Stefano fu svegliato dai fendenti di luce che penetravano dalle persiane chiuse.
Si sentiva intorpidito, l’esperienza della notte precedente gli sembrava un sogno lontano. Si girò su un fianco, la luce lo infastidiva, non aveva voglia di alzarsi, non ancora. Sarebbe rimasto in quello stato di torpore, così rassicurante, ancora per un po’.
«Credo stia ancora dormendo, lasciamolo in pace».
«Ti ha detto qualcosa?».
«No. Mi sembrava angosciato per qualcosa vista nelle immagini del video dell’ospedale, ma io stesso ci ho dato un’occhiata e non ho visto assolutamente nulla di strano».
Ma lui non stava dormendo, ascoltava immobile il bisbigliare di Andrea e Carlo.
Crederanno sia fuori di testa, pensò. Li sentì allontanarsi, chiudendo la porta della sua camera.
Rimasto solo si girò per alzarsi, ma un forte capogiro lo costrinse a stare sdraiato. Riprovò, più lentamente e si mise seduto. Il pavimento sotto i piedi scalzi gli sembrò più freddo di quanto sarebbe dovuto essere. Si sentiva indolenzito e stordito. Pensò che una buona colazione gli avrebbe giovato, anche se non sentiva appetito.
Quando entrò in cucina i suoi amici tacquero all’improvviso. Parlavano di lui.
«Buongiorno Stefano, stai meglio?» gli chiese Carlo, preoccupato.
«Sì, grazie».
Si diresse verso i fornelli per versarsi del caffè.
«Ehi amico, ma che cavolo hai sulle spalle?». L’allarmismo nella voce di Giacomo lo mise in allerta. In effetti sentiva qualcosa di strano, era come se la maglietta gli fosse rimasta incollata alla pelle.
«Fermo, non toccare, sei pieno di sangue!». Ma nessuno osò avvicinarsi. Continuavano a guardarlo perplessi e inorriditi.
Stefano raggiunse il bagno, diede un’occhiata alle spalle. All’altezza dei trapezi, la maglietta era intrisa di sangue ormai rappreso. Guardò il proprio viso terrorizzato riflesso nello specchio. Si tolse la maglietta e osservò i profondi graffi che ripresero a sanguinare, dopo aver strappato il sangue coagulato, rimasto attaccato al tessuto.
Si sedette sul bordo della vasca, trasse un profondo respiro per cercare di riprendere il controllo. Troppe coincidenze stavano accadendo da quando era entrato in quel maledetto ospedale, e non poteva più ignorarle. La prova di quello che aveva sempre cercato di documentare nel suo blog, stava prendendo vita, proprio sulla sua pelle.
Doveva reagire, ma intanto sentiva le lacrime della disperazione riempirgli gli occhi. «Dio mio aiutami… liberami dal male, ti prego… liberami dal male…». Si abbandonò a quel pianto sommesso, era confuso e spaventato e… terribilmente solo.
«Sono sicuro, ti dico! Stanotte, non aveva assolutamente nulla sulla schiena!» insistette Carlo, mentre Giacomo, quasi, esigeva da lui risposte.
«E come ha fatto a ferirsi in quel modo? Deve avere lacerazioni profonde, avete visto quanto sangue?».
Carlo continuava a scuotere il capo pensieroso.
«Del resto non lo conosciamo, potrebbe avere qualche “rotella” fuori posto» aggiunse.
Andrea voltò lo sguardo verso la porta della cucina, Stefano era lì, poggiato allo stipite, bianco come un cadavere. I ragazzi si ammutolirono.
«Non sono pazzo, almeno che io sappia. Non ho idea di come mi sia potuto ferire, non provo alcun dolore. Quello che so è che non sarei dovuto entrare in quel fottuto ospedale! Andrei via, se potessi, credetemi, ma devo risolvere questa cosa. Se andassi via adesso, verrebbe con me, ne sono certo, ma non temete, vi starò alla larga».
Si voltò per andarsene, mostrando la schiena nuda con i profondi graffi sanguinanti.
Si meravigliò, quando poco dopo qualcuno bussò alla porta della sua stanza, aveva visto l’orrore e l’insicurezza nei loro occhi.
«Posso entrare?».
«Vieni».
Andrea entrò e richiuse la porta. Stefano sedeva a cavalcioni sulla sedia, con gli avambracci poggiati sullo schienale, dandogli le spalle.
«Credo dovremmo pulire quelle ferite, ho portato del disinfettante e del cotone».
«Non hai paura di me?» chiese sbeffeggiandolo.
«Non dire cazzate e lasciati aiutare».
Stefano sentì un nodo alla gola e l’asprezza che aveva sentito montargli dentro l’abbandonò.
