Durante un fine settimana del 1973, in Louisiana stanno svolgendosi le canoniche esercitazioni militari della Guardia Nazionale. Alla squadra sotto il comando del sergente Poole viene assegnato l’incarico di attraversare un ampio tratto di paludi per diverse decine di miglia fino a ricongiungersi con il resto dei compagni, nelle vicinanze del centro abitato di Catahoula. I nove che compongono il piccolo plotone, giovani fin troppo nella norma (tanto che alcuni paiono essersi accordati con delle prostitute per il meritato “riposo del guerriero” una volta arrivati in paese), si accorgono soltanto una volta lontani dal campo base che la loro mappa è imprecisa: il fiume ha esondato, cancellando il sentiero che avrebbero dovuto percorrere. La squadra, anziché tornare al campo, decide di proseguire “prendendo in prestito” delle canoe ormeggiate lungo la riva. Pessima idea perché purtroppo i loro proprietari, dei bracconieri cajun, arrivano mentre la pattuglia si trova già in acqua; come se non bastasse, il soldato Stuckey si diverte a spaventarli con una raffica del suo mitra caricato a salve. Gli acadiani (dal francese “cadiens” divenuto poi “cajuns”), che credono veri i colpi, rispondono al fuoco dell’idiota uccidendo il sergente Poole. I superstiti cadono in acqua perdendo radio e bussola (anche in senso metaforico), raggiungono la riva a nuoto e da lì iniziano una lunga via crucis attraverso foreste e paludi per cercare una via d’uscita. I cajun continuano a inseguirli senza tregua, soprattutto dopo che i militari hanno peggiorato la situazione facendo prigioniero uno dei bracconieri e che il caporale Bowden, ormai prossimo alla follia, ne ha distrutto il capanno. In sostanza essi non si mostrano mai, se non attraverso minacciosi animali sventrati, cani rabbiosi aizzati contro la pattuglia e trappole letali occultate nella palude. Il gruppo va disgregandosi anche a causa della pessima prova di sé che offre il sergente Casper, al comando del drappello dopo la morte di Poole, e fra i soldati l’ansia per la propria sorte raggiunge il climax. In questa confusa situazione, il prigioniero si dà alla fuga grazie alla sua difesa da parte del caporale Hardin. Proprio quest’ultimo, insieme a Spencer e con l’insperato aiuto dell’acadiano fuggiasco, riesce a raggiungere un paese cajun mentre le ricerche partite per trovare il drappello lo sfiorano senza riuscire a localizzarlo. Nel villaggio è in corso una festa che ci riporta a un passato quasi ottocentesco (in esso manca addirittura il telefono, ma tutti sembrano piuttosto allegri) in cui chi mangiava un maiale doveva ucciderselo (o la scena è una metafora minacciosa di quel che aspetta i soldati?). In esso i superstiti in divisa non sanno raccapezzarsi perché tutti parlano francese più che inglese, li invitano al banchetto e a ballare, mentre fuori i bracconieri li aspettano per regolare definitivamente i conti. Il paesino è connivente con i criminali? I suoni del ballo sono fatti ad arte per coprire gli spari? O i suoi abitanti non sanno davvero nulla di ciò che è accaduto ai loro ospiti? In ogni caso lo scontro per la vita sarà inevitabile, e mentre i superstiti cercano di farsi individuare da un elicottero, un camion che sembra uscito dal nulla taglia loro strada. Salvezza o fine dei giochi?
Fin dall’epoca di Un tranquillo weekend di paura (1972), al quale guardò con tutta probabilità Hill come fonte d’ispirazione, gli americani cittadini e statalizzati hanno mostrato di intendersi poco e male con quelli scarsamente censiti e sparsi sui monti Appalachi o nelle paludi dalla Louisiana al Texas e di arrivare facilmente allo scontro con essi (almeno al cinema), vuoi per colpa loro, vuoi per colpa degli altri. In fin dei conti, per venire a I guerrieri della palude silenziosa, è come se nei “selvaggi” abitanti dell’inospitale paesaggio fatto di canne, fango e alberi palustri in qualche modo sopravvivesse il libertario spirito della frontiera che non vuole farsi ingabbiare da alcuna forma di burocrazia, verso la quale – nel loro caso specifico – la diffidenza non nasce senza ragione: il ricordo della deportazione e della pulizia etnica alla quale essi vennero sottoposti tra il 1755 e il 1763 da parte degli inglesi, pulizia etnica parzialmente riuscita: i britannici, infatti, riuscirono ad anglicizzare la zona tanto sotto il profilo della popolazione quanto sotto quello della lingua. Inoltre, fatto ancor più grave, a seguito della deportazione furono almeno 13.000 le vittime di una comunità che prima di essa contava 23.000 individui. Proprio a seguito di questi eventi una parte dei sopravvissuti si stabilì nella Louisiana sud-occidentale fondando una comunità con dei caratteri culturali (prima di tutto linguistici) ben distinti.
