Premessa
Ho sempre amato scrivere del “soprannaturale”, quel mondo in cui, apparentemente, nessuno crede, ma che nel profondo tutti temono. La mia terra è ricca di leggende e usanze ormai quasi dimenticate e mi piace farle rivivere attraverso i miei racconti. In questa nuova storia ho voluto narrare di due credenze della Sardegna che prendono vita nel periodo di Ognissanti, Sa Reula e Is Animeddas, legando il tutto a un antico anatema che riguarda il paese più piccolo dell’entroterra sardo, Lollove, che conta ad oggi quindici abitanti. Il piccolo paese medioevale è un luogo di pace e serenità, non possiede negozi o bar, non ha una stazione di forze dell’ordine, ha una chiesa, ma non un prete. Lollove è una “perla” destinata a non crescere mai e a non morire mai. La leggenda dà colpa di questo a un’antica maledizione, lanciata da una suora che risiedeva nel monastero del paese, quando lei e le consorelle abbandonarono il luogo per la vergogna subita per colpa delle debolezze carnali di alcune di loro. La maledizione diceva così: “Lollove as a esser chei s’abba e su mare, no as a crescher nen parescher mai!”.
IL PAESE MALEDETTO
«Buon giorno, capo!». Viviana fece il suo ingresso nell’ufficio con il solito smagliante sorriso, sul viso.
«Buon giorno, dimmi che hai qualcosa di davvero interessante per la rubrica di novembre. Non voglio uscire con le solite leggende trite e ritrite che accompagnano questo periodo, ti prego».
La preoccupazione del caporedattore era fondata, il successo per una buona rubrica multimediale aveva bisogno di aria fresca ad ogni uscita, e non ristagnare nei soliti articoli. Ma si sa, le leggende sono quelle e non si possono cambiare per profitto, si rischiava di perdere di credibilità.
«Sento delle buone vibrazioni, dai un’occhiata a questa», gli disse, posando una busta da lettere sulla scrivania, «ieri sera era nella mia cassetta della posta».
«Ma non è affrancata…».
«È per questo che ho delle buone vibrazioni».
Angelo sfilò la lettera dalla busta e lesse a voce alta:
«“Lollove, sarai come l’acqua del mare, non crescerai e non morirai mai”. Ricordo questo anatema, abbiamo scritto qualcosa a proposito dei piccoli paesi della Sardegna, Lollove è uno di questi, giusto?».
«Esatto, si trova vicino a Nuoro. Devo dirtelo, questa cosa mi stuzzica. Nessuna firma, hai visto? Solo queste quattro iniziali in cima alla pagina. Non so di chi sia questo messaggio, ma credo proprio che andrò a Lollove, e chissà che per la festa di Ognissanti non organizzino qualcosa» propose con fare ammiccante.
«Un villaggio di quattro anime in mezzo al nulla? Non credo, ma tentar non nuoce».
«Credo che andrò un giorno prima, mi organizzo col camper, così avrò più tempo per intervistare i locali».
«Buon lavoro, conto su di te!».
La mattina del 30 ottobre Viviana si preparava ad affrontare il viaggio che l’attendeva da Cagliari a Nuoro. Arrivare prima della festa di Ognissanti, le avrebbe dato modo di entrare in confidenza con gli abitanti e ciò le sarebbe servito per poter carpire le storie più antiche e le usanze perdute di quel microscopico paese. Con infinita cura si dedicò all’attrezzatura, come sempre, pulendo minuziosamente le lenti e il sensore delle sue Sony. Portava con sé sempre due macchine già pronte, una montava un 35mm e l’altra uno zoom, questo per evitare di smontare gli obiettivi, durante il suo lavoro, affinché non entrasse polvere nel sensore. Controllò le batterie e la valigetta del microfono e si assicurò di avere tutti i cavi. Assicurò lo zaino dove già teneva il cavalletto e lo stabilizzatore per la telecamera e finalmente avviò il motore.
Dopo il bivio per Orune, finalmente incontrò quello per il piccolo paesino. La strada era dissestata e molto stretta, ma più saliva, abbarbicandosi su quelle incantevoli colline, e più si rilassava. Il cielo di fine ottobre era grigio di nubi e una leggera bruma saliva dalla vegetazione, un basso muretto in pietra la avvisava che presto avrebbe incontrato l’abitato.
