1. Adesso
Era da tanto tempo che non ripensavo a quel giorno che segnò la mia adolescenza.
Sollevo lo sguardo ad ammirare il cielo limpido, l’aria è tiepida, l’estate è quasi alle porte. Il sole è sempre stato capace di caricarmi di tanta energia positiva, anche oggi, sulla soglia dei 60 anni, sento il sangue scorrermi nelle vene a darmi forza e buon umore. Ma non è stato sempre così.
Mentre districo le mie adorate rose dalla vite americana, che si risveglia dal freddo inverno, inevitabilmente mi pungo un dito e quel ricordo, che avevo celato nella parte più remota del mio animo, si risveglia prepotente, come il sangue che esce dal mio polpastrello. Il cuore mi si ferma per un attimo e il fiato è corto. Resto così, sul mio sgabello, mentre tutto, di quella notte d’estate, prende vita davanti ai miei occhi.
2. Il dono
Era l’estate del 1972. La mia famiglia era solita campeggiare con altri amici in una florida pineta che si affacciava sul mare della costa meridionale della Sardegna. Bei tempi, quando ancora era possibile stare a contatto con la natura senza avere l’obbligo di appoggiarsi a campeggi organizzati, ma non divaghiamo.
Il nostro piccolo camping libero era composto da tre tende e quattro roulotte, messe in circolo. Al centro del bivacco i nostri padri avevano scavato una buca poco profonda dove la sera si accendeva un bel fuoco, che si usava per arrostire il pesce pescato durante il giorno, mentre noi ragazzine di circa quindici anni ci divertivamo a raccontare storie di paura per spaventare i più piccoli. Le giornate passavano serene e spensierate, sdraiata al sole con le mie amiche a raccontarci le vicissitudini scolastiche o amorose finite con la scuola. Dopo cena ci allontanavamo dai genitori e dai più piccoli, con la scusa di una passeggiata, per fumarci una sigaretta di nascosto, che ognuna di noi era riuscita a rubare con maestria dai pacchetti incustoditi dei nostri genitori. Fu durante una di quelle passeggiate che ci accorgemmo di un nuovo bivacco vicino al nostro, composto da una sola roulotte. Ci nascondemmo nei bassi cespugli per meglio osservare i nuovi venuti, nella speranza di vedere se ci fossero dei ragazzi. Eravamo divertite ed eccitate, ma l’unica persona che riuscimmo a vedere fu una donna, che avremo potuto scambiare per un uomo se non fosse stato per i capelli tirati in una crocchia. Deluse rientrammo al campo e raccontammo della sconosciuta. I nostri genitori ci intimarono di non allontanarci fino a quando non si fossero accertati di che gente fossero i nostri vicini.
La mattina seguente, tornate dal mare vedemmo quella donna parlare e ridere con le nostre madri, quindi era evidente che non fosse un pericolo. Le nostre passeggiate erano salve!
Presto sarebbe stato il mio compleanno, avrei preferito compiere gli anni in inverno per poter dare una vera e propria festa con i miei coetanei, ma dovevo accontentarmi, e in fondo mi andava bene anche così.
Come era solito in quell’occasione si allungava il fosso del fuoco perché doveva ospitare diverse graticole, da una parte pesci e gamberoni e dall’altra succulente bistecche e salsicce. Fu invitata anche la donna con suo marito. Lui ci metteva un po’ a disagio, era molto serio, parlava solo se gli si rivolgeva una domanda e in più di un’occasione lo cogliemmo a fissarci con una strana espressione triste.
Anche quella sera io, Carla e Monica andammo a fare la nostra passeggiata. Eravamo solite fermarci a fumare, sedute su alcune pietre, all’inizio della spiaggia, protette alle spalle dai bassi e rigogliosi cespugli di lentisco. Uno schiocco di ramo spezzato ci mise in allarme e spegnemmo immediatamente le sigarette, aspettandoci di vedere da un momento all’altro il viso di uno dei nostri genitori fare capolino dai cespugli con aria severa. Riprendemmo a chiacchierare come se niente fosse per non destare sospetti. Ma con nostra sorpresa, si presentò la donna. Aveva dei logori jeans a zampa e una camicia sbracciata legata con un nodo alla vita. Credo dovesse avere più di sessant’anni, a ripensarci ora.
