fino a Fulcherio di Chartres (1059-1127), che racconta della manticora nelle sue Historiae Hierosolymitanae, una sorta di cronache sulle crociate riguardanti per lo più gli itinerari turistici dedicati ai luoghi santi.
Arrivati così intorno al 1200, la manticora,allo stesso modo di altri esseri fantastici proveniente dal lontano Oriente (si rammentino i draghi e gli unicorni), finisce per rientrare definitivamente in un disegno zoologico già ben tratteggiato, al punto che ometterla dai testi del tardo Medioevo oppure inserirla allo scopo di dubitare della sua esistenza, diventa praticamente impossibile. Ne sono una prova i riferimenti a questo ibrido da parte di Onorio Augustodunense, Tommaso di Cantimpré, Gervasio di Tilbery.
In questi ultimi casi, però, con l’avvento dei bestiari moralizzati, tipici del medioevo, la manticora diventa anche metafora dell’invidia e della malizia, fino ad assumere il ruolo del Diavolo stesso.