Il paesino era deserto e la leggera foschia che lo avvolgeva lo rendeva surreale. Le stradine di acciottolato si snodavano strette, tra le casette medioevali. I muri di pietra e i tetti spioventi ricamavano la collina.
Preferì parcheggiare il camper, lì all’ingresso del paese. Entrare con quell’ingombrante mezzo, le dava l’impressione che in qualche modo potesse profanare l’antico borgo. Scese sulla strada di acciottolato, prestando cura di non sbattere lo sportello per evitare di rompere quella pace benefica. Si avviò verso l’interno, per raggiungere la chiesetta di Santa Maria Maddalena, scattando fotografie di vecchi ruderi disabitati, sfalci di vite perdute in un lontano passato, dove la natura aveva prevalso con la sua forza vitale, riprendendo prepotentemente il suo posto. Il profumo dei pochi caminetti accesi si mescolava col profumo della natura. Sorrise, quando si accorse che in una porcilaia una scrofa nutriva i suoi piccoli, immortalandola in uno scatto tenerissimo. I passi sul selciato sembravano ovattati in quell’irrompente silenzio. Se non fosse stato per il fumo che usciva dai comignoli a darle conferma che ci vivessero delle persone, sarebbe potuto sembrare un paese fantasma. Poi finalmente si accorse di una donna che la guardava dalla bassa finestra, ornata da una tenda di pizzo. Sorrise e chinò leggermente il capo in segno di saluto. La donna ricambiò e sparì dietro la tenda, per poi ricomparire sull’uscio di casa.
«Buon giorno, signorina. Cerca qualcuno?».
«Buongiorno, a dire il vero sì, ma nessuno in particolare».
Si avvicinò tendendo la mano: «Mi chiamo Viviana Mura e scrivo per una rubrica chiamata “Usanze Perdute”».
«Piacere mio, mi chiamo Lucia Sanna. Vuole sapere delle usanze del nostro paese immagino».
«Esatto, può aiutarmi?».
«Con piacere, si accomodi. Sicuramente mia madre avrà molte più risposte alle sue domande, di me».
L’ambiente che l’accolse fu la cucina, dove un focolare crepitava vivace sotto un paiolo appeso dentro il caminetto. Tutto intorno, i mobili in legno scuro davano l’idea di essere stati costruiti a mano e in un lontano passato. Le diverse piattaie appese al muro grezzo, sfoggiavano porcellane di rara fattura. Ma la sorpresa più piacevole fu vedere una pentola di terracotta borbottare su una vecchia cucina a legna. Il tempo si era fermato.
«Mamma, questa è Viviana. Vuole sapere di Lollove», esclamò Lucia, rivolta ad un’anziana signora avvolta in uno scialle, che sedeva in una sedia accanto al camino.
«Buongiorno, signora, spero di non disturbarla».
La nonnina sfoggiò un sorriso sdentato, e rispose: «E che disturbo! Vieni, vieni, mi piace chiacchierare. Cosa vuoi sapere?».
Intanto Lucia aveva avvicinato una sedia per la ragazza, posizionandola di fronte a sua madre. E si apprestava a sistemare dei dolcetti tipici, preparati da lei in vista della festa di Ognissanti.
Quell’accoglienza fece sentire Viviana subito a proprio agio.
«Posso registrare la nostra conversazione?», chiese estraendo un piccolo registratore dallo zainetto.
«E registra, registra, non mi vergogno mica». L’anziana signora rise di gusto.
«Come si chiama?».
«Tzia Isabella, così mi chiamano tutti in paese».
«Isabella è un bellissimo nome».
La nonnina sorrise compiaciuta.
«Ad essere onesta credevo di trovare più movimento, vista l’imminente festa».
«Ognissanti non è una festa per i vivi, è la festa dei morti e bisogna averne rispetto!», esclamò seria tzia Isabella.
«Quindi non l’avete mai festeggiato? Eppure si usava in tutta la Sardegna con “Is Animeddas”, neanche da bambina?».
«Sai perché si chiama così?».
«Credo sia “la notte delle anime”».
«Brava, anime buone e anime cattive. Ma quando si muore, non puoi lasciare questa terra, devi espiare nell’Etere. Resti aggrappato alla terra, non sei vivo e non sei morto. Esisti in una dimensione parallela. In determinati giorni e in un determinato tempo, le anime possono passare nel nostro mondo. Lucia, dammi dell’acqua, per piacere».