«Buona sera signorine» ci salutò. «Non preoccupatevi del vostro piccolo segreto, con me è al sicuro».
«Buona sera, quale segreto? I nostri genitori sanno che siamo qui» rispose a tono Carla, la più scaltra fra di noi.
«Non lo metto in dubbio, ma sono sicura che non sanno di quelle». E indicò il mozzicone accanto a lei, che ancora brillava. Nella fretta non lo aveva spento bene.
Restammo in silenzio, colte sul fatto.
«Tranquille. Volevo farti un piccolo regalo Ester» mi disse porgendomi una scatola. Pensai si trattasse di una scatola di cioccolatini, ma era troppo pesante per esserlo.
«Grazie, non doveva» dissi prendendolo.
«Ho pensato di non dartelo prima, perché non so se i tuoi approverebbero. Sta a te decidere se dirglielo o meno». Ci sorrise e se ne andò.
Aspettammo di non sentire più i passi, per buttarci a strappare la carta che avvolgeva quel misterioso regalo.
«No, non posso crederci! Una tavola Ouija!». Ne ero entusiasta. Le mie amiche mi guardavano con invidia.
Ne eravamo affascinate. Quante volte avevamo provato a invocare gli spiriti cercando di riprodurla su un foglio, usando un bicchiere come planchette. Ma naturalmente il bicchiere non si era mai spostato di un solo millimetro. E ora, tra le nostre mani c’era una vera tavoletta Ouija!
«Non credo che tua mamma te la lasci tenere» disse Monica.
Aveva ragione.
«E noi non glielo diremo» aggiunse Carla.
«Lo so. Come faccio a tenergliela nascosta? Fossimo a casa, sarebbe più semplice, ma nella roulotte…».
«Troviamo un nascondiglio nella pineta, e quando sarà il momento di andarcene, troveremo il modo di nasconderla».
La proposta di Carla fu accolta con fervore, e iniziammo subito la ricerca di un posto sicuro per il nostro tesoro, per il mio tesoro.
Prima di ricoprire la tavola con gli aghi di pino secchi che facevano da tappeto alla pineta, d’istinto presi la planchette e la incastrai nella cintola dei pantaloncini.
«Questa la tengo con me, non voglio che vada perduta». Ma la ragione non era quella. Era un’esigenza. Volevo tenerla, osservarla, ammirarla.
La mattina seguente mi alzai prima delle mie amiche, per raggiungere l’accampamento della donna che mi aveva fatto un dono così speciale. Non c’erano più. Ne rimasi delusa, avrei voluto chiederle il perché di quello specifico regalo e se lo aveva comprato per me o se era il suo. Insomma avrei voluto maggiori informazioni e magari qualche consiglio per usarla. Tornai indietro. Carla e Monica facevano colazione al tavolo.
«Dov’eri finita?» mi chiese sottovoce Monica.
Ma io non le risposi, andai invece da mia madre, che sistemava la caffettiera sul fornelletto a gas.
«I nostri vicini non ci sono più» dissi buttandomi sull’amaca.
«Sì, lo so. Sono partiti all’alba. Brava gente».
Quindi lo sapevano, non erano fuggiti misteriosamente nella notte. Raggiunsi le mie amiche alle quali raccontai il motivo della mia assenza.
«Dove lo tieni?» mi chiese Monica.
Sollevai un lembo della canottiera e lasciai intravedere la punta della planchette incastrata nel costume.
Raggiunta la spiaggia, ci sdraiammo al sole. Avremmo fatto la prima vera evocazione, quella notte. Ma l’eccitazione iniziò a scemare in me col calare della sera, non mi sembrava più una buona idea ed era d’accordo anche Monica. Ma Carla non sentiva ragioni.
«Avanti ragazze, che vi prende? Sono scemenze. Facciamolo!».
«E se non lo fossero? Non è un foglio, è una vera tavola e questa non è un bicchiere!» esclamai mostrando il cursore che tenevo in mano.
«Su dai, solo una volta» insistette.
«Ok, ma potremmo evitare di farlo di notte?» propose Monica.
Ci trovammo d’accordo. Del resto non c’era scritto da nessuna parte che la tavola ouija dovesse essere usata esclusivamente con le tenebre.
