Era un caldo pomeriggio di fine agosto, quando Stefano percorreva la silenziosa e deserta via Manno, trascinando il trolley e portando sulle spalle il pesante zaino. L’appuntamento con la padrona di casa era fissato per le 15.30. Purtroppo non aveva avuto fortuna quando aveva fatto richiesta per un alloggio alla “Casa dello Studente”, quell’anno universitario avrebbe condiviso un appartamento con altri tre colleghi. Raggiunse il numero civico riportato sull’annuncio, cercò un campanello, che non trovò e bussò forte sulla fatiscente porta in legno e attese. Una finestra si aprì sopra la sua testa.
«Sei tu quello nuovo?» chiese il ragazzo che si era affacciato.
«Non proprio nuovo, ma sì, credo di essere io». Sorrise, ma il ragazzo alla finestra non colse la battuta.
«Dammi un momento e scendo ad aprirti».
Non passò molto tempo che lo stesso ragazzo aprì il portone presentandosi.
«Ciao, io sono Carlo».
«Stefano, piacere».
«Vieni ti faccio strada. Dammi lo zaino, ti do una mano, ci sono due rampe di scale belle ripide».
«Ti ringrazio. Aspettavo la donna con la quale ho preso accordi».
«Ines. È una vecchietta gagliarda, ero a casa sua quando mi sono affacciato. Non sta tanto bene e mi ha chiesto di farti vedere la casa, per la firma del contratto c’è tempo».
La casa era datata, aveva bisogno di un’urgente ristrutturazione che probabilmente non avrebbe visto per molti anni in avvenire, ma c’era tutto quello che serviva. Cucina e bagno da condividere, ma almeno la stanza era tutta sua!
Disfò i bagagli, anche se non c’era aria condizionata, gli ambienti erano freschi per via dello spessore delle vecchie mura risalenti al 1800.
Era affacciato alla finestra, quando un altro degli ospiti della signora Ines entrò nella sua camera.
«Ciao Stefano, io sono Andrea».
«Ciao».
«Guardi il panorama?» chiese affacciandosi accanto a lui.
«Sì, non è niente male».
«Finisci di sistemarti, dopo cena ti mostriamo il nostro posto segreto e ti posso assicurare che da lì il panorama è mozzafiato».
Stavano ancora cenando quando si sentì un rumore di chiavi e qualcuno entrare dalla porta d’ingresso.
«Ehi, ci siete?».
«Siamo in cucina, Giacomo!».
Dopo le dovute presentazioni, in cui Stefano apprese che Giacomo era l’ultimo degli inquilini, si prepararono a svelare il misterioso “posto segreto” al nuovo arrivato.
«Allora sei pronto?».
«Sempre».
Carlo gli osservò i piedi. «No, quelle non vanno bene…».
«Cosa, le infradito? Ma se Andrea è scalzo!» rispose divertito Stefano.
«Credimi è meglio scalzi che con quelle» ribatté Andrea.
Stefano era sempre più curioso e si mise scalzo anche lui. Uscirono sul pianerottolo, Giacomo si affacciò dalla ringhiera della scala. «Ok, aprite, ma fate piano».
Stefano si guardò intorno, ma cosa dovevano aprire? Lì non c’erano altre porte.
Poi Andrea afferrò un lungo bastone con un gancio, che era appoggiato in un angolo, Stefano lo guardò incuriosito, fu allora che i tre ragazzi indicarono la botola in acciaio sul soffitto.
«Una terrazza?» chiese, parlando sottovoce, era evidente che si trattava di qualcosa che non potevano fare.
«Ma quale terrazza? Vedrai».
Carlo fu il primo a salire, seguito da Andrea, che lo incoraggiò a seguirlo, Giacomo gli fu subito dietro.
«Cazzo, ma siete fuori? Siamo sul tetto!».
«Non agitarti amico e guardati intorno, ammira la meraviglia».
Ed era vero… un susseguirsi di tegole brune screziate da macchioline verde scuro, di qualche giardinetto sulle terrazze illuminate dei palazzi, si rincorrevano fino al porto, illuminato dai lampioni. Sotto quella pallida luna, quasi piena, le cupole di alcune vecchie chiese rendevano la vista mistica e spettacolare. Restarono lì seduti sulle vecchie tegole in silenzio a rimirare quel magico paesaggio.
«Cosa c’è in quel palazzo, sembra abbandonato?» chiese Stefano, notando le finestre rotte e il tetto in disfacimento del palazzo di fronte.
«Sì, credo fosse uno dei primi ospedali di Cagliari» lo informò Carlo.
«Sapete se c’è modo di entrarvi?».
«L’ingresso principale è murato e non credo che ci siano altri ingressi».
«Peccato, sono affascinato da questi vecchi edifici».
Stefano trovava, comunque, più affascinante osservare gli interni bui di quelle stanze, piuttosto che il panorama. Gli piaceva immaginare la vita della gente dell’epoca, i medici che avevano frequentato quell’ospedale e i malati che si erano affacciati a quelle finestre, a quelli che ne erano usciti guariti e a quelli che vi erano morti. Ne era talmente affascinato che decise che avrebbe trovato il modo di entrare, a qualunque costo, quel vecchio ospedale, sarebbe stato un altro magnifico documentario da aggiungere al suo blog.