Isabella si fermò per bere, Viviana aveva notato che l’atmosfera si era fatta più seria. Non che si fosse sfreddata, ma piuttosto fosse diventata “rispettosa”, ecco il termine giusto. Quella donna parlava delle anime con grande rispetto e timore, anche sua figlia si era fermata ad ascoltarla.
La nonnina riprese: «Durante questo mese il velo che separa i due mondi si assottiglia ogni giorno di più, tanto che qualcuno, con determinate facoltà, può percepire queste anime e, a volte, vederle, ma ancora non possono interagire con noi, non ancora. È nella notte di Ognissanti che il velo si strappa per lasciarli passare».
«Pensavo che per questa occasione si celebrasse almeno una messa per loro».
«Non hanno bisogno di noi, per espiare i loro peccati. Fanno da soli».
«So che in alcuni paesi festeggiano, e che in alcuni posti è ancora usanza che i bambini, vestiti di stracci e sporchi di carbone, bussino alle porte per ricevere dolci, recitando “Seus benius po is animeddas”. Voi non avete mai fatto nulla di simile?».
«Qualcosa la facciamo, sì, per i nostri cari. Per non farli sentire dimenticati. Ma dentro casa, perché quasi sempre ritornano nei luoghi a cui sono legati».
«In che modo?».
«Dopo la cena del 31 ottobre, prepariamo la tavola per le anime, si apparecchia e si bandisce la tavola con pietanze semplici e profumate, come la pasta o le fave, perché loro si possano sfamare con gli odori».
«Cosa non si deve fare assolutamente? C’è una regola per non indispettirle?». Viviana pensava tra sé a quanto ancora le leggende e le credenze popolari erano radicate nelle menti della gente, lontana dal progresso delle grandi città.
Isabella si rattristò per un momento.
«Lo abbiamo imparato, a nostre spese…».
Quella frase incuriosì la reporter.
«Non capisco, che intende? Vi è successo qualcosa?».
Ma la nonnina rifiutò di rispondere, scrollando leggermente il capo avvolto da un fazzoletto nero.
Fu Lucia a prendere la parola, mentre apparecchiava la tavola per il pranzo.
«Vede quella cassapanca sotto la finestra? Nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre, ci chiudiamo a chiave coltelli forbici e forchette. Tutto ciò che possa diventare un arma da taglio viene riposta lì dentro fino al mattino seguente».
«Non conoscevo questa usanza, ma perché?».
«Alcune persone sensibili, possono vedere attraverso il velo e possono creare un legame fisico con le anime, quando lo varcano. Se una di queste fosse particolarmente legato a quella persona, potrebbe avere il forte desiderio di portarla con sé».
«Lei conosce “qualcuno” in grado di vedere attraverso questo velo?».
Lucia guardò fugacemente la madre.
«Forse…», rispose Isabella.
«Sarebbe bello poterci parlare!», esclamò Viviana.
«Credi sia una bella cosa? Per le persone che possiedono questo dono, intendo».
In effetti non ci aveva mai pensato. «Credo di no…», rispose sinceramente.
«Esatto».
«Vuoi trattenerti con noi per il pranzo?», chiese Lucia.
«No, grazie. Farò un giro per il paese. Peccato, speravo di poter prendere parte ad una festa paesana, ma è fin troppo chiaro che non ce n’è sarà alcuna, giusto?».
«Giusto, non è il periodo adatto», aggiunse Isabella.
«Ne approfitterò per rilassarmi un paio di giorni».
Le due donne si scambiarono una fugace occhiata, che non sfuggì alla ragazza.
«Sei al corrente che qui non abbiamo né alberghi, né pensioni? Dove pensi di alloggiare?», chiese curiosa Lucia.
«Non sarà un problema, sono abituata a spostarmi col mio camper, quando devo fare questi servizi. Avere una base mobile che mi segue in ogni dove, è il mio punto di forza», le informò la reporter.
Nuova occhiata tra le donne. Questa volta, non poté fare a meno di notare una leggera preoccupazione. Viviana non perse tempo e, alzandosi dalla sedia, si congedò. Lucia l’accompagnò alla porta.
«Vi ringrazio per la vostra gentilezza e ospitalità».
«Mi dispiace che tu non abbia trovato quello che cercavi, ma ascolta il mio consiglio: vattene, vattene subito». E su questo avvertimento chiuse la porta, lasciandola inebetita e senza parole.
Viviana si allontanò dalla piccola casa in pietra e si apprestò a chiamare il capo redattore.