Il mattino seguente feci finta di accusare un forte mal di testa e le mie amiche, come da programma, si offrirono di farmi compagnia, così genitori e piccoli scesero in spiaggia. Sapevamo che le mamme non avrebbero tardato a risalire all’accampamento per via del pranzo, cosi Carla recuperò la tavoletta e ci raggiunse nella mia roulotte dove l’aspettavamo agitatissime.
3. Linfa
Sistemammo la tavoletta al centro del tavolo e ripassammo le regole base del suo utilizzo. In coro avremmo invocato gli spiriti e mai in nessun caso avremmo staccato le dita dalla planchette prima di aver salutato lo spirito che ci fosse venuto a trovare.
Ci eravamo appuntate il rito da enunciare, studiandone attentamente le parole, perché fosse fluido, breve, ma che soprattutto non risvegliasse spiriti maligni.
Così col dito indice e medio della mano destra posati sul cursore, iniziammo.
«Spiriti amici noi vi invochiamo, spiriti amici noi vi aspettiamo. Apriamo la porta che ci separa, dicci chi sei con scrittura chiara!».
Restammo così immobili per un minuto e decidemmo di ripetere il verso, ma non successe nulla.
«So io come fare, ho letto da qualche parte che bisogna fare una piccola offerta per attirarli, ed è bene che ci sia un contatto tra di noi, come nelle sedute spiritiche» asserì Carla.
Mi chiese dove mia madre tenesse la scatola del cucito, io le indicai uno sportellino proprio sopra la sua testa. Senza perder tempo cercò un ago e si rimise seduta davanti a noi.
Io e Monica ci scambiammo uno sguardo interrogativo, mentre Carla si pungeva un polpastrello della mano sinistra facendo scendere alcune gocce di sangue sulla lente della planchette, che si espansero come acqua.
«Ma che fai, sei impazzita?» le chiesi spaventata.
«Ssssh!» mi ammutolì.
Poi mise di nuovo due dita sul cursore e posò la mano sinistra sulla spalla di Monica e ci invitò a fare la stessa cosa. Vedevo il suo dito, che ancora sanguinava, sporcare la pelle della mia amica e quando mise la sua mano sulla mia spalla la sentii freddissima. Feci altrettanto posando la mia sulla spalla di Carla, per chiudere il cerchio. Dopo un sonoro sospiro, recitammo un’altra volta il verso.
«Spiriti amici noi vi invochiamo, spiriti amici noi vi aspettiamo. Apriamo la porta che ci separa, dicci chi sei con scrittura chiara!».
Sentii un brivido freddo salirmi lungo la schiena quando la planchette sotto le nostre dita iniziò a muoversi: consapevoli di ciò che stava accadendo, facemmo attenzione a non togliere le dita dal cursore e tanto meno lasciarci le spalle, alle quali ognuna di noi si aggrappava con disperazione. Non sapevamo con esattezza ciò che sarebbe successo spezzando la catena, sapevamo solo che era male e questo ci bastava.
La planchette si fermò brevemente su nove lettere e poi si fermò del tutto.
“Ciao Sofia”.
Sgranammo gli occhi e guardammo Carla che impallidiva, nonostante l’abbronzatura. Sofia era il suo secondo nome e solo una persona la chiamava così, noi l’avevamo sentita tante volte.
«Nonna?» domandò mentre il mento aveva iniziato a tremarle.
“Si”.
«Mi manchi…». Due grossi lacrimoni scivolarono sulle guance.
“Anche tu”.
Avevo sentito dire che spesso gli spiriti mentivano e nonostante l’agitazione e la paura mi attanagliassero il ventre, parlai con lei.
«Ciao, mi riconosci?» dissi in un filo di voce.
“No”.
«Sono Ester».
“No”.
Non era possibile, nonna Sara ci conosceva tutte fin da piccole, era sempre venuta in campeggio con noi fino all’estate prima, e tante volte ci aveva fatto da baby-sitter quando i nostri genitori decidevano di andare a cena fuori. Quella non era lei.
Guardai Monica incitandola a fare lo stesso.
«Ciao sono Monica, mi riconosci?».
“No”.
«Mi chiamavi moscerino, ricordi?».
“No”.
Carla era sempre più pallida e le sue labbra stavano diventando blu. Anche il colorito di Monica iniziava a cambiare e sentivo la sua mano trasmettermi il gelo sulla spalla.
“Sofia verrai da me”.
«Cosa?» chiesi in un filo di voce.
“Sofia verrai da me”.
