ORWELL E LA TRADUZIONE COME DISTOPIA

“La traduzione come distopia” è stato il tema del secondo appuntamento della rassegna letteraria “Scrittori allo specchio” tenuto a Matera giovedì 14 settembre e dedicato ai capolavori della narrativa contemporanea. L’evento culturale è organizzato dall’associazione “Amabili Confini”, sodalizio coordinato da Francesco Mongiello.

Ospite della serata è stato Daniele Petruccioli, traduttore e docente di Traduzione Editoriale dal Portoghese e Teoria della Traduzione all’Università di Roma “Unint”, che ha parlato del romanzo “1984 del grande scrittore e genio visionario George Orwell.

Il romanzo di Orwell è considerato un capolavoro del genere distopico e della fantascienza. L’azione si svolge in un futuro prossimo del mondo (l’anno 1984, il libro è stato pubblicato invece nel 1949) in cui il potere si concentra in tre superstati: Oceania, Eurasia ed Estasia. A capo del potere politico in Oceania c’è il Grande Fratello, onnisciente e infallibile, che nessuno conosce ma che campeggia ovunque su grandi manifesti. Il Ministero della Verità, nel quale lavora il protagonista, Winston Smith, ha il compito di censurare libri e giornali non in accordo con la politica ufficiale, di manipolare la storia e di ridurre le capacità espressive della lingua creandone una nuova. Per quanto sia tenuto sotto controllo da telecamere, tuttavia Smith comincia a condurre un’esistenza “sovversiva” iniziando una relazione amorosa, considerata reato dal regime, con Julia.

Winston alla fine della vicenda, sarà arrestato, torturato e imparerà ad amare solo il Grande Fratello e come lui anche Julia. Una delle ragioni per cui “1984” ultimamente è stato oggetto di diverse traduzioni in Italia (difatti la Bur ne ha chiesto anche una versione per pre-adolescenti), ha affermato nella conferenza  Daniele Petruccioli, è dovuta al fatto che il testo di Orwell è riuscito a fondere in maniera esemplare il genere distopico, un’analisi precisa e vivida della realtà dei suoi anni, insieme a una forza visionaria capace di guardare e parlare alla società contemporanea facendola riflettere sugli attuali mezzi di comunicazione digitale. Orwell, infatti, è partito dai totalitarismi della prima metà del ‘900 per modellare il suo “Big Brother”, ha attinto alla propaganda, alle immagini, ai risultati drammatici ottenuti da questi regimi e a proiettarli in una dimensione futura con l’invenzione di strumenti tecnologici (schermi e telecamere) che possano controllare chiunque, prevedendo una realtà possibile e molto vicina a oggi, cosa che può essere l’involuzione della cosiddetta rivoluzione digitale. Solo un grande capolavoro riesce, a catturare la realtà a più di settanta anni dalla sua pubblicazione continuando a stimolare e forse a inquietarci con pensieri sul nostro destino come umanità.

Antonella Radogna