«Ciao Angelo, niente festa di Ognissanti qui a Lollove, ma credo che mi tratterrò comunque. Ho come la sensazione che debba succedere qualcosa, non so esattamente di cosa si tratti, ma staremo a vedere».
«D’accordo, tienimi aggiornato».
Viviana raggiunse il camper, quell’aria autunnale e i profumi sentiti in quella casa le avevano messo appetito.
Trascorse il pomeriggio a fotografare il paesaggio e angoli caratteristici, fino a quando la luce del giorno le consentì di lavorare. Di rientro alla base, incontrò un uomo con il suo branco di maiali.
«È suo il mezzo?», chiese indicando il camper.
«Sì».
«Non può stare parcheggiato lì», disse e, senza aggiungere altro, si dileguò, incitando il bestiame ad affrettare il passo.
Decise di trovare un altro luogo distante dal centro abitato. Stava per aprire lo sportello al posto di guida, quando si accorse di un biglietto incastrato nel tergicristallo. Lo prese, la carta era la stessa della lettera recapitatale a casa. Il mistero si infittiva. Chi mai le lasciava questi messaggi anonimi. Entrò nell’abitacolo e lesse la nuova missiva:
“S.C.M.M.
Le anime espieranno i loro peccati. Sfiora la donna velata, regalale il tuo respiro”.
Chi poteva essere a lasciarle questi strani messaggi? Osservò con più attenzione l’inchiostro con la quale era stato scritto, aveva la netta impressione che fosse della china. Incredibile che nel 2019 qualcuno la usasse ancora. Mise il biglietto sul cruscotto e prese una stradina sterrata che costeggiava la strada comunale, confinante con un muro di cinta di un cortile, dalla parte opposta del paese. La percorse, cercando uno spiazzo dove potersi fermare. Quando le sembrò di essere a debita distanza dal borgo, si parcheggiò. Diligentemente estrasse la SD dalla macchina e caricò i file sull’hard disk del PC, ne prese visione e scartò gli scatti che mostravano qualche difetto. Fu osservando una fotografia fatta in prossimità della chiesa, che si accorse di una figura proprio in cima alle larghe scale coperte di muschio, che costeggiavano l’edificio. Ingrandendo la figura, risultava troppo sgranata per riconoscerne i lineamenti, ma era chiaro che si trattasse di un abito religioso femminile. Quella immortalata nell’immagine era una suora. Non le era sembrato che in chiesa ci fosse stato qualcuno, ma evidentemente si era sbagliata.
Mise qualcosa di più comodo e caldo, si scaldò una pizza nel microonde e si dedicò a riordinare le immagini per creare un suggestivo montaggio di ciò che sarebbe stato il suo lavoro parziale. Quando toccò all’immagine della suora si accorse che la figura non si trovava più in cima, ma era a metà della scalinata. Un brivido le salì lungo la schiena, probabilmente si era sbagliata. Mentre cercava di convincere se stessa di un errore visivo, la sua attenzione fu attratta da un leggero bagliore che entrava dalla piccola finestrella sul lavandino. Guardinga spiò oltre il vetro. Un piccolo gruppo di persone stava passando lì vicino facendosi luce con delle lampade a gas e si dirigevano verso il paese. Non si erano accorte di lei, probabilmente il buio nascondeva il camper, ne fu felice. Le seguì ancora un po’. Ma da dove arrivavano? Scrutò nella notte la strada a ritroso, ed ecco un bagliore tremolante che si diffondeva lieve tra le fronde. Non perse tempo, infilò il piumino, prese la Sony, e uscì. Attese ancora qualche momento, le lampade del gruppo quasi non si distinguevano più. A passo svelto si diresse verso il tenue fulgore tremulo. Si girò un istante, alle sue spalle il camper veniva lentamente ingoiato dall’oscurità. Ma cos’era quel cancello tra la vegetazione?
«Oh cazzo!».
La luce tremula arrivava dagli innumerevoli ceri posti sulle lapidi del piccolo cimitero, di cui lei non si era minimamente accorta al crepuscolo.
Con il cuore che le impazzava nel petto, iniziò a scattare spasmodicamente in ogni direzione. Voleva imprigionare nelle immagini quell’atmosfera da brivido. Aveva trovato l’articolo per la rubrica, e sarebbe stato eccezionale.