Si svegliò molto presto, doveva recuperare l’attrezzatura audio e video che aveva lasciato a casa sua. Non aveva di certo immaginato che gli sarebbe servita.
Quando rientrò portava con sé due enormi borsoni in tela nera, entrò nella sua stanza e li posò sulla grande scrivania ancora libera dai libri.
«Wow, trasporti un cadavere a pezzi?» chiese Andrea, che lo aveva visto arrivare dalla finestra.
«E’ la mia attrezzatura, voglio entrare nell’ospedale e girare un video per il mio blog».
«Sei un blogger?».
«Più un appassionato del mistero direi, e mi piace condividere le mie scoperte».
«Come pensi di entrare? Non vorrai abbattere il muro a colpi di “mazzola”, vero?». Risero.
«Farò qualche ricerca e se è il caso chiederò i permessi. Non è la prima volta, una pratica un po’ più lunga, ma se non c’è altro modo…».
«Ok amico, ci vediamo più tardi».
«Senti, credi che possa salire sul tetto per fare qualche foto?».
«Non credo ci siano problemi. Cerca di non farti beccare o rimetteranno il lucchetto. Comunque non ti consiglio di andarci da solo, è sempre meglio essere almeno in due, non si sa mai».
Andrea uscì lasciandolo solo.
Decise che come prima cosa sarebbe andato a dare un’occhiata all’ingresso murato.
Scese in strada e la attraversò fino a raggiungere il portico che congiungeva, con una stretta scalinata, la via Manno con la piazza di San Sepolcro. L’ingresso era proprio appena superato l’arco, chiuso con file di mattoni grigi e cemento. Spinse per constatarne la solidità, entrare da lì era impossibile!
Da una ricerca che aveva fatto su internet, appurò che l’ospedale era stato gestito dai monaci Antoniani della chiesa adiacente, ancora in uso. Poteva essere che ci fosse un passaggio che univa gli edifici internamente e, visto che di visibile non vi era alcuna struttura, era chiaro che poteva esserci un passaggio sotterraneo. Aveva consultato dei vecchi disegni di alcuni progetti dell’architetto Giuseppe Viana, per un ampliamento dell’ospedale, risalenti al 1700, che il web gli metteva a disposizione, in cui si distingueva perfettamente una scala che terminava in un piccolo locale, situato proprio sotto il vicolo che separava la chiesa dall’ospedale.
Raggiunse la chiesa e ci entrò. Era incredibile come l’atmosfera cambiasse entrando in una chiesa antica. Persino il vociare della gente per la strada, pareva ammutolirsi tra quelle mura. L’aria era intrisa di incenso e cera fusa. Uno stupendo organo a canne, padroneggiava dall’alto di un balconcino.
Stefano costeggiò le tre cappelle laterali, alla ricerca di una porta che trovò nell’ultima cappella alla sua destra. Non si vedevano preti in giro, solo qualche devoto in preghiera e diversi turisti col naso in su a rimirare i dipinti e l’architettura del XVIII secolo.
Senza dare nell’occhio si avvicinò alla porta e spinse, un cigolio leggero echeggiò nell’alta volta a cupola e in un attimo si infilò nel nuovo ambiente.
Si trattava di uno stretto corridoio, appena illuminato dalla luce che filtrava da un’altra porta socchiusa, sull’altra estremità. Rimase un attimo in ascolto per assicurarsi che non ci fosse nessuno e si incamminò, pensando alla scusa che si sarebbe inventato se lo avessero sorpreso. A non più di un metro e mezzo alla sua destra trovò quello che cercava, una stretta e ripida scala conduceva nel sottosuolo. Afferrò la sottile balaustra in ferro fissata al muro su entrambe le pareti e iniziò a scendere. L’ambiente in cui si ritrovò era carico di umidità, accese il led del cellulare. Non si trattava di una vera e propria stanza, era chiaramente un ipogeo che si snodava in altri cunicoli sotterranei, ma al ragazzo interessava solo il cancello arrugginito che lo divideva dal basamento dell’antico ospedale. Illuminò la serratura, vide che non era completamente chiuso, ma quando provò a spingere si rese conto che i cardini erano rugginosi e facevano molta resistenza. Doveva forzarlo evitando rumori molesti che avrebbero attirato qualcuno. Mise in tasca il cellulare e afferrò le sbarre con entrambe le mani e spinse con tutte le sue forze. Finalmente i cardini cedettero, aprendo uno spazio sufficiente perché potesse passarci di fianco. Mentre recuperava il cellulare dalla tasca, scrutava il tunnel che proseguiva verso il buio dell’ignoto, puntò la torcia e per un attimo gli parve di vedere una figura passare veloce. Restò immobile ad ascoltare, ma non ci fu alcun rumore. La suggestione lo stava condizionando. Si ritrovò in un ampio e basso camerone, inframezzato da colonne dipinte, l’odore di legno marcio proveniente da una catasta di vecchi mobili era pungente. Si avvicinò a una cassettiera, quasi intatta, dedusse, vedendo i molteplici piccoli cassetti con targhetta, che si trattasse di un mobile utilizzato per conservare erbe o medicine. Scattò una foto, e contemporaneamente gli sembrò di sentire una voce. Illuminò ogni angolo scrutando con attenzione, ma oltre ai mobili marci, una sgangherata sedia a rotelle in legno, senza una ruota, non vi era altro. Era eccitato dall’atmosfera, scattò ancora una foto, ma si concentrò sui suoni che lo circondavano.