Oltre gli aspetti di atavico rancore, forse ne I guerrieri della palude silenziosa c’è però anche un altro ricordo, più generico ma non meno storico, che data fin dal Medio Evo: quello delle tante evangelizzazioni forzate da parte della religione cristiana nei confronti dei rappresentanti di ogni cultura diversa da quella dominante, opposizione sulla quale mette l’accento il regista quando Bowden, impazzito, prima di distruggere con una molotov la casa del cajun senza braccio, si dipinge una croce sul petto (“tipo l’Angelo vendicatore, quelle cose là” dice lo stesso autore del rogo).
Per il resto, il film è abbastanza prevedibile sotto il profilo della caratterizzazione dei personaggi, con le coppie di buoni e cattivi presto fatte: Spencer e Hardin da una parte, Reece e Stuckey dall’altra. Nel mezzo si collocano l’afro Tyrone Cribbs, il nuovo caposquadra Casper, l’impulsivo Simms e il già citato Bowden, ridotto all’impotenza dai suoi stessi compagni. A differenza di Un tranquillo week-end di paura, e non è una differenza da poco, nella pellicola di Hill almeno all’inizio i persecutori sono presentati come vittime che reagiscono comprensibilmente a un furto e in rapida successione a uno scherzo atroce; solo in un secondo momento si abbandoneranno alla ricerca di una sadica vendetta.
Frattanto, nel campo avversario “il panico e la follia presto surclassano la disciplina e l’allenamento; le menti umane non sono preparate per la guerra, neppure su piccola scala” (Mike Massie): per questo la pazzia di Bowden solo a tutta prima può apparire non troppo motivata. Presto arriva anche un altro momento tragico che questa volta coinvolge Hardin e Rice in un duello all’ultimo sangue; poi è la volta di Simms sparare alle ombre… insomma, i cajun, una volta innescato il meccanismo uccidendo il capopattuglia della guardia civile, non hanno neppure bisogno di intervenire personalmente per far scoppiare le contraddizioni in seno a un gruppo i cui componenti faticano a sopportarsi: bastano trappole e cani feroci per farne schizzare i componenti l’uno contro l’altro o mostrarne l’incapacità a sopportare lo stress. Pare di essere capitati sull’isola de La pericolosa partita, alla mercé dei nipotini del conte Zaroff, che trovano nella caccia all’uomo l’eccitante più potente di qualsiasi droga. Come abbiamo detto, tuttavia, l’ambiguità dell’inizio (chi sono i buoni e chi i cattivi?) persiste cambiando cajun: la lunga sequenza finale della festa nel villaggio, ci presenta una comunità indubbiamente povera e arretrata (c’è l’elettricità, non il telefono), ma certamente spensierata – in netta opposizione al paesaggio palustre che li circonda, malsano e malinconico. I luoghi labirintici, sempre uguali a loro stessi come un deserto liquido e muschioso, che ricorda da vicino l’idea del Vietnam come pantano letterale (John Beifuss), viene spesso sottolineato da Hill con le sue dissolvenze incrociate e sovrapposizioni che non cambiano un bel nulla nel paesaggio, indicano soltanto un progredire orizzontale del cammino dei protagonisti identico a sé stesso, senza una direzione precisa: a differenza de I guerrieri della notte, infatti, questi guerrieri non sanno dove stanno andando, e comunque non stanno semplicemente cercando di tornare a casa come Swan, Ajax e soci; disperati, vogliono soltanto uscire da una palude della quale e nella quale si sentono prede. Il pericoloso segmento di linea che viene percorso in entrambe le pellicole (quartieri newyorkesi o acquitrini che siano) con i vari imprevisti drammatici che si assommano e complicano come in un videogioco (con il salto di livello che ne I guerrieri della palude silenziosa è rappresentato dall’ingresso nel villaggio, sbloccato dall’aiutante prigioniero fuggiasco) mostra che al regista non spiacciono affatto gli aspetti filmici prossimi a Xbox e Playstation, tali da rendere del tutto inutile la diatriba tra novità del videogioco e obsolescenza del film (se si vuole un esempio del contrario, si veda il game The Binding of Isaac di McMillen e Himsl). Ciò è testimoniato in maniera più marcata, anche se involontaria, in Driver l’imprendibile diventato celebre per i suoi inseguimenti, che faranno scuola e ispireranno una serie famosa di videogames intitolata per l’appunto Driver, dove – nello stesso modo del film – l’autista è al servizio di gangster sempre in fuga dalla polizia. Lo stesso vale anche per un film minore come I trasgressori (1992), nel quale l’oro, vero protagonista della vicenda, nel corso della storia si sposta gradualmente e letteralmente dall’alto verso il basso, lasciando sullo sfondo i personaggi, che di fatto sono al suo servizio – e dunque al servizio di un oggetto – come vuole una pellicola (ma potrebbe tranquillamente trattarsi di un videogioco) interamente incentrata sulla reificazione.