Nuovamente al caldo e al sicuro nella sua tana, prese visione dei nuovi scatti. Con incredibile sorpresa, vide ancora la figura della suora che già aveva ritratto nel precedente scatto. Questa volta però era quasi incorporea, tanto che le sembrava di intravedere la lapide alle sue spalle attraverso il corpo. Abbassò lo schermo del PC.
«Per oggi basta, devo pensare ad altro».
Tutta da sola su quelle colline desolate non era proprio il massimo. Controllò di aver chiuso tutte le sicure degli sportelli e si accucciò sotto il piumone. Decise di guardare un film sul tablet per conciliare il sonno, che sembrava essere ben lontano.
Il mattino seguente, ancora scossa per l’irrealtà che era riuscita ad immortalare nelle sue fotografie, decise che per esorcizzare i suoi macabri pensieri avrebbe dovuto controllare di persona il cimitero e accertarsi di conoscere la suora dei suoi ritratti, che sicuramente dimorava in paese.
Purtroppo il cancello del piccolo camposanto era serrato. Non le restava altro da fare che recarsi in paese a chiedere notizie della religiosa e, magari, riuscire a farci una chiacchierata.
Davanti alla piccola chiesetta prese a bussare con forza il portone chiuso, nella speranza che qualcuno l’aprisse. Attese qualche momento con l’orecchio teso ad eventuali rumori provenienti dal suo interno. Riprovò a bussare.
«Guardi che non c’è nessuno, la chiesa è chiusa».
Una donna rubiconda, sulla stradina di ciottoli, le sorrideva.
«Grazie per l’informazione. Avrei bisogno di parlare con una delle suore, sa dove alloggiano?».
«Suore? È un bel pezzo che non ci sono suore». La donna rise.
«Ma ne è sicura?», chiese Viviana, mentre sentiva una certa ansia farsi spazio nei sui pensieri.
«Più che sicura, mi creda». Salutò e si allontanò sul sentiero.
Ciò che asseriva la donna non poteva essere vero e a provare che mentiva c’erano le fotografie. Almeno una suora doveva esserci.
Viviana prese a vagare per le antiche viuzze aguzzando lo sguardo all’interno delle aie e, quando poteva, oltre le basse finestre delle abitazioni. Doveva trovarla, perché era sicura ci fosse…
Nel tardo pomeriggio, disarmata, si sedette su un basso muretto di pietra semi distrutto. Le sue ricerche non l’avevano portata a niente. Da tutte le persone, che aveva incontrato, aveva avuto la stessa risposta.
«Viviana!».
La reporter riconobbe Lucia Sanna che la chiamava gesticolando per attirare la sua attenzione, la raggiunse.
«Mi ha mandato mamma, dice che vuole vederti», la informò.
«Volentieri, è successo qualcosa?».
«Dicono che vai in giro a chiedere di una suora, è vero?».
«Sì, ma tutti fanno finta di ignorarne l’esistenza e non capisco quale sia la ragione».
«Non stanno ignorandone l’esistenza. Qui non ci sono suore. Seguimi».
Lucia la fece entrare in casa.
Tzia Isabella sedeva nella sua seggiola, accanto al fuoco che crepitava nel camino.
«Buonasera, ragazza», la salutò invitandola a raggiungerla.
«Buonasera, non capisco tutto questo mistero attorno a questa suora. Io l’ho vista e l’ho fotografata, capisco che forse non vuole essere disturbata, ma perché negarne, così ostinatamente, l’esistenza?».
«Conosci la leggenda del nostro paese?».
«Sì, la maledizione delle suore del Convento di Santa Maria Maddalena». Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, mise a fuoco le iniziali di quella congrega C.S.M.M.
«Esatto. Le uniche suore che hanno vissuto qui sono solo loro, e si sta parlando di tantissimo tempo fa. E se tu dici di averne vista una e di averla addirittura fotografata…».
«Crede che sia matta? Sono più che s…».
«No, no, forse sarebbe meglio, a parer mio, ma no, tu non sei matta, tu hai il dono di vedere attraverso il velo», concluse l’anziana.
«Il dono? Che sciocchezza», rispose secca Viviana. Aveva come l’impressione che quella gente si stesse prendendo gioco di lei.
«Non credi in queste facoltà? Ieri mi avevi dato un’impressione diversa. In ogni caso ti raccomando vivamente di andare via. Questa notte il velo verrà strappato e allora lei potrà avvicinarsi a te, o tu a lei…».
«Non credo nel paranormale, sono affascinata dalle credenze popolari, ma sono solo credenze e leggende. Di questo sono più che convinta».