«Grazie». Fu l’unica parola che riuscì a dire, senza mai voltarsi.
Quando Andrea concluse la medicazione, si sedette sul letto.
«Ti va di raccontarmi cosa è successo?».
«Non so come mi sono ferito, ve l’ho detto».
«E ti credo. Raccontami dell’ospedale».
Stefano si girò ad incontrare il suo sguardo.
«Lascia stare, non mi crederesti».
«Se ti dicessi che anche io ho visto qualcosa di strano, oltre quelle finestre?».
Stefano chiuse gli occhi, ringraziando in cuor suo il ragazzo per quella, seppur macabra, flebile certezza.
Il ragazzo rimase ad ascoltare ogni particolare senza batter ciglio. Quando Stefano ebbe finito il suo sconcertante racconto, Andrea si alzò dirigendosi verso la porta.
«Ma dove vai?».
«Fidati di me, torno subito».
«Ho altra scelta?
***
Circa mezz’ora dopo, Andrea faceva il suo ingresso nella camera.
«Ho parlato con una persona, spero non ti dispiaccia. Avrei voluto portarti da lei, ma non ha voluto. Ha preferito venire qui».
«Chi è?».
«Avresti dovuto incontrarla quando sei arrivato, ma non si sentiva bene» disse Andrea invitando un esile donnina ad entrare nella sua camera.
Stefano si alzò cercando di ricomporsi.
«Questa è Ines, la nostra padrona di casa».
Stefano accennò ad un sorriso, ma la donna non ricambiò.
La vide annusare l’aria, mentre il suo sguardo guizzava da una parte all’altra della stanza in penombra.
«Apri le persiane!» ordinò ad Andrea.
«No, per favore. La luce mi da un tremendo fastidio».
«Anche a lui!» rispose severa, la vecchina. «Lo hai portato con te, sento il suo odore in questa stanza».
Non poteva credere a quello che gli stava succedendo. Ma di chi stava parlando? Chi aveva portato?
La donnina gli si avvicinò, gli arrivava a malapena al petto. Gli mise una mano sullo stomaco e con una lieve spinta lo costrinse a rimettersi seduto.
Guardò i ragazzi. «Annusate l’aria, annusate bene».
E lo fecero. L’ambiente iniziava ad avere un leggero olezzo di marcio.
«Lo sentite? È l’odore di morte. Apri quella finestra!».
Andrea non se lo fece ripetere!
La luce del giorno inondò la stanza, e fu un sollievo per tutti.
La donnina iniziò a camminare piano, percorrendo ogni centimetro della stanza.
«Ti stava aspettando, io l’ho visto dalla finestra della mia stanza. Era lì, nella penombra della “sua” stanza e ti guardava».
«Ma di chi sta parlando?» chiese spaventato Stefano.
«Sai bene di chi parlo, non lo stavi forse cercando da tanto tempo? Bene, lo hai trovato ragazzo. Il male! Un’entità maligna che ti è rimasta attaccata, ma non può averti completamente, lo sento, ed è un bene».
Poi ad un tratto si fermò e voltò lo sguardo nell’angolo tra l’armadio e il muro.
La donnina iniziò a respirare con un leggero affanno, lo sguardo spaventato verso l’angolo in ombra, una lacrima traboccò dagli occhi spalancati percorrendo le guance rugose.
«Non posso fare nulla!». Indietreggiò angosciata.
«Per l’amor di Dio, non mi abbandoni, la prego…».
La vecchina gli si avvicinò, il suo sguardo severo, adesso era solo triste.
«Non lo farò. Io non posso aiutarti, ma so chi può».
Si aggrappò al braccio di Andrea. «Vieni con me, devi accompagnarmi in un posto ed è da molto tempo che non esco da questo palazzo».
«Non ho auto, Ines…».
«Non andremo lontano».
Stefano rimase solo, terrorizzato, con gli occhi che gli bruciavano sempre di più. Un’entità maligna gli si era appiccicata addosso ed era chiaro che fosse lì con lui nella stanza. Guardò nell’angolo che poco prima aveva scosso Ines, con il cuore che gli martellava nel petto, raggiunse la scrivania e prese il cellulare. Azionò la video camera e la puntò nell’ombra.
La piccola figura lo guardava con torbidi occhi neri, la pelle sfaldata e grigiastra, sembrava perdere del fluido colloso. Sull’orrido viso un ghigno di sfida sfoderava una dentatura fitta e affilata. Con uno scatto gli si avventò addosso, catapultandolo all’indietro. Stefano cadde battendo la testa, ma in un attimo si tirò su, guardandosi in giro terrorizzato. Senza il filtro del video non riusciva a vederlo. Raggiunse il letto e vi si accovacciò, coprendosi col lenzuolo, come faceva da bambino, sicuro che così sarebbe stato al sicuro dai mostri. Non poteva fare altro, non era in grado di fare altro. Rimase così in attesa che i suoi salvatori facessero ritorno.