Sì, era una voce!
Si apprestò ad avviare una registrazione, si mise al centro della stanza e azionò il cellulare sulla modalità video.
Girò lentamente su se stesso cercando di inquadrare ogni angolo nascosto, il cuore gli batteva forte, forse avrebbe avuto una vera testimonianza di un’entità spirituale, rimasta intrappolata. Si fece coraggio e fece la fatidica domanda che tante volte aveva sentito dai più famosi Ghosthunters.
«C’è qualcuno che vuole comunicare con me, in questa stanza?». Si fermò e attese.
Mentre attendeva la sua risposta, un rumore di passi provenienti dal lato della chiesa lo costrinse ad interrompere il video.
«Chi c’è! C’è qualcuno?».
Forse aveva parlato a voce troppo alta e lo avevano sentito. Non doveva farsi scoprire se voleva continuare la sua indagine.
Si accovacciò dietro l’anta di un armadio appoggiata alla parete e rimase in silenzio al buio. Sentì qualcuno forzare il cancello ed affannare, probabilmente doveva essere corpulento e non riusciva a passare.
Rimase immobile, poi sentì i passi allontanarsi e tirò un sospiro di sollievo… ma non fu il solo a sospirare. Sentiva accanto a sé un respiro ansante, come se, accovacciata accanto a lui, ci fosse un’altra persona. Accese il led del cellulare e lo puntò alla sua destra. Nessuno, era da solo.
Col cuore in gola si sollevò di scatto e si diresse verso il cunicolo che lo avrebbe portato al cancello semi aperto. Era costretto a un passo lento, non sapeva se la persona che lo aveva quasi scoperto, fosse ancora lì ad attenderlo. Aveva la netta sensazione di essere seguito, quella insistente sensazione che si ha da bambini quando si deve raggiungere un’altra stanza, attraversando un andito buio. Una presenza sempre più vicina, pronta a ghermirti alle spalle per ucciderti. Raggiunse il pertugio tra muro e sbarre e ci scivolò dentro come un’anguilla, poi attese alla base delle scale. Guardò verso il basamento e sorrise, era stato così sciocco da farsi prendere dal panico per delle sensazioni dettate dalla suggestione. Salì guardingo le scale e quando vide che la strada era libera da sguardi indiscreti, si fiondò sulla porta che dava alla cappella e svelto raggiunse la strada assolata.
Erano le ventidue passate quando Carlo bussò alla sua porta.
«Ehi Ste, noi stiamo andando a farci una birra, vieni anche tu?».
«No, per stavolta passo. Ho delle cose da fare».
«Ok, a dopo».
Non aveva ancora controllato le foto e il video che aveva fatto nel basamento dell’ospedale ed era giunto il momento. Scaricò le immagini sul computer e iniziò ad osservarle minuziosamente. Ma oltre al soggetto inquadrato non vi era altro. Fece partire il video, si sentì pronunciare la domanda di invito allo spirito, ma tutto era immobile e silenzioso. Il video terminava con un’immagine sfuocata del momento in cui si nascondeva, poi il buio della sua mano che copriva la telecamera, per nascondersi. Non aveva interrotto il video, ma poteva solo sentire il sonoro. Sentiva chiaramente il proprio respiro leggermente affannato, poi la voce dell’uomo che chiedeva se ci fosse qualcuno, e poi all’unisono col suo respiro ne sentì un altro, leggermente sibilante e la registrazione si interruppe di colpo.
«Cazzo!». Fu l’unica esclamazione che riuscì ad articolare.
Si riprese dallo sconcerto, collegò le cuffie sollevò il volume e riavviò il video.
Non ebbe alcun dubbio, finalmente la prova di un’entità spirituale. Fu pervaso da una eccitante paura, prese la videocamera e salì sul tetto, puntò verso una delle finestre rotte e ingrandì l’immagine. Rimase immobile a scrutare con l’obbiettivo il buio della stanza.
«Ehi, ti avevo detto di non salire qui su da solo!».
«Cristo! Andrea, mi hai fatto venire un colpo. Ma siete già tornati?».
«Già? Sono passate quasi tre ore bello, è quasi l’una meno un quarto!». Andrea gli sorrise e scese dalla scala per rientrare nell’appartamento.
Come era possibile? Ma quando constatò il tempo di registrazione effettuato si rese conto di aver perso parte di quel tempo e di cui non aveva alcun ricordo. Questo gli provocò un leggero malessere e si affrettò a raggiungere i compagni. Era stralunato, nella sua mente si rincorrevano domande senza risposte. Doveva guardare il video, forse il mistero si sarebbe svelato.
(1 – continua)