«Ricordi quando mi hai chiesto se conoscessi qualcuno con questi poteri?». Tzia Isabella si sciolse il nodo del fazzoletto che teneva sulla testa e si abbassò leggermente il maglione sul collo, mostrando allo sguardo sconvolto della ragazza una vistosa cicatrice.
«Questo è il motivo per il quale teniamo al sicuro le potenziali armi da taglio nella cassa che ti ha mostrato ieri Lucia».
«Che cosa le è successo?».
«Nell’ottobre del 1960, sempre più spesso vedevo la sagoma incorporea di una donna nei pressi della chiesa, una donna che non avevo mai visto, almeno così mi sembrava in un primo momento. Sull’avvicinarsi dell’ultimo del mese, la figura si stava avvicinando sempre di più alla mia casa, tanto che una mattina me la ritrovai in camera da letto, china sulla culla di Lucia che al tempo era appena nata. Il velo era talmente sottile che potei distinguere bene i suoi lineamenti. Mi guardò con odio, ne fui terrorizzata. Appena vide che ero sveglia si dissolse immediatamente. Mio marito era già nei campi a quell’ora, presi la bambina e andai in chiesa per farci benedire dal prete. Allora avevamo ancora un prete…».
«E poi cosa è successo?».
«Dopo aver visto chiaramente il viso di quell’anima, non riuscivo a togliermela dalla testa. Iniziavo a credere di averla già vista ma non ricordavo dove. Poi ad un tratto, la mia memoria si risvegliò. Prendimi quella fotografia appesa lì per favore», disse indicando una cornice, appesa al muro.
Viviana la prese e gliela porse, rimettendosi seduta.
La fotografia era in bianco e nero, sbiadita dal tempo, tanto che alcune parti risultavano completamente bianche. Lo scatto immortalava un piccolo gruppo di sette persone, tre delle quali erano donne. Isabella indicò una di queste.
«Era lei! La casa alle loro spalle è la mia, questa casa, per l’esattezza. Queste persone sono nel mio cortile, perché allora gli apparteneva, così come la casa».
Isabella girò la cornice smontando il pannello posteriore e mostrandole il retro della foto. Viviana lesse la data e la scritta quasi invisibile. “Sorelle del Convento di Santa Maria Maddalena, ora spose dell’uomo. 1870”.
«È impossibile, io non riesco a crederci tzia Isabella…».
«Quella notte la bimba era agitata e piangeva, mi alzai e la presi, la portai in cucina per allattarla e non disturbare Armando, mio marito. La tavola era apparecchiata per le anime, come da usanza. Nel lavatoio c’erano ancora le stoviglie della nostra cena… poi… la vidi. Era in piedi proprio davanti al lavatoio e aveva in mano la “pattada”, il coltello a serramanico di mio marito. Feci in tempo a posare Lucia nella cesta che mi fu addosso, colpendomi con infinito odio, alla gola. Mi salvarono per miracolo. Quando mi risvegliai era il 15 novembre».
«Questa storia è veramente coinvolgente e suggestiva Isabella, ma non penserà davvero che io ci creda?».
«Il mio compito non è convincerti, ma salvarti».
«Io non me ne andrò. Voglio andare fino in fondo a questa storia. Ho come l’impressione che vi stiate prendendo gioco di me. Non capisco perché non vogliate rendermi partecipe dei vostri riti. Ho visto alcuni di voi questa notte al cimitero».
«Stai lontana dalla strada che da lì arriva alla chiesa!».
«Senta, se non volete divulgare le vostre usanze, non porterò la macchina fotografica e non ne parlerò con nessuno, ma metta una buona parola per me, mi faccia partecipare».
«Non c’è nessun rito e nessuna usanza. Nessuno del paese, stanotte metterà piede fuori di casa, te lo posso assicurare», insistette Isabella.
«Va bene. Non credo ci sia altro da aggiungere. Mi ha fatto piacere conoscerla tzia Isabella, ora è meglio che vada».
Viviana trovò Lucia sull’uscio.
«Arrivederci Lucia, è stato un piacere», la salutò tendendole la mano.
«Arrivederci e faccia buon viaggio».
Viviana sorrise e si allontanò, lasciando credere alla donna della sua imminente partenza.