Quando Andrea rientrò era ormai pomeriggio inoltrato. In casa non c’era nessuno, Giacomo e Carlo avevano preferito non avere niente a che fare con quella storia. Vigliacchi!
Il tanfo nella stanza era divenuto quasi insopportabile, nonostante la finestra aperta. Stefano era rannicchiato in un angolo, fissava il ragazzo con gli occhi gonfi di pianto.
«Lo sento, Andrea, lo sento respirare nella mia testa».
Andrea lo raggiunse immediatamente, aiutandolo ad alzarsi.
«Dai amico, vedrai che ne usciremo da questa storia, vieni ti aiuto a metterti a letto».
Stefano gli si aggrappò alla maglietta. «Devi ascoltarmi, lo sento respirare nel cervello. Ti prego, ascolta, vieni avvicinati». E così dicendo avvicinò tremante la sua testa a quella del ragazzo, finché il suo orecchio non combaciò col suo.
«Ascolta…» disse in un bisbiglio.
«Cristo!».
Era vero, era come se il cervello respirasse emanando una leggerissima aria tiepida e puzzolente dal condotto uditivo.
«Tieni duro ancora qualche ora amico, e prenderemo a calci in culo questo bastardo».
Non erano andati molto lontano lui e Ines, l’aveva accompagnata nella chiesa in cui Stefano era stato il giorno prima. Avrebbe voluto aspettarla fuori, ma la donna lo aveva costretto a stare con lei quando aveva parlato col sacerdote. Rimase sconcertato dalle poche parole che si scambiarono. Ines non si era neppure voluta sedere, quando il prete la invitò.
«E’ fuori!» gli disse severa.
«Lo immaginavo, padre Michele aveva sentito qualcuno, ed è venuto a chiamarmi. Siamo andati a controllare in tutto l’ospedale, ma non c’era più nessuno».
Sapevano dunque dell’entità che si celava tra quelle mura e lo avevano tenuto nascosto, forse sicuri di poterla contenere.
Il prete fece una telefonata e dopo circa un’ora entrarono in sacrestia quattro frati incappucciati e gli fu chiesto di uscire.
Solo dopo qualche ora Ines uscì nella cappella, dove l’aspettava con ansia.
«Tu vai da lui, io resterò qui. Dovremo aspettare che non ci sia più nessuno per la via. Verremo a prendervi stanotte. Stai tranquillo tu non corri alcun rischio. Il “male” ha scelto Stefano».
E con queste parole lo aveva congedato.
Ormai era buio e via Manno era deserta. Andrea sperava che arrivassero presto, non poteva più sopportare di vedere il suo nuovo amico contorcersi e urlare. Non sopportava più il respiro sibilante che gli usciva, innaturalmente, dalle orecchie.
Finalmente due frati entrarono nella stanza, sollevarono il ragazzo dalle braccia e lo condussero nel pianerottolo. Andrea fece per seguirli ma una mano forte lo bloccò.
«Tu no!».
Si arrese di buon grado a quell’imposizione, era stanco.
Vide dalla finestra altri due frati e il sacerdote fermi sulla soglia della chiesa, che quando videro gli altri due, con il ragazzo praticamente appeso tra di loro, gli andarono incontro. Stefano iniziava ad agitarsi, i quattro frati lo immobilizzarono, mentre il sacerdote gli mise un bavaglio sulla bocca. Quando lo costrinsero a salire sulle scale del portone si scatenò l’inferno. Nonostante il bavaglio, le urla di Stefano erano chiare e strazianti. Non voleva entrare, urlava e si dibatteva. Urlava parole incomprensibili che Andrea non capì, fino a quando vide dall’alto i quattro uomini tirare il ragazzo dagli arti verso l’ingresso, e una forza invisibile bloccarlo dalla testa. Lo sguardo disperato rivolto al cielo sanguinava sporcando il candido tessuto che gli circondava il capo imbavagliandolo. Il sacerdote continuava imperterrito a spruzzare acqua santa con l’aspersorio, mentre i frati tiravano dentro il ragazzo. Un ultimo strattone e sparirono oltre la porta e fu il silenzio.
I frati adagiarono Stefano sul pavimento dell’ingresso, Ines lo raggiunse. Si inginocchiò prendendogli la testa sulle gambe, gli slegò il bavaglio, e gli asciugò le lacrime di sangue. Stefano era svenuto, ma respirava sereno, sembrava addormentato.
Amorevolmente la donna, gli baciò la fronte e sorrise.
«Adesso sei libero ragazzo».
(3 – fine)