LE RAGAZZE DI NEROZZI: L’EROS DI CONTINUUM

Fra le varie convinzioni che mi sono formato nel corso della mia ormai lunga esperienza di lettore c’è la seguente: l’eros non è da ricercarsi tanto nei romanzi rubricati sotto la voce “erotici”, quanto piuttosto in quelli meno sospettabili. Per fare un esempio pescando addirittura fra i classici, Germinale di Zola.

Probabilmente l’effetto sorpresa contribuisce in maniera sostanziale a renderli più stuzzicanti di quelli che lo dovrebbero essere per definizione.

In questo senso, Continuum di Gianfranco Nerozzi non fa eccezione. Nonostante si tratti di un romanzo che dal thriller poliziesco vira progressivamente verso l’horror parapsicologico, i personaggi femminili seducenti tratteggiati in esso sono diversi: dall’agente dell’unità speciale Luigia Masina, alla giornalista Morena Brizio, dalla moglie del commissario Mara, fino a Chiara Monti, un’altra collega del protagonista, il commissario Negronero.

In ognuna delle descrizioni o delle vicende che le riguardano, la sessualità è presentata con sfaccettature diverse, ma appare comunque legata a doppio filo ai generi in cui si inserisce il romanzo, e al di là di essi a una descrizione il più possibile approfondita del male: per questa ragione in alcuni casi giungiamo alla sperimentazione dell’estremo.

L’eros, dunque, come regione dell’essere umano più facilmente colonizzabile, e colonizzata, dal negativo morale.

L’agente Luigia è una ragazza madre “mora, coi capelli tagliati cortissimi […] occhi grandi, da cerbiatto” che è stata oggetto di uno stupro di gruppo e ha poi deciso, seguendo un atavico principio culturale tutto mediterraneo (d’altro canto lei è napoletana), di tenere la figlia concepita dalla violenza. Non basta: nel momento in cui scopre che la bambina è molto malata, non esita a derubare un capocosca per curarla, dimostrando così una dirittura e una pulizia morale che va ben oltre l’appartenenza etnica o istituzionale (“Era mio dovere [di madre], al di là del mio dovere [di poliziotta]”). La sua storia viene alla luce grazie a un particolare: il termine “tesorino” pronunciato dai suoi carnefici durante l’orgia e in seguito utilizzato anche da Terrano, una sorta di dio di tutti gli odî che il mondo ospita, allo scopo di mostrare d’essere onnisciente riguardo al passato dei propri avversari. È interessante notare come il vezzeggiativo scelto da Nerozzi, nella norma parola amorosa pronunciata in ambiti familiari o comunque affettivi, dato il contesto brutale acquisti il valore di una sorta di bestemmia o parolaccia, come a segnalare che le bestemmie o le parolacce in quanto tali non esistono.

Morena, innamorata senza speranze del protagonista, approfitta del suo lavoro di giornalista per mescolare l’interesse professionale a un autoerotismo appena accennato che lascia quasi tutto all’immaginazione, ma forse proprio per questa ragione piuttosto vellicante.

Mara incarna alla perfezione la moglie ancora desiderabile, fisicamente matura al punto giusto, nonostante tenti (invano) di denigrarsi con questa descrizione: “i seni le sembravano troppo grossi, i fianchi troppo larghi, le gambe troppo lunghe e la pancia troppo piatta”: insomma, è il porto sessualmente sicuro per il commissario, almeno fino a quando non crederà che sia morto. Negronero, infatti, dopo la sua finta dipartita avrà l’occasione di spiare attraverso una telecamera installata nella propria casa il tradimento di Mara con il suo collega nonché rivale Monvisi, proprio “lui che fa l’amore, che scopa, che si fa sua moglie!”. Grottesca ridondanza assai indovinata per una scena che, allo stesso modo di quelle in cui è il poliziotto a tradire la moglie con Chiara, donna bellissima dalle curve perfette, quanto al resto presenta assai poco di nuovo rispetto ai canoni del sesso contemporaneo che si realizza soprattutto attraverso triangoli e ancora triangoli. Prevedibilissimi e politicamente corretti.
Infine, senza parere, oltre a quelli fin qui nominati Nerozzi introduce un altro personaggio, questa volta del tutto secondario: la moglie di Pasquale Serra, un pentito già al servizio del capomafia psicopatico di cui ho parlato. La donna viene tratteggiata in poche righe sparse qua e là per il testo che non suscitano nessuna curiosità nel lettore: è inglese, bruttina, ha un bambino, cucina male, possiede un carattere dolce e materno. L’autore non si preoccupa neppure di darle uno straccio di nome.

Pare quasi di vederlo, Nerozzi, che pirandellianamente iscrive a ruolo fra suoi personaggi femminili anch’essa, totalmente priva di desiderabilità e bellezza ma desiderosa di entrare a ogni costo a far parte del romanzo. Da parte sua, lo scrittore la accontenta con riluttanza, non senza però averla prima avvertita che data la sua scarsa appetibilità le può promettere solo un breve ruolo di comprimaria e un rapporto sessuale con la verga di un toro.

Come in ogni racconto nero che si rispetti, infatti, nonostante la protezione dei poliziotti la spia fa una brutta fine, e con lui tutta la sua famiglia, inclusa naturalmente la moglie. Proprio a questo punto, e sia pure per il breve spazio di (forse) mezza pagina, avviene la trasformazione della “moglie di Serra” in qualcos’altro che la sbalza d’improvviso a diventare protagonista assoluta, donna venuta dal Nord a farsi stuprare e massacrare al tempo stesso nel Sud dell’Europa. Nuda, su un altare, è la grassoccia vittima di un sacrificio in cui il sesso diventa una sorta di riedizione del rapporto mitologico fra Pasifae e il toro, mentre il marito che è costretto a guardare la moglie impalata non è affatto il voyeur involontario e un po’ ridicolo chiamato Negronero, bensì il profano ammesso a osservare impotente e inorridito il coito esaltato del male assoluto.

Coito, è bene sottolinearlo, sul quale l’autore non si sofferma affatto in descrizioni più o meno pruriginose, ma che mette a referto telegraficamente (anche se il telegramma sembra scritto sulla pietra). In questo caso, parafrasando Stendhal, si può ben dire che l’eros della situazione è assai più rilevante di quello legato alla semplice bellezza e la trasfigurazione della bruttina “moglie di Serra” conduce Nerozzi, per caso o per calcolo, decisamente oltre la contemporaneità di un sesso psicologizzato o edulcorato, cosmetico insomma, verso un’elementalità in cui sesso maschile e femminile sono stilizzazioni di principi divenuti forse anche – tardivamente – morali: il bene sottomesso al male.

Per continuare con la parafrasi stendhaliana, gli uomini che non sono suscettibili di provare l’eros di una situazione sono quelli che sentono più vivamente l’effetto della bellezza: almeno è questa l’impressione più forte che possono ricevere da una donna. Il che rappresenta un discrimine abbastanza evidente fra coloro che danno rilievo all’oggetto in sé (solo se socialmente gli è riconosciuta una qualità, per esempio la bellezza) e coloro che invece ritengono importante la funzione che l’oggetto svolge. Per questi ultimi vale quanto detto a proposito di “tesorino”, sebbene in questo caso al livello narrativo della descrizione dei personaggi e non linguistico: è il contesto quello che conta.

Gianfranco Galliano