Ritornò al camper e attese pazientemente che calasse il crepuscolo. Avvolta dalle tenebre si avvicinò, col suo mezzo, più vicino al paese e attese ancora, tenendo d’occhio la stradina sterrata che portava al cimitero. Quando, verso le 23.00, vide che ancora non succedeva niente, si attrezzò con i suoi strumenti e si avviò cauta verso il paese. Nascosta nell’ombra e avvolta da un silenzio innaturale, raggiunse la chiesa, convinta di trovarci gli abitanti riuniti. Ma il luogo era deserto. Nessuno nella strada, nessuna luce oltre le finestre o nei cortili. Tzia Isabella non aveva mentito. Un nuovo brivido le percorse la schiena fino alla nuca e affrettò il passo per rientrare al camper. Svoltato l’angolo della viuzza, inorridì davanti al macabro corteo maleodorante che le stava venendo incontro dal cimitero verso la chiesa. Le anime dei morti portavano tuniche stracciate e reggevano nelle ossute mani dei grossi ceri accesi. Il forte odore di putrefazione le invase le narici, riempiendole la gola. Il suo stomaco si rivoltò quando riconobbe la suora delle sue fotografie davanti al corteo. Vomitò, ma il terrore l’aveva inchiodata sulla strada, non riusciva a muoversi e intanto la processione dei morti la stava raggiungendo. Ad un tratto una mano le afferrò il braccio e la trascinò sul ciglio della strada.
«Isabella!».
«Taci! Abbassa la testa e non guardarli, aspetta che siano passati senza muoverti o parlare, qualunque cosa succeda!».
Rimasero così immobili. Viviana vide la veste della suora avvicinarsi e fermarsi di fronte a lei. Sentiva tzia Isabella cantilenare le “dodici frasi di San Martino” senza interruzione e senza mai sbagliare. Quelle stesse frasi di cui aveva letto, preghiere per tenere lontani i morti de Sa Reula, corteo di anime penitenti in cerca di espiazione. Passò un tempo infinitamente lungo e finalmente l’entità riprese il suo posto nel funebre corteo. Sembrò che fossero ormai lontani, ma quando Viviana stava per sollevare la testa Isabella le strinse ancora più forte il braccio e la ragazza rimase china sulle pietre. Di lì a poco un’ultima anima ringhiante e zoppicante passò loro davanti senza notarle. La vecchina continuava le sue preghiere senza interruzione. Ridiscese il silenzio e l’aria fu di nuovo respirabile. Isabella trascinò Viviana verso casa sua, entrarono svelte richiudendo piano la porta. Lucia le attendeva in un fremito di agitazione.
«Grazie a Dio siete tornate!».
Isabella guardò la ragazza che tremava.
«Stai tranquilla è passato, qui non ti troverà, ma ti chiedo una cosa: parlami».
Con gli occhi sgranati Viviana deglutì e tentò di ringraziare la donna, ma le sue corde vocali riuscirono ad emettere solo suoni strozzati, si portò la mano alla gola e si lasciò cadere in ginocchio sul pavimento, singhiozzando, unico sfogo al terrore vissuto.
«Mamma falle la “medicina”», la esortò Lucia.
«Dammi le forbici».
Isabella iniziò a tagliare delle ciocche di capelli dalla testa della ragazza.
«Non avere paura, non ti farò male. Devo tagliare quattro ciocche. Una dalla fronte, una dalla nuca, una dalla tempia destra e una da quella sinistra così da formare una croce».
Viviana non si mosse e la lasciò fare. Isabella portò le ciocche verso il caminetto, pulì accuratamente alcune pietre focaie e vi appoggiò le quattro ciocche a cui, subito dopo, diede fuoco. Raccolse le ceneri e le diluì in mezzo bicchiere d’acqua che poi porse alla ragazza.
«Bevi!», ordinò.
Lei ubbidì senza batter ciglio.
«Vieni con me», la invitò Lucia, conducendola in una stanzetta, dove l’attendeva un letto.
«Riposati, presto sarai a casa e tutto sarà dimenticato».
Finalmente riuscì ad articolare alcune sillabe, la magia di Isabella aveva funzionato.
«Grazie…».
Lucia le sorrise e la lasciò sola.
Mentre le palpebre diventavano sempre più pesanti, prendeva coscienza del mondo parallelo che camminava accanto al suo. Un mondo ai margini della realtà, oltre la realtà, di cui lei non sapeva niente e a cui non aveva mai creduto, fino ad ora. Non avrebbe più dubitato, non avrebbe più dimenticato…