Vidi Carla perdere conoscenza, ma stranamente le sue dita e la sua mano restavano al loro posto, eppure il suo mento si appoggiava sul petto pesantemente. Anche Monica iniziava a dare segni di debolezza, e anch’io mi sentivo strana.
Decisi di recitare il rito che avevamo stabilito per interrompere il contatto.
«Spirito amico che ci hai trovato, spirito amico che ci hai parlato. In armonia ti salutiamo, per noi la vita… per te la pace.»
L’incantesimo si sciolse, Carla lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Era svenuta. Mentre Monica cercava di riprendersi, io presi il viso di Carla Sofia tra le mie mani cercando di svegliarla.
«Carla, ehi Carla! Dai svegliati ti prego!».
La sua pelle era umida di sudore ed era fredda come un cadavere. Iniziai a piangere scrollandola, quasi con cattiveria, e proprio quando pensavo che stesse morendo aprì gli occhi.
Piansi più forte abbracciandola, anche Monica singhiozzava, pallida come un cencio.
«Cosa è successo? Mi gira la testa…».
Ricordo che restammo abbracciate a piangere per un bel pezzo, scosse da quella tremenda esperienza con l’Altro Mondo.
Decidemmo di non raccontare nulla e seppellimmo la tavola Ouija nella spiaggia, maledicendo la donna che me l’aveva donata.
Purtroppo la tavoletta, non so come, mi seguì. Quando entrai nella mia camera, rientrati dal campeggio, lei era li aperta sul mio letto col cursore che andava da una parte all’altra su alcune lettere.
Avrei voluto urlare, ma dalla gola non mi usciva un fiato, provai a muovermi per raggiungere mia madre al piano di sotto, ma le mie gambe non si muovevano. Sentii squillare il telefono di casa e la voce di mio padre rispondere. Lo sentii dire qualcosa a mia madre che immediatamente gridò e scoppiò in lacrime.
Che diavolo stava succedendo? Il cuore mi batteva forte, come adesso, mi ripresi e corsi giù per le scale.
La scena che vidi, non la scorderò mai…
Mia madre piangeva disperata sul pavimento mentre mio padre cercava di sollevarla, sussurrandole qualcosa. Si accorse di me sulla porta della cucina e mi guardò, anche lui piangeva.
«Ma che c’è? Che succede?».
E allora seppi.
Di rientro dal campeggio la famiglia di Carla aveva avuto un incidente stradale con un’autocisterna, la mia amica morì sul colpo.
Corsi in camera singhiozzando, mio padre mi chiamò, ma non mi seguì.
Mi avvicinai alla tavoletta sul mio letto col cursore sempre in movimento.
“Silenzio, silenzio, silenzio…”.
Dopo che lessi, il cursore si fermò, la tavoletta si chiuse a libro su di esso e tutto si fermò.
Non ho ricordi del momento in cui la nascosi in un baule di vecchi giochi, ma è ancora lì, nella mia soffitta.
Non so perché ma sono sopraffatta dal panico, nella mia mente scorrono le immagini dei visi sorridenti delle mie amiche, ma c’è un altro viso che sorride, leggermente sfuocato che non riesco a riconoscere. La paura mi costringe a mettere a fuoco.
«Valentina!».
4. Il dono
Mi alzo a fatica dallo sgabello, per raggiungere la soffitta: perché vedo il viso di mia nipote? Cosa voleva quella maledetta tavoletta da lei?
Davanti al baule che la contiene mi inginocchio e con mani tremanti lo apro.
La tavoletta è li, sopra vecchie bambole e spelacchiati pupazzi. È aperta e il cursore è veloce sulle lettere che formano il suo nome: “Valentina”.
«Maledetta, che cosa vuoi da lei?».
“Valentina verrà da me”.
«No! Prendi me, prendi me!».
“No”.
“Valentina verrà da me”.
«No ti prego, qualunque cosa, ma non lei… per favore, non lei…». Piango.
“Donami”.
Il cuore mi si ferma, per poi riprendere a galopparmi in petto. Ricordo il viso della donna che, con un sorriso, mi dona la tavoletta. Devo fare come lei, non mi importa a chi succederà, ma non alla mia nipotina.
***
Sono le 14.25, sono sul treno per Sassari. Tra un paio d’ore farò felice una ragazzina con uno straordinario “Dono”.