Due curiosità che attirerebbero il cancellino del politicamente corretto dei nostri miserandi giorni puritani: l’uccisione reale del maiale e (poteva mai mancare?) la parola “negri”: “Devono essere i negri a portare sfortuna”, dice un caucasico del gruppo alludendo all’afro Cribbs – e questi: “Mi sa che hai ragione: è un sacco di tempo che ne frequento e non me ne è mai andata dritta una!”. La battuta funzionerebbe anche con “neri”, ma la Storia no.
Per concludere, due parole sulla lunga carriera di un regista che è stato in grado a più riprese di rivedere, correggere e contaminare con soluzioni decisamente originali i generi veramente più diversi se, come abbiamo accennato, fra essi possiamo includere – oltre a poliziesco, survival, action, western e videoclip – addirittura i videogames.
Walter Hill (Long Beach, 10 gennaio 1942), dopo aver completato gli studi di storia e letteratura alla Michigan State University, si iscrive a un programma di formazione del Directors Guild of America; il suo primo approccio col mondo del cinema avviene in qualità di co-sceneggiatore e aiuto-regista. Fra le sue prime sceneggiature si ricordano Getaway!, nel 1972, diretto da Peckinpah (uno dei numi tutelari di Hill) con Steve McQueen, L’agente speciale Mackintosh nel 1973, e Detective Harper: acqua alla gola nel 1975, entrambi con Paul Newman. Dopo un non memorabile esordio alla regia, nel 1978 arriva Driver l’imprendibile di cui abbiamo parlato poco sopra. Il vero successo giunge però nel 1979 con I guerrieri della notte, nel quale campeggia una gang newyorkese in lotta per la pura sopravvivenza dei suoi componenti. Nel 1982 Hill tiene a battesimo in 48 ore Eddie Murphy, coprotagonista insieme a Nick Nolte: un altro successo. Strade di fuoco, con Michael Paré, Willem Dafoe e una Diane Lane alle prime armi, sembra un aggiornamento de I guerrieri della notte in salsa anni ’80, incentrato com’è su una serie di videoclip. Il regista, dopo una sfortunata parentesi nel comico, decisamente fuori dalle sue corde, torna ai suoi temi più congeniali, con Ricercati: ufficialmente morti, interpretato ancora da Nick Nolte, uno dei suoi attori prediletti. Rifacendosi a 48 ore, propone nuovamente la coppia tragicomica in Danko: Arnold Schwarzenegger è un ufficiale della polizia sovietica costretto a lavorare con uno svalvolato James Belushi. Dopo, firma Johnny il bello, interpretato da Mickey Rourke; il film è assai pessimista e trova un altro memorabile protagonista in un Morgan Freeman che si erge sugli altri per cinismo e spietatezza del personaggio. Nel 2002 dirige Undisputed, film che incrocia l’ambientazione carceraria con il sottogenere pugilistico. Wesley Snipes e Ving Rhames interpretano due boxeur incarcerati che si sfidano dietro le sbarre: l’esito del loro incerto incontro però non sarà mai conosciuto dal grande pubblico. Il film incassa relativamente poco, ma in seguito vende molto nel mercato home-video diventando un esempio per gli altri due seguiti, non diretti da Hill. L’ultima sua fatica risale al 2016 con Nemesi, che ha per protagonista Sigourney Weaver.